CRONICA  XLVII

Fabio Brotto

brottof@libero.it

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LIBRO. È un libro serio, che anzitutto proprio per la sua serietà spicca in mezzo alla massa dei libri sulla scuola che continuamente vengono stampati, quello curato da Eros Barone per l'IRRE Lombardia, e pubblicato da Franco Angeli (Milano 2006) col titolo Ripensare la forma-scuola. Analisi e proposte. È anche un libro ambizioso, se lo si legge con attenzione e si pesa la quantità e qualità dei riferimenti e delle citazioni, spesso dottissime. Ed è un libro politico, come vedremo, ed un libro di sinistra. La sua serietà chiede un confronto serio, che cercherò di attuare nei limiti di una Cronica.

Di Eros Barone, di cui le mie Croniche hanno ospitato due interventi (http://www.bibliosofia.net/files/CRONICA_30.htm e http://www.bibliosofia.net/files/CRONICA_37.htm), apprezzo il rigore e la coerenza, ma non condivido l'impostazione teorica di fondo, come egli ben sa.

Ripensare la forma-scuola è un libro che invoca il pensiero, e questo è un merito che gli va riconosciuto, anche in considerazione del fatto che i prodotti della psicopedagogia dominante a tutto sembrano far riferimento tranne che ad un autentico pensiero. Il testo si compone di una introduzione e di sei saggi, di spessore, lunghezza e natura diseguali, ma orientati da una impostazione comune ad una visione sostanzialmente concorde della realtà scolastica e delle sue possibili evoluzioni. Secondo gli autori, e Barone lo mette subito in chiaro nell'Introduzione, è necessario e urgente rinnovare l'asse educativo e riformare i contenuti della scuola, mentre in tutti i Paesi occidentali tutte le riforme scolastiche si sono occupate solo di ordinamenti (p. 13). Già qui inizio a trovarmi in disaccordo—nonostante io sia sempre stato convinto della essenziale importanza dei contenuti, e dell'essere il metodologismo, imperante negli ultimi decenni, un rifugio per gli ignoranti—in quanto ritengo che in Italia si sia pesantemente inciso sui contenuti della scuola (basta pensare a come si insegna oggi la storia alle elementari rispetto ad un tempo: un abominio, che ha portato alla cancellazione della memoria storica nelle giovani generazioni). Gli ordinamenti e i contenuti stanno, infatti in un rapporto dialettico.

 

Dirò dunque subito quali sono i miei punti di dissenso, che come sempre mi accade sono più importanti e numerosi di quelli di consenso. Essi poi emergeranno man mano che procederò nella breve disamina del testo.

 

Anzitutto è evidente che il libro si rivolge ad una cultura riformatrice, che esso vuol evidentemente rilanciare, e alla quale io mi sento totalmente estraneo. Siamo in un Paese in cui tutti si dichiarano riformatori (e già bisogna distinguere riformatori da riformisti) sia a destra che a sinistra, e dichiarano essere riforme fasulle o controriforme quelle vantate dalla controparte politica come vere riforme. Nel libro in esame la cultura riformatrice è una cultura laica, progressista, e con indubbie fortissime venature marxiste e habermassiane. Una cultura che ha il fine di ridare alla scuola una forma in cui la relazione studente-insegnante si fondi sull'essere l'insegnante un vero insegnante. Fine sul quale, se lo si assume formalmente, non posso che essere d'accordo. Il problema è che il vero insegnante per gli autori del testo è un insegnante la cui dimensione individuale, che secondo il mio pensiero è la cosa essenziale e fondativa, è secondaria rispetto al collettivo, al team di lavoro, alla forma dell'istituzione, e via subordinando. Insomma, secondo me l'insegnante è prima di tutto un individuo che deve formare altri individui, e che rispondendo personalmente del suo lavoro deve anzitutto insegnare a rispondere personalmente del proprio lavoro, mentre qui è il membro sempre fungibile di un collettivo. In definitiva, la mia è una visione liberale, mentre qui la visione è socialista. Ma questa cultura riformatrice ha oggi la possibilità di essere egemonica? Secondo i saggisti del libro sì, secondo il sottoscritto no.

