Zabaione 2008

note scelte dal blog www.brotture.it

Fabio Brotto

Spazzatura. Prodi si sveglia all’improvviso dal torpore (come Fafner, dormiva sul tesoretto) e vuole mobilitare l’esercito. Il buon Napolitano, che è napoletano, ma finora ha dormito il sonno del giusto, si dice “allarmato”. Pecoraro Scanio, che all’ambiente pensa molto, è campano: si vedono i risultati. Campano è Mastella. La Jervolino gracchia qualcosa, e rimane appollaiata sul suo ramo. Bassolino-basilisco fuma una cicca dopo l’altra, e non si schioda (chissà se, come tutti i fumatori, le butta qua e là): un quadro davvero esaltante. Se buon governo significa anzitutto guardare avanti nel futuro, e porre argini e dighe per le eventuali future alluvioni, che modo di governare è quello di oggi in Italia?

Ricordo di aver letto, circa vent’anni fa, un articolo di National Geographic sul problema dei rifiuti prodotti dalle società avanzate. Verso la fine, dopo una rassegna dei metodi utilizzati dalle varie nazioni, e dei programmi futuri, si diceva dell’Italia: “un bidone dell’immondizia”, a indicare l’assoluta mancanza di programmi per lo smaltimento di rifiuti crescenti e pericolosi. Vent’anni fa. Eppure, il problema dei rifiuti che produce è uno dei principali, se non il principale, di una consumer society. In ambito locale, qualcosa si è fatto: la raccolta differenziata è il primo obiettivo. A Napoli si sono fatte le “eco-balle”. Nomen numen, di ecologico non hanno nulla, dentro c’è di tutto. Non sono ecologiche, sono balle. Chi le ha inventate? Chi le ha prodotte? Perché non sono condotti davanti alla Sacra Inquisizione?

Ogni società umana, dalla più grande alla più piccola si fonda, a tutti i livelli, sul meccanismo dell’espulsione. Assimilazione da un lato, espulsione dall’altro. Napoli è l’emblema di un corto circuito in questo meccanismo. Le strade sono ingombre di ciò che dovrebbe essere espulso, e questo produce altre espulsioni, in senso radicalmente contrario alla sopravvivenza stessa della società: vengono espulsi i portatori dell’unica soluzione attualmente praticabile, quella dei termovalorizzatori, per i quali proprio l’Italia possiede la tecnologia più avanzata. Apprendo oggi, e non mi meraviglio, che con i soldi spesi in questi anni per la lucrosa emergenza rifiuti, in Campania se ne sarebbero potuti costruire sette (7). Il problema è che si dovrebbe espellere ciò che non può essere espulso: la camorra e la sua classe politica (cioè la classe politica campana quasi per intero). Ma una società non può espellere se stessa.

Sapienza. Non c’è niente da fare. Uscire dall’orizzonte dell’espulsione è difficile per tutti. Questa volta l’espulso è il Papa.

Il discorso che il Papa avrebbe dovuto pronunciare alla Sapienza è molto bello, e molto problematico. Pone questioni fondamentali, come quella della natura della verità e del rapporto tra fede e ragione. Ma è anche un discorso strano, con una fondamentale paradossalità in se stesso, poiché essendo rivolto ad un pubblico di credenti e non credenti si sforza di far accettare l’idea che solo il Cristianesimo consenta la vera scienza, permetta alla ragione di perseguire la verità come bene. Immagino che matematici e fisici sarebbero stati e saranno perplessi. In ogni caso, si tratta indubbiamente di un discorso per la componente umanistica dell’Università. È significativo che il Papa inizi da una sorta di difesa preventiva del suo diritto a parlare nell’Università. L’argomento fondamentale sembra inquadrarsi entro una visione pluralista delle sapienze umane, ciascuna col suo diritto ad esprimersi e confrontarsi con i luoghi in cui si elaborano i saperi. Ratzinger dice:

 

Il Papa parla come rappresentante di una comunità credente, nella quale durante i secoli della sua esistenza è maturata una determinata sapienza della vita; parla come rappresentante di una comunità che custodisce in sé un tesoro di conoscenza e di esperienza etiche, che risulta importante per l’intera umanità: in questo senso parla come rappresentante di una ragione etica.

