CRONICA  XXXVII

Fabio Brotto

brottof@libero.it

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COCA 2. Il prof. Eros Barone, di cui queste Croniche hanno riportato uno scritto tempo fa (vedi la Cronica XXX http://www.bibliosofia.net/files/CRONICA_30.htm), mi manda alcune sue considerazioni sul caso Elkann. Il pensiero marxista di Barone è molto lontano dal mio, ma confesso che il suo linguaggio mi provoca sottili brividi di piacere, forse perché evoca gli anni della giovinezza ormai lontana….

Cause ed effetti dell’alienazione

   È possibile, nonostante la diversità dei personaggi che ne sono stati protagonisti e delle situazioni che li hanno originati, accostare due episodi a cui la cronaca nazionale di questi ultimi giorni, con quella sorta d’ironia cronotopogràfica che è propria dei paralleli che collégano fra loro punti della terra differenti e dissìmili, ha conferito un’evidenza spettacolare? Forse sì, ma procediamo con ordine.

  Da un lato, abbiamo un giovane che giunge a rischiare la sua stessa vita a causa di una dose eccessiva di cocaina assunta nel corso di un incontro notturno cui prendono parte alcuni ermafroditi che egli è solito frequentare: benché si tratti del ricco e affascinante rampollo di una grande famiglia di capitalisti italiani, impegnato da tempo nella pubblicizzazione del marchio di un’azienda la cui storia si intreccia indissolubilmente con la storia del nostro paese, la scena e lo svolgersi degli eventi sono quelli tipici della suburra durante il Basso Impero, frutto, per usare un’immagine mitològica in questo caso quanto mai opportuna, dell’azione congiunta e potenzialmente micidiale di Urano, dio della sessualità invertita, di Plutone, dio degl’ìnferi, e, ultimo anche se è in realtà il dèmone più insidioso, di Mercurio, dio del commercio.

   Dall’altro lato, abbiamo il sìndaco di un’importante città del Settentrione, il quale resta coinvolto e travolto da un’inchiesta giudiziaria che, facendo leva su una legge imposta ‘in primis’ dal suo stesso partito, lo vede accusato di abusi, per altro non gravi, commessi per aver fatto salire sull’auto di rappresentanza una giovane immigrata straniera e per averla aiutata a trovare lavoro in un’impresa di pulizie; abusi che, al di là e fors’anche al di qua delle Alpi, troverebbero, a parte qualche ipòcrita moralista in vena di catoneggiare e a parte famèliche torme di mastini ben lieti di avventarsi sulla preda e di strumentalizzare a fini partitici un siffatto ‘incidente di percorso’, molte persone disposte all’indulgenza e alla comprensione, tanto più di fronte ad un uomo politico che, andando contro l’ideologia e la pratica di un movimento xenòfobo, quegli abusi li ha presumibilmente commessi per bontà e per amore.

   Che cosa, dunque, colléga fra di loro due episodi i cui protagonisti hanno in comune soltanto il fatto di possedere, in quanto personaggi pubblici, una certa notorietà e di esprimere, in qualche modo, una compromissione amorosa, il primo in una forma che, sconfinando nella lussuria, colpisce la nostra sensibilità etica ed estetica e sùscita la nostra disapprovazione, il secondo in una forma che, quantunque giuridicamente coincida con il prodursi di un reato, sùscita invece la nostra comprensione e, tutto considerato, quasi la nostra approvazione?