 

In secondo luogo, il libro si riferisce frequentemente e consapevolmente alla tematica della globalizzazione, ma il discorso si riduce all'Occidente, e non viene mai approfondito, dando per scontati invece tutti i luoghi comuni progressisti circa la negatività della globalizzazione di matrice anglosassone – quasi poi vi fosse quell'unico agente, l'America. La realtà non occidentale, che si presenta forte e competitiva anche sul piano della formazione (scuola indiana e cinese), è assente. Questo a mio parere è un difetto mortale.

 

In terzo luogo, altro grande assente, in un libro complessivamente segnato da una impostazione storicistica, è la grandiosità del tentativo marxista nelle sue incarnazioni storiche e nel suo fallimento. Mentre il capitalismo realizzato è qui puramente e semplicemente il negativo, del socialismo realizzato e della sua scuola (esaltata, ben lo ricordo, alcuni decenni or sono, dalla parte maggioritaria della Sinistra italiana) non si dice nulla. Anche questo è un grave difetto. L'argomentazione complessiva ne risulta indebolita, e in qualche modo monca.

 

In quarto luogo, c'è il problema dei destinatari del testo. La sua scrittura, con l'eccezione della conferenza di Piero Romei, è molto difficile, a tratti quasi esoterica, e in stile spesso pesantemente accademico. Vi prevalgono i contenuti e i riferimenti filosofici. Questo lo rende inaccessibile agli insegnanti che non siano professori di storia e filosofia. Alcuni dei passi che riporto in questa Cronica sono esemplari in questo senso.

 

Infine manca una vera cognizione della realtà degli insegnanti come gruppo. Qui a volte sembrano essere intesi quasi come una classe sociale, o comunque come un gruppo coeso e ancora una volta idealizzato, e disposto a svolgere un lavoro di altissimo livello. Sono rappresentati come una Repubblica di Platone, e non come la feccia di Romolo che nell'Italia di oggi in realtà sono. Invero, gli alti fini e i nobili e complessi scopi che gli autori propongono alla classe docente richiederebbero che questa fosse composta di persone preparatissime nelle proprie discipline, vogliosissime di aggiornarsi continuamente, di aperte vedute, portate alla critica (costruttiva), pedagogicamente formate e formantesi continuamente, dotate di alto senso dell'istituzione e della democrazia, politicamente sensibili, esponenti di una cittadinanza attiva, ecc. ecc. Qui non saprei se farmi assalire dal pianto o dal riso, o da entrambi.

 

Già nella ricca Introduzione di Eros Barone si delinea la questione fondamentale del libro, che è quella della cultura riformatrice. Il lettore ovviamente dovrebbe già sapere che cosa essa sia, perché non gli viene propriamente spiegato, e il suo concetto viene in qualche modo presupposto. Del resto, come ho anticipato, il lettore del libro che gli autori hanno presente è un docente estremamente colto, quale è forse il due per cento degli insegnanti reali (penso anche a tutti gli insegnanti elementari, e a quelli di educazione fisica, ma anche di materie scientifiche, che non possono confrontarsi con un testo che richiede una base filosofica non precaria: credo che nella mia scuola, un liceo classico, nemmeno un decimo degli insegnanti potrebbe misurarsi con queste pagine...).

Il c. 4 dell'Introduzione non a caso si intitola Il rapporto tra cultura riformatrice e professionalità docente. Questo poteva essere l'autentico sottotitolo dell'opera. Barone chiede infatti "una correlazione dinamica e organica, che faccia della cultura riformatrice e della professionalità docente i poli di un campo di tensioni capace di modificare sia l'una che l'altra" (p. 25). Insomma, si potrebbe dire che qui si vede nell'insegnante (ideale) un intellettuale organico alla cultura riformatrice. La quale sembra un calderone piuttosto ampio, in cui si può mettere di tutto, purché sia progressivo. In questo senso, mi sembra emblematico questo passo, in cui Barone afferma che ora si tratta