 

Egli sarebbe il rappresentante di una comunità, di una determinata sapienza della vita, di un tesoro di conoscenza ed esperienze etiche, di una ragione etica. Ma il pluralismo non si addice al Cattolicesimo, se non in forma epifenomenica. E infatti gradualmente il Papa si presenta come portatore della sapienza della vita e della ragione etica. Ciò che, del resto, distingue infine il filosofo e il teologo è che il primo non sa dove lo porterà la sua indagine, il secondo lo sa prima ancora che la sua indagine inizi.

 

In questo sviluppo si è aperta all’umanità non solo una misura immensa di sapere e di potere; sono cresciuti anche la conoscenza e il riconoscimento dei diritti e della dignità dell’uomo, e di questo possiamo solo essere grati. Ma il cammino dell’uomo non può mai dirsi completato e il pericolo della caduta nella disumanità non è mai semplicemente scongiurato: come lo vediamo nel panorama della storia attuale! Il pericolo del mondo occidentale – per parlare solo di questo – è oggi che l’uomo, proprio in considerazione della grandezza del suo sapere e potere, si arrenda davanti alla questione della verità. E ciò significa allo stesso tempo che la ragione, alla fine, si piega davanti alla pressione degli interessi e all’attrattiva dell’utilità, costretta a riconoscerla come criterio ultimo. Detto dal punto di vista della struttura dell’università: esiste il pericolo che la filosofia, non sentendosi più capace del suo vero compito, si degradi in positivismo; che la teologia col suo messaggio rivolto alla ragione, venga confinata nella sfera privata di un gruppo più o meno grande. Se però la ragione – sollecita della sua presunta purezza – diventa sorda al grande messaggio che le viene dalla fede cristiana e dalla sua sapienza, inaridisce come un albero le cui radici non raggiungono più le acque che gli danno vita. Perde il coraggio per la verità e così non diventa più grande, ma più piccola. Applicato alla nostra cultura europea ciò significa: se essa vuole solo autocostruirsi in base al cerchio delle proprie argomentazioni e a ciò che al momento la convince e – preoccupata della sua laicità – si distacca dalle radici delle quali vive, allora non diventa più ragionevole e più pura, ma si scompone e si frantuma.

 

Dunque per Benedetto XVI la ragione, che si esprime anzitutto in filosofia e teologia, fiorisce pienamente solo se illuminata dalla fede. Ma poiché è evidente che nemmeno il Papa pensa ad un ritorno al medioevo (in cui peraltro era già evidente come dal Cristianesimo stesso germinasse l’idea della profanità del mondo) in cui la fede sia un presupposto generalizzato, ci si può chiedere che cosa intenda come traducibile nella pratica reale dell’Occidente contemporaneo.

La caduta nella disumanità di cui parla il pontefice si verifica da sempre. È il pericolo che minaccia gli umani fin dalla loro origine. Le religioni sono sorte esattamente per evitare questo pericolo della fuoriuscita degli umani da ciò che li costituisce come umani e lo sprofondamento nella violenza indifferenziata. Ma il rimedio generale trovato finora è stato solo quello della violenza differenziata (che tutte le religioni e i loro eredi profani hanno sempre legittimato - anche il Cristianesimo non condanna in assoluto tutte le guerre, né tutte le forme di esercizio della violenza). L’Europa contemporanea, che si pensa come profana, non è un ambiente più violento di quel che fosse duecento anni fa, quando la religione e la famiglia erano infinitamente più solidi. C’è molto da pensare, ancora.