   Ebbene, la linea immaginaria e nondimeno reale che, come un perfetto parallelo geografico, congiunge questi due episodi (e altri anàloghi che già si sono verificati e che sono destinati a ripetersi) è il fenomeno dell’alienazione, che colpisce non solo coloro che, per lavoro, reddito e posizione sociale, appartengono alla classe degli sfruttati, ma anche coloro che appartengono, per lavoro, reddito e posizione sociale, alla classe degli sfruttatori. I fattori dell’alienazione sono le condizioni materiali e spirituali e, dunque, i meccanismi disumani prodotti e riprodotti da questa società, per definire i quali Marx usa nel “Capitale” l’espressione potente di ‘Träger’, che nella lingua tedesca non ìndica solo i ‘portatori’ di determinati rapporti di proprietà e di produzione, ma èvoca anche il senso della sofferenza che prova chi, in quanto ‘soggetto’, è sottomesso al peso schiacciante di tali rapporti. Non meraviglia allora che da una realtà deformata e deformante nasca quella eterogènesi dei fini per cui sia il vizio sia la virtù, da privati diventando pubblici, condùcono alla rovina chi ha agito in un certo modo e per certi scopi. Pur senza pretendere di dedurre meccanicamente dalla struttura dei rapporti sociali la dinàmica dei rapporti interpersonali, la lezione che entrambi gli episodi ci conségnano è che il godimento e la verità, la felicità e le relazioni sostanziali degli individui sono contraddittori, poiché, in buona sostanza, all’interno di questa società i modi della felicità non sono liberi e i modi della libertà sono infelici.

 

Eros Barone

Mornago, 12 ottobre 2005.

 

MUFFA. L'idealismo (inteso nel senso di tensione ad un ideale umanistico) è un tratto comune a quasi tutti i veri pedagoghi (dei Pedagogisti non loquor). Almeno fino a qualche anno fa, era socialmente diffusa in Occidente la convinzione che per insegnare fossero necessarie delle motivazioni trascendenti quelle che governano chi svolge gli altri tipi di lavoro. Motivazioni vicine a quelle del prete, in qualche modo. Del resto, le figure del sacerdote, del poeta, del filosofo e del maestro sono originariamente confuse in quella dello sciamano. Le origini non devono mai essere obliate se si vuole comprendere la realtà umana fino in fondo. Nella odierna scuola-azienda di Berlinguer & Brichetto ogni forma di idealismo appare come qualcosa di stantio ed ammuffito. Ora, non è privo di significato il fatto che tutta la storia della letteratura degli ultimi due secoli, e non solo occidentale, ci presenti figure di idealisti-pedagoghi inesorabilmente destinati al fallimento nello scontro con una realtà molto più forte di loro, che è essenzialmente di natura economico-politica. Prendiamone due, di queste figure, separate da centoventi anni di storia. Florent, personaggio de Il ventre di Parigi di Zola, manifesta la sua vocazione pedagogica e insieme rivoluzionaria con una ingenuità assoluta: è talmente puro da rifiutare la sua parte di eredità, che il fratello gli offre benevolmente, e non comprende affatto le persone in mezzo alle quali si trova—che tutte, borghesi o pescivendole, impiegatucci od ortolane, attribuiscono il valore supremo al lato economico dell'esistenza. Il risentimento in questa configurazione di rapporti non può mancare, ed infatti viene potentemente figurato nella differenza tra i magri e i grassi (pp. 190-192 dell’ed. Garzanti 2003). Florent, emaciato idealista che rifiuta il denaro, è un magro, come il suo amico squattrinato pittore Claude; il fratello dello stesso Florent, pacifico salumaio che vive ben inquadrato nella società e nei suoi valori, è un grasso. Grassi sono, nella visione di Claude, tutti quelli che trovano nell’ordinamento sociale la propria comoda posizione, magri tutti quelli che in essa stentano ad ottenere un riconoscimento. I primi sono pacificati, i secondi risentiti. Magri sono, ovviamente, diciamo noi, in tutti i tempi e luoghi gli insegnanti. Ma nello stesso tempo la maggior parte di loro non è ribelle, ma docile e sottomessa. Non solo nella Francia del Secondo Impero: dovunque e sempre. Il loro problema, come abbiamo altre volte rilevato, è dunque la gestione del risentimento, che cova nelle loro anime, divorandole dall’interno.