 

di attingere ispirazione, strumenti e categorie dai modelli sistemici e costruttivisti che caratterizzano il paradigma della complessità, cui sono riconducibili gli sviluppi più avanzati delle scienze cognitive, della fenomenologia, dell'ermeneutica, dello strutturalismo e del materialismo storico. È questa, come dimostrano con il loro serrato ragionare gli autori dei saggi ospitati in questo volume, una via lungo la quale una pedagogia più scaltrita e più agguerrita può giungere a coniugare, evitando che si cristallizzino in antinomie, il cognitivo e l'affettivo, l'educazione e l'istruzione, l'insegnamento e l'apprendimento, la comunicazione e l'organizzazione, l'autonomia e il curricolo, i processi autopoietici e gl'interventi formativi, i condizionamenti biologici e le determinazioni sociali: una via, dunque, che merita di essere percorsa da chi "ha cura" della scuola e "desidera" creare le condizioni necessarie per un cambiamento della sua forma e del suo dispositivo. (p. 16)

 

Dirò, in termini secchi, che il non risolto del libro, che appare fin dall'inizio è il tema del rapporto tra forma-scuola e società occidentale contemporanea,  che è società del libero mercato inserita in un contesto internazionale globalizzato. E capitalistico, piaccia o non piaccia. Da tutti i saggi del libro appare evidente un giudizio negativo a priori su riforma Moratti,  capitalismo, liberismo e globalizzazione così com'è. Questo ovviamente pone di riflesso il problema degli agenti della cultura riformatrice qual è pensata dagli autori, e dei non-agenti, o degli avversari. Insomma, tra gli insegnanti ci sono anche quelli che votano per Fini, Berlusconi e Bossi. E non sono sempre cattivi insegnanti. Ho conosciuto invece parecchi insegnanti esponenti della cultura riformatrice dei quali penso che come insegnanti non valgano una mazza.

 

È chiaro che a chi, come il sottoscritto, ha considerato molto negativamente l'azione di Berlinguer e De Mauro risulta poi difficile trovare un punto comune con quelli che di questo duo danno invece un giudizio sostanzialmente positivo. Con Berlinguer e De Mauro sarebbe iniziato, secondo questo libro, un processo riformatore che avrebbe portato la scuola italiana verso orizzonti, se non pienamente radiosi, almeno non privi di luce (rosa). Vedansi ad es. le pagine 95 – 96 (Zanelli) e 240 – 241 (Molinari). Ma poi è arrivata la trista Moratti, col cattolicume di contorno...

Appunto, i due ministri sopra nominati sono esponenti della cultura riformatrice. Diciamo dunque che questa a cui il libro guarda è la Sinistra della scuola, e tutto sarà più chiaro. Nel saggio di Pietro Zanelli, intitolato Professionalità docente, riflessività sociale e formatività, la cui scrittura è purtroppo un didattichese psico-socio-filosofico a tratti insostenibile, si dipana un ragionamento che trascorre dagli splendori di Berlinguer e De Mauro agli orrori della Moratti attraverso una  mole di citazioni e riferimenti da cui l'unica cosa certa che traspare è il rifiuto della "mondializzazione neoliberista a pensiero unico", per arrivare a pag. 114 ad una vera e propria invocazione di una teofania:

 

 C'è bisogno di una riforma che, mentre mette in atto dispositivi poliarchici nutriti di processi di apprendimento, tra doverosità della ragione e suo esplosivo decentramento, per legami organizzativi "deboli" favorevoli all'emersione dell'auto-imprenditività dei soggetti e della integrazione concordata e autonoma dei loro punti di vista, promuova e assecondi una omologia fra la trasformazione dei saperi (curricolari ed extracurricolari) e la trasformazione degli habitus, in almeno tre direzioni: degli studenti, dei docenti, degli studiosi di scienze della formazione.

C'è bisogno di una nuova generatività. Una specie di mattino di Pentecoste «in cui lo Spirito, propriamente, errava in una molteplicità di lingue», con un «nuovo arcipelago» delle connessioni tra i saperi e «una nuova intellezione» nei soggetti.