Loto. “Non posso narrare quel che accadde a Hócin nelle lontane terre russe. Non perché non ricordi, bensì perché non voglio. Non vale la pena raccontare di terribili massacri, della paura dell’uomo, della bestialità degli uni e degli altri, non bisognerebbe ricordare né compiangere né glorificare. La cosa migliore è dimenticare, affinché muoia il ricordo umano di tutto ciò che è brutto e i bambini non intonino canti di vendetta”. Così le prime righe del cupo romanzo La fortezza di Mehmed Meša Selimović (1970, trad. it. di Vesna Stanić, BESA Editrice, Nardò 2004). Che la memoria sia sempre cosa buona, infatti, non è vero, perché anche la vendetta ha bisogno di una memoria, e senza memoria non c’è alcuna vendetta. Non posso restituire bene per bene, ma neppure male per male se non ricordo ciò che ho vissuto, o hanno vissuto i miei padri. Dobbiamo pensare che neppure l’oblio sia sempre cosa buona, però, se non vogliamo assimilarci ai “Lotofagi, che mangiano un cibo di fiori” (Odissea IX, 84 ). Ma la memoria non è neppure libera. In ogni gruppo umano la memoria è regolata, orientata, manipolata. In una società come quella italiana di oggi, della cui ideologia ufficiale fa parte il perdonismo oblioso, pensare la questione della memoria è, tuttavia, quasi impossibile. Come la vendetta, il perdono reale implica sempre il ricordo; la nostra è la società del Lotto e del loto (due facce della stessa trista medaglia).

Differenza. Penso che in questi tempi calamitosi, in cui le differenze politiche, culturali, nazionali e religiose vengono accentuate ed esaltate per alimentare conflitti che in realtà derivano dall’uguaglianza essenziale degli umani (innanzitutto dall’uguaglianza degli appetiti che convergono pericolosamente sullo stesso oggetto, e in particolare sul potere), debba essere accolta con interesse ogni riflessione sul tema dell’uguaglianza e della differenza. La scuola dovrebbe sviluppare negli allievi la capacità di porsi in modo serio e maturo di fronte a questi temi, che il buonismo imperante e semplificante tende a banalizzare paurosamente.

Trovo un pensiero significativo nel libro di Franco Crespi Il male e la ricerca del bene (Meltemi, Roma 2006). Collegando il male all’assenza di riconoscimento, Crespi nota che quest’ultimo

 

…da un lato … è possibile solo a partire dalla convinzione dell’uguaglianza originaria tra me e gli altri fondata sull’appartenenza alla comune situazione esistenziale; dall’altro, esso nasce dalla consapevolezza che ogni singolo individuo, a partire dal suo contesto socio-culturale e dalle condizioni contingenti della sua vita, è, in via di principio, in grado di elaborare un’esperienza dell’esistenza che è soltanto sua e, pertanto, il riconoscimento è veramente tale solo in quanto rispetto della sua differenza, che resta, in ultima analisi, refrattaria ad ogni mio tentativo di definizione. (p. 72)

 

Ma la fondazione dell’uguaglianza su di una “comune situazione esistenziale”, una volta caduto il riferimento teologico, mi sembra debole. Infatti, le situazioni esistenziali vengono a loro volta pensate e definite in modo differente a seconda dei diversi contesti socio-culturali, e dei diversi orizzonti di plausibilità che in essi vigono (per l’azteco, per fare un esempio estremo, è ben plausibile che l’ordinamento del mondo sia destinato a crollare senza i quotidiani sacrifici di sangue umano). Un pensiero dell’uguaglianza che sia in grado di fondarla stabilmente non può che essere un pensiero antropologico, e questo pensiero antropologico non può che essere un pensiero generativo, che anzitutto la sappia collocare alle origini dell’umano, nel punto di separazione dell’umano dall’animale. La straordinaria forza ermeneutica dell’antropologia generativa, sviluppata da Eric Gans, che vede la contemporanea nascita dell’umanità e del linguaggio nell’attimo in cui il gruppo di preumani famelici intorno alla preda interrompe il gesto di appropriazione, che darebbe luogo alla violenza reciproca, e di questo gesto interrotto fa il primo segno, mi sembra qui particolarmente evidente. Il differimento della violenza che dà luogo alla differenza, il segno e il linguaggio, il riconoscimento dell’alterità, la distanza dal centro che rende uguali tutti coloro che occupano la periferia, la reciprocità, lo scambio ecc., insomma tutti gli elementi fondanti l’umano trovano nell’ipotesi originaria, che promuoviamo nella pagina GENERATIVA, la loro unificazione. Al di là delle diverse scuole di pensiero e dei differenti orientamenti politici, comunque, penso sia importante che nella scuola italiana si superi, per quanto concerne la tematica della violenza, un’impostazione prevalentemente moraleggiante e basata sui buoni sentimenti—che come si sa sono volatili—per dare principio ad un discorso più rigoroso, che richiede la fatica del pensare. Purtroppo il messaggio prevalente che i giovani recepiscono oggi non va propriamente in questo senso. E il modo serio e maturo di porsi della scuola richiederebbe insegnanti seri e maturi. Quanti sono?