Ne Il paese delle maree di Amitav Gosh (The Hungry Tide, 2004, trad. it. di  A. Nadotti, Neri Pozza, Vicenza 2005) troviamo la figura di un insegnante in pensione, rivoluzionario marxista fallito, che sconta la propria inadeguatezza in un disperato tentativo di combattere un'ultima battaglia (culturale) dalla parte dei poveri contadini immigrati in un'isola da cui il governo indiano li vuole espellere. Il momento del congedo dalla scuola, quel momento che per ogni insegnante che abbia vissuto il mestiere come vero e proprio modo di esistere assume caratteri estremamente critici, per l’insegnante Nirmal (Nir- come Nirvana?) appare quasi come portatore di una rivelazione. Esso mette in luce un elemento mimetico-rivalitario sempre costitutivo di ogni comunità umana, anche di ogni comunità docente, e qui espresso con una concentrazione poetica folgorante. Mai ho trovato descritta in modo così sconvolgente la miseria di una condizione umana e professionale: chi ha fatto per trent’anni lo stesso mestiere diventa come muffa sul muro: tutti desiderano ardentemente di vederla asciugare alla fulgida luce del nuovo giorno.

 

Con l’avvicinarsi dell’ultimo giorno di scuola era sempre più evidente che gli altri insegnanti aspettavano ansiosi il mio congedo… non per malevolenza, credo, semplicemente per la curiosità di vedere cosa riservava il futuro. Chi ha fatto per trent’anni lo stesso mestiere diventa come muffa sul muro: tutti desiderano ardentemente di vederla asciugare alla fulgida luce del nuovo giorno. (p. 170)

 

FILISTEI. Laboriosità e formalismo: chi non coglie la presenza di questi due aspetti come costanti nell’esperienza scolastica attuale? Basta navigare un po’ tra i siti web delle scuole italiane, un’esperienza conoscitiva interessantissima per tutti coloro che vogliano apprendere come i Dirigenti intendano la scuola (Ahi lacrime! Ahi dolore!). Direi che laboriosità e formalismo, questa diade atroce, vi vengono sommamente apprezzati, massimamente ove convengano in uno, ovvero laddove la laboriosità si manifesti come continua produzione di oggetti cartacei formalmente complessi. Ma la fusione di laboriosità e formalismo è esattamente la definizione del modo di essere del filisteo. Mi pare buona cosa riportare un aforisma di Novalis da Polline (Blütenstaub, 1798, trad. it. di L. V. Arena, SE, Milano 1989).

 

I filistei vivono unicamente l’esistenza quo­tidiana. Il mezzo principale sembra essere il loro unico scopo. Essi fanno tutto ciò per amore della vita terrena, come sembra e come deve sembrare, in base alle loro stesse dichiarazioni. Solo per necessità essi vi mescolano la poesia, perché sono ormai abituati a una certa interruzione del loro ciclo quotidiano. Di re­gola questa interruzione avviene ogni sette giorni, e la si potrebbe definire una febbre set­tana poetica. Di domenica il lavoro cessa, essi vivono un po’ meglio del solito e questa eb­brezza domenicale si conclude con un sonno un poco più profondo del solito; per questo tutte le cose, il lunedì, hanno un corso ancora più rapido. Le loro parties de plaisir devono essere convenzionali, consuete, di moda, ma per il resto essi elaborano anche i loro diverti­menti, come ogni altra cosa, in modo laborio­so e formale (p. 34).

 

UN LIBRO. Mi appare un evento mirabile l'uscita in questi anni di romanzi che mettono in scena la crisi della scuola attuale mostrando la miseria dei Riformatori, dei Cantori delle cose nuove, dei Pedagogisti da strapazzo ma vincenti, denunciando la pseudocultura burocratizzata e impastata di luoghi comuni, dicendo chiaramente che la scuola che cambia è la scuola che diventa assoluta non-scuola. (Com’è folle l’amore per il cambiamento in quanto tale: anche chi passa dalla vita alla morte cambia!). Due di questi romanzi hanno vinto il massimo premio letterario italiano: prima   Una barca nel bosco di Paola Mastrocola, poi Il sopravvissuto di Antonio Scurati. Ed eccone ancora un altro, di grande interesse per lo stile, la costruzione ritmica dei periodi (rigorosamente senza virgole ma complessi) che vibrano di un profondo respiro. Una narrazione molto femminile nel modo di vedere il mondo, ma nello stesso tempo misurata e dominata dall'intelligenza. È Una ragazza che è stata mia madre, di Annarosa Mattei (Mondadori, Milano 2005). Trovatemi, per favore, un letterato italiano di un qualche valore che canti, di contro, le lodi della scuola di Berlinguer & Brichetto e dell'allegra congrega dei Pedagogisti.