 

Questo è un esempio di come non si deve scrivere. Ma, santo cielo, una nuova intellezione. Non si chiede poco, in verità. Ma, per essere a nostra volta un poco materialisti storici, e andando a vedere cosa possa celarsi di materiale, nel senso di interesse (anzitutto all'auto-giustificazione dell'esistente mediante la quale è attuata la conservazione della propria funzione sociale, cosa che riguarda anche l'insegnante: mi viene in mente il Partito rivoluzionario istituzionale che governa il Messico) vediamo nel capitolo intitolato "Elementi per una grammatica delle strutture riflessive dell'insegnante sensemaker" (oh, concisione; oh, libertà dal dominio della lingua globalizzante!; oh, nobile mansione assegnata al docente!) che l'insegnante della cultura riformatrice non può operare da solo, ma

 

La messa a fuoco della "riflessività riformista", pur non essendo impossibile nel singolo ricercatore, è agevolata indubbiamente dai gruppi di ricerca che si autocostituiscono in laboratorio di ricerca a vari livelli socioamministrativi, organizzativi e politici dell'Istruzione (scuole, reti di scuole IRRE, università) (p.120).

 

Passo che mi sembra significativo. Ogni organismo, che sia biologico o burocratico, tende anzitutto alla propria conservazione. Zanelli e gli altri saggisti avanzano le loro tesi sostenendole con una congerie di argomentazioni su ciascuna delle quali occorrerebbe soffermarsi, anche perché talvolta le affermazioni, nonostante l'apparente rigore accademico, sono assai discutibili, non critiche come vorrebbero ma liquidatorie delle altrui posizioni (secondo i saggisti io sarei senz'altro un portatore di spiritualismo anti-illuministico – questi, del resto, vedono nell'illuminismo il bene tout-court e sembrano ignorarne la dialettica infernale). Vedasi a pag. 131 la pseudo-argomentazione con la quale viene liquidato (qui l'espressione dal sapore leninista mi sta bene) il problema della debole presenza nella scuola di insegnanti maschi. Che è un vero problema, come sa chi, come me, ha un figlio maschio che per tutto il percorso delle elementari e delle medie ha avuto solo docenti-donne, e ha sofferto della mancanza di figure maschili, mentre ora al liceo ha anche docenti-uomini e ne è felice.

 

Non si può non rilevare, inoltre, che il libro si confronta con la riforma morattiana, cui addebita di tutto, ma soprattutto l'erezione di "nuovi muri mentali pseudopersonalistici e premoderni" (sempre Zanelli a p. 134). Ora, gli scarsi lettori di queste Croniche conoscono la scarsa simpatia dello scrivente per l'opera di Letizia Brichetto (o, come dicevan tutti, Moratti), ma anche la sostanziale omologia che egli intravede tra l'opera di lei e quella dei predecessori sinistri, tanto da parlare di Riforma B&B. Insomma, io non vedevo, e dopo questo libro continuo a non vedere, un antagonismo reale. Ma il libro, per ovvie ragioni temporali, si confronta con la riforma morattiana in un momento sbagliato, cioè quando al posto della Brichetto siede, da un anno ormai, l'ineffabile Fioroni. E io non vedo grandi cambiamenti sistemici, ma solo aggiustamenti. O compromessi italioti come l'esame di stato che torna al mezz'e mezzo, gran parto di un miserevole ircocervo.

 

L'insegnante pensato da Zanelli (e dagli altri) non è cosa nuova, è in realtà l'insegnante della scuola dell'autonomia berlingueriana. Lo si vede in molti passaggi del libro, che qui non riporto. Si tratta di un'assoluta evidenza. Il libro potrebbe intitolarsi anche Torna al Ministero, Berlinguer... Che cosa succede? Succede infine che la cultura riformatrice non può che produrre formule, sviluppando una falsa dialettica della complessità che si traduce, secondo necessità, in un annebbiamento totale della figura dell'insegnante, fino al suo dissolvimento. Ma santo cielo, non ci si ricorda di Maragliano? Di quale cultura era (trista) figura costui, che teorizzava la sparizione di quella dell'insegnante in carne ed ossa? E ve lo ricordate il rapporto della cultura riformatrice con le nuove tecnologie? Rapporto acritico, di totale subordinazione alla tecnocrazia emergente, da parte di gente che (quanto si ingannano gli umani) si pensava più moderna, più aggiornata e più intelligente di quelli che, come me, mettevano in guardia dall'ideologia, dal pensiero unico (quello sì!), dalla tecnolatria...