 

Meccanismi. Si sa che Adolf Eichmann grazie all’opera di Hannah Arendt La banalità del male ha assunto uno status simbolico, a rappresentare tutti quegli oscuri esseri umani che, ben impiantati nel ventre della grande macchina che è lo Stato moderno, operano con devota obbedienza di puri meccanismi, che si sentono realizzati in quanto tali. È molto facile condannare Eichmann. Molto meno facile chiedersi quale sia la misura della nostra somiglianza a lui.

Rifacendosi al grande testo della Arendt, Enrico Donaggio nel suo libro Che male c’è. Indifferenza e atrocità tra Auschwitz e i nostri giorni (l’ancora del mediterraneo, Napoli 2005) descrive il modello di individuo incarnato da Eichmann come

 

Un individuo che intratteneva un rapporto eminentemente “ideologico” con se stesso e con quanto lo circondava; che si dimostrava incapace di distinguere il vero dal falso, la realtà dalla finzione; e che non possedeva alcuna autentica convinzione. I suoi crimini […] non erano nemmeno rubricabili come infrazioni di una norma, piuttosto come forma di obbedienza automatica a un contesto improntato ad una collettiva quanto infantile fuga da se stessi e dalla responsabilità.

 

Guardiamoci ora intorno: nella società italiana è forse diffusa e radicata la capacità di distinguere il vero dal falso, la realtà dalla finzione, sono forse diffuse le convinzioni autentiche? O non sono invece dominanti ovunque le forme di obbedienza automatica, le collettive e infantili fughe da se stessi e dalla responsabilità?

 

L’Ebreo. Quando si tratta di Israele, purtroppo, l’intellettuale italiano medio perde ogni capacità di pensiero dialettico. Lo si è visto anche nel recente caso di Torino. Infatti, se si fosse fatto un programma sulla letteratura palestinese, senza invitare gli autori israeliani, ben pochi avrebbero urlato che occorreva invitare anche l’altra parte. È un dato certo, ben inquadrabile e spiegabile entro quella cultura vittimaria che ha trionfato nell’Occidente dopo il 1945.

Sono convinto che un antigiudaismo di fondo (evito il termine antisemitismo perché è ormai segnato da una profonda ambiguità) alligni ancora nel cuore di moltissime persone, anche in Italia, anche fra i cattolici. Emerge nelle conversazioni libere, ma anche, seppur più sottilmente, in articoli e libri. Ho udito con le mie orecchie definire “nazisti” gli Israeliani da parte di professori universitari che non si sono mai preoccupati di quel che accadeva ai Cambogiani, ai Curdi, ai Ceceni. Ho sentito adoperare la categoria “Ebreo” in un modo che può essere solo di chi crede ai Protocolli dei Savi Anziani di Sion. Nessuno dei fatti che vengono addebitati allo Stato di Israele da parte di chi odia gli Ebrei (anche se non vuole ammetterlo) giustifica, di per sé, un giudizio come quello che viene espresso. Altrimenti, come dovremmo chiamare lo Stato Russo, che qualche hanno fa ha ridotto Grozny ad un ammasso di macerie fumanti?

 

Ed io, che pur non ho condiviso molte delle scelte politico-militari fatte da Israele negli ultimi anni, trovo davvero impressionante l’incapacità di ragionamento e di mediazione che coglie gli spiriti di molti davanti all’Ebreo. E sono spesso persone che parlano di “accoglienza”, del “diverso”, ecc. Ma l’Ebreo viene percepito come forte e amico dei forti (gli Americani), e subito definito come oppressore. Qui anche mi pare evidentissimo come ogni discorso politico sia sempre un discorso che parte da un soggetto collocato in una situazione che determina un suo punto di vista: il più delle volte è irrigidito e adialettico, sempre animato da un risentimento che acceca.  È un po’ quello che succede nei cattivi romanzi, dove ci sono i “cattivi” le cui ragioni sono sempre e soltanto ignobili. È sempre il meccanismo del capro espiatorio, di cui l’Ebreo è stato in Occidente l’incarnazione più duratura.