Il testo della Mattei trapassa dall’elegiaco al visionario, che trionfa nello splendido (per l’acume della visione stessa) capitolo Fino al termine dell’ora.  Vi s’immagina in modi quasi kafkiani il crollo finale del Palazzo (la scuola) preso d’assalto da un’orda di nemici, che infine impongono il (loro) ordine nuovo. I vincitori si vogliono liberare “di una élite intellettuale inaffidabile e lagnosa facendo corsi di rieducazione morale e fornendo poi materiale sufficiente a evitare di far funzionare la mente” (p. 100). L’élite è chiaramente quella non grande parte degli insegnanti che pensano, e insegnano in termini di cultura. I vincitori di sé dicono: “Siamo quel che siamo facciamo quel che facciamo non abbiamo nessuna idea e questa è la libertà che vogliamo. E così è se non vi pare” (p. 101). Quelli tra i docenti che la scrittrice chiama “mutanti” si adattano immediatamente “al nuovo regime di occupazione culturale linguistico economico sociale militare”: quanti ne conosco anch’io, per il particulare e la famiglia l’Italiano è pronto a tutto. Il primo atto compiuto dai nuovi governanti dimostra tutta l’importanza che chi dirige oggi le scuole attribuisce all’immagine (ancora una volta: si faccia un giro per i siti web degli istituti): “Come primo atto di buon governo rifecero ogni cosa curando i minuti dettagli dell’apparire che doveva sembrare l’essere” (p. 103).

La protagonista del romanzo è un’insegnante che crede appassionatamente nel valore formativo della letteratura, e cerca di contagiare gli allievi col virus dell’emozione poetica e dell’intelligenza, nonostante la loro evidente condizione di decadenza intellettuale e generalmente umana. Ma la vita per lei diviene impossibile nella scuola che cambia. Il suo preside “cognominato Spatola professor Giovanni” viene trasformato in un Burocrate-Signore “rifornito di giacca blu di registratore di cassa di nuove cartelle di credito” (p. 106), mentre i docenti devono “progettare finalizzare competere motivare con verifiche strutturate crocette risposte chiuse aperte multiple per imparare tante cose con l’obbligo però perentorio di nulla intendere e capire” (p. 106). Il mito della quantità-oggettività, che sta devastando la scuola, è satireggiato da Annarosa Mattei con sintesi efficace: “Le lezioni che con un procedimento particolare di essiccazione erano state ridotte in pillole di vario colore e grandezza  (…) si inserivano nei brevi intervalli tra i corsi di vela di cucina di cucito di ricamo di componimento” (p. 107). E il Dirigente obbliga i professori ad assistere in videoconferenza alla lezione di uno dei detentori di quello che in queste Croniche si chiama il Potere Pedagogico Sovrano, il professor Virgilio Paratacco, che “dava con voce suadente le nuove indicazioni che avrebbero consentito a tutti loro di misurare la qualità la quantità di cervello di ogni giovane dando a ciascuno le giuste e dosate istruzioni” (p. 108).

 

Crediti e debiti e punti da sottrarre o da aggiungere avrebbero computato tutti loro e convertito in numeri innumeri tanti che si sarebbero allineati a comporre una formula chiara e distinta – perché la matematica è esatta rideva con pedagogica grinta – che avrebbe definito in modo irrevocabile ogni intelletto in base al suo contenuto altrimenti ineffabile. (p. 108)

 

4 dicembre 2005 A.D.

 

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