 

Me ne sono andato dalla scuola perché mi sentivo fuori posto, e non certo per il rapporto con insegnanti e famiglie, stato sempre ottimo—pare che gli insegnanti spiritualisti siano alquanto apprezzati e ricercati—, quanto per la impossibilità di respirare ancora l'aria pesante dell'anti-cultura che si spaccia per progresso. L'insegnante significante non sembra, ma è fuori posto. Ma gli autori del libro sognano un ritorno alla significatività di una figura ormai sconfitta dalla storia. Per loro, l'insegnante può rioccupare un posto importante nella società. Beato chi sogna. Noto ancora una volta il mio radicale dissenso: qui è esattamente la mia idea dell'insegnamento come processo mimetico che è rifiutata.

 

L'insegnante sembra fuori posto. È sollecitato a spendere più energie nel cercare di conformarsi all'idea enfatica che si è costruito dell'insegnamento che ad esercitare il mestiere di insegnante. Se è attento al mestiere rischia di fallire: invece di trasmettere conoscenze e competenze trasmette un saper fare, dalla pratica alla pratica. Del resto, se i suoi sforzi sono tesi verso un modello paideutico, il rischio di fallimento non è meno reale. Affascinato dalla ricerca della ricerca, invece del modo di fare ricerca trasmetterà se stesso come modello. Se, nel caso del mestiere, mancano gli schemi teorici, la cui esplicitazione solamente, alla lunga, potrebbe sortire competenze culturali nei discenti, nel caso paideutico sono le metodologie operative mancanti che producono impedimento all'assunzione di capacità elaborative senza le quali non si dà apprendimento ma solo vuota aspirazione spiritualistica.

Alla base delle due modalità c'è un deficit pedagogico: silenzio della pedagogia in un caso, sostituita da una idealizzazione (paideia, humanitas, Bildung), pedagogia del silenzio nell'altro, non esplicitazione delle forme delle cose trasmesse e degli schemi in atto nella trasmissione. In ogni caso la rigidità, o sotto forma di seduzione idealizzante o sotto forma di efficienza operativa, prevale sul rigore scientifico sociale. Un pensare ancora sostanzialistico produce sia l'esempio-modello di fuga dalla realtà sia, all'opposto simmetrico, il modello operazionalistico, totale asservimento alla realtà oggettiva delle prestazioni. (p. 93)

 

"Del resto, se i suoi sforzi sono tesi verso un modello paideutico, il rischio di fallimento non è meno reale. Affascinato dalla ricerca della ricerca, invece del modo di fare ricerca trasmetterà se stesso come modello". Magari trasmettesse se stesso come modello! Questo è esattamente quello che dovrebbe accadere. Per me, se l'insegnante non è modello, la trasmissione del sapere autentico non avviene. In ciò io mi collego scientemente ad una tradizione millenaria, che qui è respinta (per la verità, da Zanelli con un argomentare che non può essere definito un modello). Ma questa tradizione è respinta proprio perché essa presuppone una differenza qualitativa tra un docente e l'altro, mentre in questa prospettiva socialista essi debbono essere fungibili.

