CRONICA XXX

Fabio Brotto

brottof@libero.it

bibliosofia.net 

 

 

MERAVIGLIA. “La meraviglia / dell’ignoranza è figlia / e madre del saper” cantava il Metastasio, in questo non discorde dal Vico e da altri sapienti. Se così è, se la meraviglia è davvero figlia dell’ignoranza, dato il dilagare di questa nella scuola italiana, tutto vi dovrebbe essere colmo di meraviglia. E infatti nella scuola italiana di oggi accadono mirabilia. E tuttavia questa meraviglia non genera sapere. Come mai? Essa è forse di un genere diverso da quello della meraviglia madre di sapere? Non può che essere così. Vi sono diverse meraviglie. Una è quella della persona dotata di intelletto e per questo esente, almeno in parte, dal contagio dell’omologazione di massa, un’altra è quella della persona affetta da stupidità culturale e perciò ridotta infine a ingranaggio, cosa, funzione. Agli occhi della persona culturalmente stupida la meraviglia è strettamente legata al gigantismo. Meraviglioso è quel che è grande. Meravigliosa, ad esempio, una scuola con moltissimi allievi, moltissime attività, moltissimi progetti. Cento docenti, centoventi progetti. Stupendo! La dimensione smisurata, segno della hybris fondamentale della Modernità, si è radicata tra noi. Eppure questa superfetazione, questo accrescimento, presenta agli occhi di chi vuol vedere un evidente carattere metastatico. Perché la grandezza eccessiva ha in sé stessa il presagio della propria rovina. Come scrive W.G. Sebald  nel suo Austerlitz (Austerlitz, 2001, trad. it. di A. Vigliani, Adelphi, Milano 2002) a proposito di uno smisurato Palazzo di Giustizia,

 

Nel migliore dei casi lo si guarda meravigliati, e questa meraviglia è una forma preliminare di terrore, perché naturalmente qualcosa ci dice che gli edifici sovradimensionati gettano già in anticipo l’ombra della loro distruzione e, sin dall’inizio, sono concepiti in vista della loro futura esistenza di rovine. (p. 26)

 

PRESENZIANTI. Non mi meraviglia affatto l’ostilità con cui negli ambienti progressisti della scuola, quelli sempre aperti alle direttive del PPS (Potere Pedagogico Sovrano), è stato accolto il libro della Mastrocola La scuola raccontata al mio cane (Guanda, Parma 2004). Trovo divertenti, e a volte esilaranti, gli interventi degli affiliati al Grande Progetto di Riforma Permanente—gente transpartitica, gente che ha indubbiamente una fede—che si possono leggere sulla carta stampata e nella Rete. Le loro parole sono a volte commoventi, le accuse che rivolgono alla Mastrocola passatista, reazionaria, mistificatrice, esaltatrice del passato più bieco, ecc. sono vibranti di sdegno e, indubbiamente, di alto valore intellettuale e morale. Tra di loro, mi piacciono soprattutto i Metodologisti. Per chi non lo sapesse, dirò che essi costituiscono una vera Chiesa. La Chiesa Metodologista. Sono i credenti nei Metodi, pensano che la scuola italiana vada male perché i suoi docenti sono metodologicamente arretrati. Lo credono fermamente da moltissimo tempo, da trenta, quaranta anni. Si sono impegnati in una missione  sacra: portare il Metodo nella scuola. Come tutti i credenti, hanno una certa difficoltà a dare risposte razionali a domande del tipo: se da molti anni ormai la scuola italiana ha iniziato un cammino di riforme e di aggiornamento, se è per definizione la scuola che cambia, perché nei confronti internazionali le posizioni dei nostri studenti sono di anno in anno più basse? Cambia forse in peggio? Secondo me, che sono un miscredente, ciò dipende dal fatto che gli studenti (a causa della valorizzazione sociale dello studio—bassa) non studiano più, che si limitano a frequentare. Sono frequentanti, e così io li chiamerò d’ora innanzi. A loro volta, gli insegnanti non sono tali, cioè in realtà non insegnano: presenziano. Assistono. Perciò d’ora in poi li chiamerò presenzianti. Meraviglia! Anch’io sono un presenziante. Faccio continui atti di presenza, che sono ciò che la scuola vuole da me: non che insegni, ma che risulti presente, in classe e su cattedra. Se sono lì, in classe e sulla cattedra, sono a posto. Posso insegnare qualsiasi cosa e con qualsiasi metodo, e nessuno verrà a chiedermi conto di nulla, purché vi sia una serie di formalismi rispettati, e non vi sia scontento di genitori e frequentanti. Vedo davanti a me una impressionante stupidità. Che sia questa il connotato principale della nostra epoca? Dirò dunque anch’io le parole di ādeq Hedāyat : “La grande stupidità che mi vedevo dinanzi era legata all’incapacità generale degli uomini di penetrare i problemi centrali dell’esistenza, per cui tutto ciò che ai loro occhi si perde nelle tenebre della notte non è che un segno sopramondano della morte” (Buf-e-Kur, 1946, trad. inglese The Blind Owl 1957, trad. it. dall’inglese di M. Guarnaschelli La civetta cieca, SE, Milano 1993, p. 85).