 

Per caso mi sono imbattuto nel sito della Destra italiana, quella di Storace, la Destra fascista. Ed eccoti una vignetta che mostra tutti i tratti della satira antigiudaica tradizionale, a cominciare dalla fisicità un po’ fastidiosa del barbuto (e puzzolente?) giudeo. Una vignetta che la dice lunga sul sentimento antigiudaico (altro che filopalestinese!) di molti Italiani di oggi. Di troppi Italiani.

 

Il Ponte di Calatrava. Nel 1997 il Comune di Venezia incaricò l’architetto Santiago Calatrava di progettare un quarto ponte sul Canal Grande (dopo quello degli Scalzi, dell’Accademia e di Rialto). Un ponte che unisse Piazzale Roma, punto d’arrivo delle automobili, alla stazione ferroviaria. Un ponte di cui nessun veneziano ha mai sentito il bisogno. Dieci anni dopo, il ponte di Calatrava è ancora lontano dall’inaugurazione.

 È un ponte folle. Un’arcata d’acciaio, che si sa che col variare della temperatura si contrae e si dilata: pare che ci sia qui un margine di tolleranza di quattro centimetri, oltre i quali la struttura potrebbe crollare. I tecnici continuano a fare calcoli e ricalcoli, ma l’esito è ancora incerto. Né pare sicuramente accertato il peso che potrà reggere. Sarà scivoloso, perché sulla superficie percorribile Calatrava ha pensato di mettere vetro. E sarà brutto, come molte opere degli architetti geniali come Calatrava.

Il costo è enorme. Dall’inizio si è raddoppiato, triplicato, continua a crescere incessantemente. Mi pare che rappresenti l’essenza di Massimo Cacciari, come politico e come filosofo: Krisis.

Il “Ponte degli Scalzi” fu costruito in due anni, dal 1932 al 1934, su progetto dell’ingegnere Eugenio Miozzi. Una sola audace arcata di pietra d’Istria. In quel punto sì serviva e serve, e starà in piedi per secoli. Per dirla col Poeta: parole non ci appulcro.

Il giardino senza vento.  Ho terminato di rivedere l’unico mio parto romanzesco. Non sono un narratore, e non so spiegarmi perché mi sia venuta da scrivere questa, che si fatica a definire “storia”, a dispetto del sottotitolo. Certo non ha molto a che fare con gli esordi degli scrittori, anche perché la prima idea mi venne quando avevo 26 anni, e il punto definitivo l’ho posto ora, a 57. Credo che il senso di questo scritto (è l’unico termine sicuro) sia in ciò che di grande vi manca, tra tante cose minori: sesso e violenza (quest’ultima solo accennata in un punto), ingredienti necessari, o quasi, della narrazione contemporanea. Per uno che pensa quasi solo alla violenza… Ma non v’è dubbio che tutti i personaggi del Giardino rappresentino qualcosa. Sicuramente lo rappresentano per me. Inattualità pura.

Radicali. Debbo essere politicamente ottuso. Infatti, non capisco il senso dell’immissione di un gruppo di radicali nelle liste del PD. Credevo che il PD nascesse dal tentativo di fusione di due culture politiche, quella di origine comunista (all’italiana e diluita) e quella del cattolicesimo di sinistra (grosso modo, e meno diluita). Entrambe queste culture politiche non hanno mai amato i radicali, sono profondamente estranee al modo di essere e di pensare l’azione politica che è proprio dei radicali. Io non ho mai amato, a mia volta, costoro: anzitutto per una questione di stile. Non mi piacciono i commedianti e i vittimisti, e i radicali incarnano questi due aspetti al massimo grado. Non fanno che lagnarsi di non essere al centro dell’attenzione mediatica e sono soliti digiunare per porvisi (ed hanno una fisiologia differente da quella comune, infatti io se non mangio per due giorni non sto in piedi, e loro dopo venti o trenta di digiuno vanno in TV a discutere con calore). È chiaro che non sono affatto un partito laico. Sono il meno laico di tutti. Infatti hanno un profeta e sacerdote (Pannella) il cui verbo è incontrovertibile, e la loro prassi politica ha tutte le connotazioni del sacro. Infatti il sacro è connotato da un Oggetto Centrale e da una Periferia composta dai membri del gruppo umano, che per il Centro provano un senso di attrazione irresistibile e insieme di orrore. Ogni membro della Periferia tende a farsi Centro, ma per collocarsi in quel punto deve passare attraverso il risentimento degli altri membri: deve farsi in qualche modo vittima prima di poter assumere il Potere Sacro. Il digiuno è da sempre il metodo per eccellenza dell’autovittimizzazione che consente l’accesso al Centro Sacro. I radicali, dunque, costituiscono il raggruppamento politico più arcaico presente sulla scena del Paese. Sono anche, non a caso, il gruppo più scenico, ma questo dimostra soltanto come la scena mediatica non sia altro che una riproposizione tecnologizzata dell’antica scena della rappresentazione sacra.