 

Il saggio di Gianfranco Gavianu è forse il più ideologico di tutti, e mostra meglio di ogni altro l'asse culturale del testo. In effetti, questo Ripensare la forma-scuola è storicistico, nel senso che vede nell'elemento storico-filosofico il nucleo centrale della scuola. In ciò non si differenzia minimamente dal concetto gentiliano. Un segno ne è il fatto che qui si vuole storicizzare l'insegnamento scientifico (vedi Ceruti alle pp. 35 e ss.). Ovvero sembra che possedere un'idea del percorso storico della scienza debba essere più importante che avere una conoscenza aggiornata di quello che le scienze attualmente sono. Nella visione del libro, le scienze dure sono destinate a restare cenerentole nella scuola dell'autonomia. Prevale la storia, ovvero l'unica disciplina che interessa davvero i politici italiani, in quanto è quella che viene avvertita come più prossima alla sfera della politica e dell'ideologia. Il saggio di Gavianu è chiaro fin nel titolo: La lettura del Novecento: un asse culturale qualificante per i nuovi curricoli.

Di questo saggio non condivido nulla: dal suo assumere senza adeguata giustificazione la lettura di Hegel fatta da Marcuse, al riferirsi a tre sintesi storiografiche delle quali due apertamente marxiste e tutte anticapitalistiche, all'auspicare una rifondazione dei valori che va da Platone ad Aristotele, saltando a piè pari il cristianesimo ed eludendo il confronto con l'Islam. (Nota a margine: quasi tutti gli oppositori al concetto di scontro di civiltà sembrano fautori dell'ignoranza delle civiltà). Non condividendo nulla, non mi dilungo. Dirò soltanto, a conclusione di questa Cronica, che anche nel saggio di Gavianu la figura di insegnante delineata è puramente ideale. Vedasi pag. 184, in cui Gavianu scrive:

 

Un attento esame delle problematiche emerse nel corso del Novecento, connesse ai modelli storiografici di rappresentazione, di spiegazione e interpretazione della realtà storica deve dunque essere condotto nell'ambito di ogni istituzione scolastica, in particolare nella Secondaria Superiore sfruttando gli spazi di ricerca che la legge sull'autonomia garantisce.

Ne verrebbe valorizzato il ruolo del docente-ricercatore, quale intelligente mediatore critico tra le punte più avanzate della ricerca in ambito sia umanistico sia scientifico e la comunicazione didattica (49).

 

Un docente-ricercatore: ma come può questa figura essere la figura dell'universalità dei docenti? Guardiamoci intorno, nelle nostre scuole reali, nei nostri spesso fatiscenti edifici scolastici, nei loro laboratori cadenti, nei loro bagni senza carta igienica, nelle loro aule di fortuna, nelle loro sale insegnanti senza cassetti per metterci libri e registri, e vediamo quanti di noi potrebbero ricoprire questo grande ruolo. Ma devo correggermi, qualcosa con cui sono d'accordo nel saggio di Gavianu c'è, ed è la nota 49.

Nella nota 49 (del suo saggio, che da solo ne contiene 100) Gavianu infatti scrive:

 

So benissimo che, nell'attuale deriva della forma-scuola, queste proposte potrebbero apparire donchisciottesche o, al più, suscitare un benevolo sorriso di indulgente commiserazione; tuttavia va ribadito con forza che l'assenza di questo impegno critico-conoscitivo da parte del ceto insegnante rappresenta un'inaccettabile abdicazione etica e umilia il lavoro dei docenti ad un ruolo miserabilmente esecutivo-trasmissivo, cui corrispondono, in una sterile e vuota alternanza, atteggiamenti di attivismo cieco, di indifferenza cinica, di entusiasmi puberali o di indifferente e rassegnata routine burocratico-impiegatizia.

 

Il quadro mi sembra perfetto. Ma allora è proprio a fronte di questo quadro, che è realissimo, che l'impostazione di tutto il libro crolla. Tra docenti mogli di professionisti, sissine con la testa piena di ciarpame pseudopedagocico, insegnanti che stentano ad arrivare alla fine del mese, con una paga miserevole, quanti mai docenti dediti all'impegno critico-conoscitivo volete che sortiscano? Questo testo platonico-marxista può far riflettere persone già ampiamente dotate di atteggiamento critico e di cultura, ma è destinato a lasciare le cose scolastiche esattamente come sono.

 

22 maggio 2007, A.D.

 

 

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