 

  LETTERA. Il prof. Eros Barone mi manda questa sua Lettera immaginaria ad uno studente in difficoltà. Il problema della motivazione allo studio è secondo me assolutamente urgente nella scuola di oggi, e il testo di Barone evidenzia bene questa urgenza.

 

Caro Matteo, ti scrivo questa lettera nel giorno dell’Epifania e prendo perciò spunto dalla tradizionale rappresentazione della Befana che sta a cavalcioni della scopa, con la gerla piena di doni sulle spalle, il cappellaccio calcato sulla testa scarmigliata, il  naso bitorzoluto e le scarpe rotte, per cavare da questa figura un po’ diabolica e un po’ benèfica un senso dialetticamente positivo, che forse si attaglia al tuo caso: la trasformazione del male in bene, secondo il noto adagio latino “ex malo bonum”. Avrai già capito che mi riferisco alla tua situazione scolastica (lo so che ora, leggendo, storcerai la bocca pensando: “Anche tu... ma i prof non si stancano mai di parlare di questo argomento?”). Ebbene, è vero che, in qualità di prof che presume di essere anche un educatore, non mi stanco mai di parlare di questo argomento, ma è anche vero che, come suona un altro adagio latino, “repetita juvant” e, quindi, chissà che, batti e ribatti, non resti nel tuo animo un fermento vivo e vitale, che ti aiuti a trovare in te stesso la forza, la stabilità e la determinazione per riuscire a raddrizzare la fragile barchetta con cui stavi conducendo il tuo periglioso viaggio scolastico prima di essere investito dallo ‘tsunami’ degli studi superiori. Ma forse dovrei estendere la metafora della barca, del viaggio e del maremoto a tutto il periodo dell’adolescenza che stai vivendo e alle molteplici difficoltà che lo costellano e che, sommandosi e interagendo fra di loro, rendono così aspro e impegnativo questo passaggio della tua vita.

   Un punto fondamentale che non devi mai dimenticare è che il problema del successo (o dell’insuccesso) scolastico riguarda, in primo luogo, la tua vita, il tuo presente e il tuo futuro (sia quello prossimo sia quello remoto). Se, avendone le capacità, i mezzi e, insomma, la possibilità, tu rinunciassi ad affrontare e risolvere questo problema, la tua rinuncia equivarrebbe al rifiuto di crescere e di perfezionare la tua personalità (ma non credo che una simile scelta possa essere la tua scelta). Io credo invece che tu desideri crescere, formarti e perfezionare la tua personalità, non solo per provare l’intima soddisfazione che sempre accompagna i successi, quali che siano, che raggiungiamo nel corso della nostra vita, ma anche per provarne una più grande e più alta: la soddisfazione di essere utile agli altri in questo o in quel campo dell’umana attività, quale che esso sia, per aiutare gli altri a salire, tendendo loro la mano dall’alto della posizione che si è raggiunta. In tal modo, si attua il passaggio dalla competizione alla solidarietà e il legittimo desiderio di emergere non si traduce più nella nefasta volontà di sommergere gli altri, ma nella ferma volontà di emergere per aiutare gli altri ad emergere, garantendo nel contempo - e lottando affinché sia garantito - quello che è uno dei princìpi basilari della democrazia moderna: il riconoscimento sociale dei meriti e delle capacità individuali.

   Chiarito questo punto (riassumibile nella formula: “lavora e impegnati al massimo per te stesso, consapevole che così sarai utile all’intera società”), sappi che i tuoi genitori non risparmieranno né sforzi né sacrifici, qualora le tue capacità non siano ancora adeguate e i tuoi mezzi non siano pienamente sufficienti, per aiutarti a recuperare il terreno perduto e metterti nella condizione di assaporare quella duplice soddisfazione a cui ho fatto riferimento poc’anzi.

   In definitiva, che cosa ti si chiede, a questo punto, se non di trovare in te stesso la forza per organizzare, sia in termini di orario che in termini di metodo, uno studio ordinato e proficuo? Che cosa ti si chiede, se non di rendere stabile, nel tempo e nel modo di lavorare, questa organizzazione dello studio? Che cosa ti si chiede, se non di essere determinato nel fissare i tuoi obiettivi e nello sforzarti di conseguirli, avendo sempre ben chiaro in mente che tutto ciò è nel tuo interesse, che tutto ciò va a tuo vantaggio, che tutto ciò ti offrirà, col tempo, soddisfazioni di valore incomparabile?