Detto questo, le due culture fondanti del PD sono culture politiche della mediazione, quella radicale è una cultura della rappresentazione sacra e dell’anti-mediazione sacrificale. Pensare che possano convivere è folle. Quello veltroniano è dunque un gesto machiavellico, di pura acquisizione di voti. Ma è un machiavellismo cieco. Una parte del possibile elettorato del PD detesta i radicali, e non li voterà mai. In termini biecamente contabili domanderei a Veltroni: quanto pensi di perderci e quanto di guadagnarci?

 

I blog e il Sistema. C’è un motivo ben preciso per cui il timore di molti bloggers circa un intervento censorio del Potere, teso a limitare la libertà di espressione nella Rete, è un timore vano. Le società tecnotroniche dell’Occidente, infatti, si fondano sulla continua alimentazione del desiderio. Senza una proliferazione dei soggetti desideranti e uno sviluppo incessante del loro desiderio, e il suo passare da un oggetto all’altro, la stessa produzione capitalistica stagnerebbe. Altro problema, ma non slegato, è quello della possibilità reale di tutti i membri della società di partecipare con eguali possibilità alla circolazione inesauribile del desiderio: qui si apre il discorso sul risentimento che è l’altra faccia del desiderio. Ma alla radice di tutti i desideri sta quello fondamentale, quello di ogni soggetto umano di collocarsi nel Centro. Persino il desiderio del soggetto islamista radicale, il massacratore suicida, non è il desiderio del nulla, e io non sono d’accordo con coloro che usano la parola nichilismo a proposito di questo soggetto. In realtà, l’islamista radicale non vuole annientarsi, ma collocarsi nel Centro Sacro, che per lui ha una dimensione trascendente: egli si colloca totalmente in Allah, annienta la propria realtà immanente e immediata per assumerne una più alta, quella di abitatore del Paradiso. Dunque, anche lui è un soggetto desiderante e che brama di porsi nel Centro. Ugualmente, il popolo dei bloggers, quasi tutti estremamente preoccupati del numero di contatti e di commenti che ricevono, cultori della loro piccola audience, non sono che copie mimetiche del modello corrente nella società della comunicazione e dei consumi di massa. Si tratta di persone che, non avendo accesso al Centro della scena della rappresentazione collettiva, che oggi è la televisione, si creano il loro piccolo surrogato di centro, il loro spazio di visibilità, la loro scena della rappresentazione particolare. Naturalmente, può ben accadere che un blog assuma un peso e una visibilità tanto grandi da sconfinare nella scena della rappresentazione generale: in Italia è il caso di quello di Beppe Grillo. Ma questo accade molto di rado. Un controllo dei blog non è dunque nelle corde di un sistema di libero mercato, per il fatto che quel sistema stesso ha bisogno del desiderio per crescere, e il desiderio non è mai di semplici e puri oggetti, ma di oggetti rappresentati, cioè di oggetti che acquistano il loro significato di generatori di desiderio solo in quanto assunti nella sfera della rappresentazione. Ma la sfera della rappresentazione è sempre creata nel rapporto tra Centro e Periferia, ove la Periferia è in perenne tensione verso il Centro. Se un sistema ostacola o addirittura blocca la spinta della sua Periferia verso il suo Centro, il Sistema si irridisce fino a crollare. E nessun Sistema vuole crollare, anche se può capitare che le sue contraddizioni lo conducano alla rovina. Per questo, anche, possiamo dire che il risentimento che scaturisce dal non avere libero accesso al Centro, cioè alla scena della rappresentazione collettiva incarnata dalla televisione, deve essere in qualche modo scaricato. Il blogging è oggi essenziale alla circolazione-scaricamento del risentimento che incessantemente si genera nella vasta Periferia che brama il Centro e non vi può accedere (le decine di migliaia di romanzieri, le centinaia di migliaia di poeti, ecc. ecc. che non hanno alcuna visibilità). Per questo il Sistema non metterà il bavaglio ai bloggers.