   La libertà - ha detto un filosofo del secolo scorso - è ciò che tu riesci a fare di ciò che gli altri hanno fatto di te. La libertà è pertanto indissociabile, tranne che nei sogni e nelle fantasie, dal condizionamento (genetico e ambientale, storico e sociale), che costituisce il limite su cui occorre lavorare per riuscire a spostarlo in avanti e ad estendere così lo spazio della nostra libertà, e dall’attività (individuale e collettiva, spontanea ed organizzata), che è il fattore senza il quale la libertà non vive, ma viene meno e perisce, trasformandosi in passività, sottomissione e servitù. Ecco perché la libertà non può essere regalata a nessuno e va conquistata: essa spetta soltanto a chi agisce, si organizza e lotta contro i molteplici condizionamenti che si frappongono alla sua conquista e al suo esercizio.

   Caro Matteo, la tua stessa esperienza dimostra che cosa sia la libertà. La firma che hai apposto alla petizione per garantire concretamente la libertà di culto ai musulmani nel nostro territorio è un atto di libertà che, nella tua classe, solo tu e un tuo compagno avete avuto il coraggio di compiere, rompendo con i poderosi condizionamenti (ambientali: i pregiudizi, politici: il leghismo, religiosi: l’oscurantismo, comportamentali: il conformismo) che rendevano tutt’altro che facile, per un ragazzo di quattordici anni, firmare quella petizione.

   Caro Matteo, spero di essere riuscito a chiarire, attraverso le considerazioni che ti ho proposto e gli esempi con cui ho cercato di illustrarle, la portata decisiva della battaglia in cui sei coinvolto (la scuola è parola che ha un accento di battaglia: pensa a Minerva, che è dea del sapere e, insieme, della guerra). La posta in gioco di questa battaglia è dunque la tua crescita come persona, mentre la scuola, dove si svolge, per l’essenziale, questa crescita, si configura, nello stesso tempo, come un posto in cui è possibile sbagliare, come un posto in cui è necessario correggersi e come un posto in cui si attua una formazione universale (cioè di tutti e in tutte le direzioni).

   Vi è però una ‘conditio sine qua non’, che devi assolutamente soddisfare se vuoi invertire il segno algebrico del tuo attuale rendimento scolastico, e questa ‘conditio’ imprescindibile consiste nel ridurre la distanza tra la sfera degli interessi extrascolastici e la sfera degli interessi scolastici, avvicinando sempre di più le tue esperienze vitali di adolescente ai contenuti culturali delle discipline che apprendi come studente della scuola superiore, imparando a tradurre, in altri termini, il linguaggio grezzo, approssimativo e informe di quelle nel linguaggio nitido, articolato e preciso di queste. Una simile capacità di ‘traduzione’ è l’apporto più prezioso e più formativo che la scuola superiore fornisca ad un giovane della tua età. Ecco perché vale la pena di non farsi sfuggire, anche a costo di stringere per qualche tempo i denti e di sudare le proverbiali sette camicie, una possibilità di crescita, di affinamento e di formazione come quella che offrono gli studi superiori.

   Per quanto riguarda il resto della tua vita (mi riferisco alla convivenza con i tuoi genitori e con i tuoi fratelli, ai rapporti con i tuoi parenti, alle amicizie con i tuoi coetanei, alla frequentazione dell’oratorio ecc.), l’unica indicazione che mi sento di darti è il richiamo ai princìpi del rispetto, della sincerità, della dignità e della compostezza, che non sempre, per la verità, mi sembrano trovare riscontro nella tua condotta (ma questo accadeva anche a me quando avevo la tua età, poiché l’importante, come sempre, è lo sforzo per dare concreta testimonianza di quei princìpi, è il non dimenticare la loro funzione regolativa e orientatrice nelle particolari e mutevoli circostanze della nostra vita). Così, se rileggo quanto ti ho  scritto finora, mi accorgo che una parola ricorrente è, assieme alla parola ‘vita’, con i suoi derivati come l’aggettivo ‘vitale’, la parola ‘sforzo’, con i suoi derivati come il verbo ‘sforzarsi’, usata per ben nove volte. Questa frequenza della parola ‘sforzo’ non è casuale, perché sono convinto che il nemico più temibile dell’umanità sia la rinuncia allo sforzo... di esprimersi, di ragionare, di comunicare, di organizzare ed organizzarsi, di essere precisi: di migliorare se stessi, in buona sostanza. Sappi pertanto, caro Matteo, che a Faust, protagonista dell’omònimo poema di Goethe - una sorta di “Divina Commedia” dell’età moderna -, le Grandi Madri dicono: “Solo colui che si  sforza, noi lo potremo salvare”. La salvezza, così come il progresso e la verità, dipendono dallo ‘Streben’, e questo è il destino che tocca a coloro che, come gli uomini, sono sempre un po’ più che  uomini e un po’ meno che uomini. Il male non ha un’esistenza positiva, se si eccettua quella che gli conferiscono, in negativo, la rinuncia allo sforzo, il lasciarsi andare, l’accidia e la progressiva deprivazione che da tutto ciò consegue. Il male, tuttavia, può anche servire da mezzo e da materiale per il bene, così come suggerisce la figura simbolica della Befana: ed è proprio nel segno augurale di questo bìfido, ma in fondo benèfico personaggio, che concludo questa lettera, tornando circolarmente all’inizio.

 

Mornago, 6 gennaio 2005.   

 

 

VARIETÀ, NULLITÀ. Ogni scuola avrà le sue pagelle. Forma, colore, disposizione delle materie, caratteri grafici, tutti gli elementi di cui si compone il documento principe della scuola, quello con cui essa si è identificata per lunghissimo tempo, saranno presenti in forma variabilissima da un istituto all’altro. Questa notizia nei giorni scorsi è rimbalzata tra tutti i media del Paese. Qui si tratta di simboli, signori, ed i simboli sono fondamentali nei rapporti tra gli umani, che sono sempre simbolicamente mediati. Una pagella di forma unica in tutte le scuole significava unità del sistema educativo, anzitutto. Si trattava di un simbolo importante di una realtà importante. Esattamente come gli esami di maturità unitari con commissioni a livello nazionale. Ma a chi importa ora questa realtà? Si pensa che la varietà dell’offerta formativa sia una bella cosa di per sé, come l’offerta dei prodotti sul mercato, che quanto più son diversi e vari tanto più la gente gode, salvo poi accorgersi che si tratta di differenze omologate.  La varietà delle pagelle è dunque una cosa cattiva? Sì, certamente, a mio parere. Tuttavia deve essere stata pensata, e poi attuata da qualcuno. Da chi? Non so rispondere, del resto invoco, a proposito della scuola, la teoria della valanga, o dello smottamento, per cui l’enorme massa che si sposta scendendo a valle è del tutto inarrestabile e poco importa conoscere l’identità di coloro che hanno dato inizio al movimento. In ogni caso, sono persone assai vicine agli hollow men di T. S. Eliot, gente che non ha in sé la pienezza dell’essere. Il problema della scuola è anzitutto questo, che in essa massimamente per fare qualcosa bisognerebbe essere qualcosa, mentre la scuola stessa pullula di persone che non sono nulla e fanno moltissimo. Meditiamo dunque sul seguente passo di Thomas Mann (da Goethe. Una fantasia, in Thomas Mann, Nobiltà dello spirito e altri saggi, a cura di A. Landolfi, Mondadori, Milano1997, p. 353).

 

Goethe amava un’espressione, logicamente del tutto ingiustificabile, ma che a lui esce di bocca con elegante naturalezza: egli parla spesso di “meriti innati”. Ma in che senso? È come parlare di un ferro fatto di legno! I meriti non sono innati, vengono conseguiti, conquistati, e ciò che è innato non è mai un merito, se non si vuole scindere questa parola da ogni suo nesso morale. Ma è appunto a ciò che egli mira. La formula è una cosciente offesa all’etica, a tutto ciò che implica volontà, lotta, aspirazione; che è tutt’al più lodevole, mai nobile, e che egli in ultima analisi considera senza speranza. “Bisogna essere qualcosa per fare qualcosa” afferma, vale a dire: il merito, e quindi la colpa, stanno nell’esse e non nell’operari. Ciò che decide non è pensare, parlare o anche agire, bensì l’elemento esistenziale, la sostanza, tanto che un tale può anche sostenere il giusto, e tuttavia non sarà quello il giusto, soltanto perché non è lui la persona giusta a sostenerlo. La formula più bella in cui Goethe ha fissato questa sua fede in una predestinazione di nobiltà naturale suona così: “Sento dire: ‘Non fosse così difficile pensare!’. Ma il male è che il pensare non giova mai al pensiero: bisogna essere quelli giusti per natura, e allora le buone idee ci nasceranno attorno come libere creature di Dio e ci diranno: eccoci qua!”.

 

2 febbraio 2005 A.D.

 

SCUOLA E NON SCUOLA