La Rete è il necessario prodotto finale del sistema di produzione capitalistico, cioè industriale, che fin dal suo inizio si fonda sul desiderio, ovvero sul continuo flusso di rappresentazioni di oggetti che possono essere scambiati. Che possa essere assoggettata a forme di controllo centralizzate è sicuramente un’idea dei Cinesi, e di altri, ma è un’idea alla lunga destinata a fallire. Dove c’è Internet, i sistemi di controllo centralizzati sono in affanno, tanto più grave quanto più quegli stessi sistemi di controllo vogliono che si sviluppi un mercato fondato sul desiderio dell’oggetto rappresentato.

Quanto detto spiega anche il fatto che buona parte della Rete sia occupata dalla pornografia, che dilaga incontrastata.

 

Gravina. L’episodio di Gravina ci parla. E ci dice cose terribili.

Un ragazzino cade in un pozzo vicino al paese. Dentro ci sono i corpi di due bambini. Così, fortuitamente, vengono ritrovati i due fratellini Pappalardi, che la polizia italiana aveva cercato ovunque, fino in Romania. Inquietante.
Mi occupo ben poco di cronaca nera, di delitti e processi, ma quel poco basta a far sorgere in me domande del tipo: quanto sono professionali, in genere, le indagini dei nostri inquirenti? quanto è stato saggio, a suo tempo, affidarle ai magistrati? quanto conoscono il territorio i nostri investigatori? quanto sono flessibili e veridici quando parlano di “indagini a tutto campo”, quando dicono “seguiamo tutte le piste”?

Io mi sono fatto due idee. La prima è questa: non basta essere laureato in legge e aver vinto un concorso per saper svolgere un’indagine. Ci vuole anche il talento, che la burocrazia non garantisce a priori, e che quando c’è non viene premiato. Ciò vale per la magistratura, l’insegnamento, e tutto il resto. Il nostro è un Paese burocratizzato, che non valorizza le capacità.

La seconda idea è questa: quando avviene un fatto su cui si deve indagare, gli organi si fanno subito un’idea, e ci si attaccano con assoluta indefettibile caparbietà. Questo appare in tutta evidenza in quasi tutti i casi (almeno in tutti quei pochi che  hanno suscitato il mio interesse). Qui doveva esserci di mezzo il padre, l’ipotesi di un incidente non è passata per la testa di nessuno. Così, siccome non potevano pensare che il padre dei bambini avrebbe potuto occultare i corpi vicino al paese, li hanno cercati lontano. Invece erano là, in quel pozzo a quattrocento metri dal luogo in cui erano stati visti l’ultima volta. In casi come questo, il mio debole intelletto non poliziesco mi suggerisce una ricerca a centri concentrici, svolta battendo palmo a palmo il territorio dopo aver centrato il compasso nel luogo in cui gli scomparsi sono stati visti l’ultima volta. Trattandosi di bambini di paese, soliti vagabondare un po’, alla ricerca di avventure, come tutti i bambini di paese che si rispettino, era l’unica cosa sensata da fare. Un pozzo scoperto, vicino all’abitato: l’incidente è l’ipotesi più seria, mi pare, ma anche se il caso fosse diverso, che quel pozzo sia stato ignorato mi pare uno scandalo assoluto. Certo, il padre-mostro era ipotesi più allettante, il bisogno del capro espiatorio c’è sempre, ed è il primo nemico di ogni inquirente serio. Ce ne sono pochi di seri, nel nostro Paese. E nel nostro Paese nessuno si dimette. Mai.

 

Capitale. Al di là di ogni ragionamento e di ogni distinzione più o meno sottile, mi sembra che una verità sia evidente: non esiste e non è mai esistita alcuna società industriale in assenza di un’accumulazione del capitale. Anche le società del socialismo reale, in quanto si sono volute industriali, hanno dovuto passare attraverso la fase dell’accumulazione, realizzata con metodi schiavistici (vedi l’estrazione dell’oro in Siberia realizzata negli anni Trenta con mano d’opera forzata), e sono divenute società capitalistiche, differenti dalle occidentali solo per la natura statale del loro capitale. Ma la sostanza della società industriale è la stessa ovunque, come dimostrano gli attuali sviluppi cinesi e indiani. Dalla società industriale non si esce all’indietro. Così come una società agricola non è mai ritornata alla caccia-raccolta per una pura evoluzione o involuzione interna, così una società industriale non è mai tornata agricola. Anche per un semplice fatto di massa demografica. Ma la catastrofe è sempre possibile.

 

Codibugnoli. Seguo dalla mia finestra le evoluzioni di una coppia di codibugnoli tra i rami di un albero del mio vicino. Il mio piccolo giardino, come quelli accanto, ospita, a volte per pochi minuti, varie specie di uccelli. Cince, verdoni, pettirossi, lucherini, verzellini, capinere, scriccioli, merli, storni, tortore dal collare orientale, e altre specie ancora. Ma di codibugnoli non ne avevo mai visti qui.

Sono piccolissimi, sembrano delle palline con uno stecco infilato, che è la loro lunga coda. Indaffarati. In realtà la gioia che trasmettono al contemplatore non è la loro, essi stanno cercando di sopravvivere: il loro alto metabolismo richiede molto cibo in rapporto alle dimensioni. Gli umani si inteneriscono a guardare i piccoli uccelli, ma nei tempi andati, quando c’era la civiltà contadina, i ragazzini in primavera andavano a nidi, arrampicandosi sugli alberi, e i piccoli implumi finivano in padella. I ragazzini si divertivano, e contribuivano alla dieta della famiglia, perché spesso mancavano le proteine da accompagnare alla sempiterna polenta. Esistevano poi vari espedienti e trappole e marchingegni per catturare gli uccelli, che ancora mio padre (88 anni) ricorda della sua fanciullezza campagnola. I codibugnoli però non correvano rischi, come anche gli scriccioli: troppo piccoli, ma già i pettirossi…

 

Digiuno della sete. Ho già scritto in un post che i Radicali rappresentano una forma di arcaicità politica. Questo si evidenzia al massimo grado nel loro leader Pannella. Egli ne è il capo, al di là delle cariche istituzionali, per essenza. Perché la sua essenza è più grande di quella di tutti gli altri. Egli è il Big Man del gruppo, colui che possiede una natura differente, e un grado di potenza superiore. Le sue qualità intrinseche sono superumane, e quindi sacre. Infatti egli è un amministratore e dispensatore del sacro, nella forma dell’autosacrificio che lo ricostituisce sempre di nuovo in potenza. Il suo privarsi del bere in una dimensione insostenibile per qualsiasi altro essere umano, il superare digiuni della sete che ucciderebbero anche un cammello, lo rende massimamente venerabile. Egli è più che umano: così quella che ad un non iniziato appare insostenibile verbosità, ai veri credenti appare effusione dello spirito (”laico” secondo la loro autocomprensione, ma in realtà religioso). In nessun luogo come nel gruppo dei Radicali italiani è visibile l’insuperabilità del sacro, che imprigiona anche coloro che pensano di esserne fuori, anzi proprio questi con catene più pesanti.

Veltroni, che a sua volta si pensa moderno e modernizzatore (o post-moderno?) non si è accorto di aver immesso nel PD un gruppo alieno, una spina inestirpabile. Questo dimostra che politicamente è un incapace.

 

Scoperta. Non è mai troppo tardi per scoprire il proprio vero sé.

Il proprio vero sé si scopre di fronte all’altro-da-sé. Così, navigando tra vari blog altri-da-me (cosa che faccio di rado, il mio è un universo di libri), ho scoperto quello che sono. Sono modernista, occidentalista, mondialista, filo-sionista, imperialista, maschilista, omofobo, antianimalista. Non male.

 

Moderni alchimisti. Mi piacerebbe conoscere un moderno alchimista che abbia dato un contributo fondamentale alla conoscenza dell’umano. Jung lo trovo insopportabile, gli junghiani mi fanno pena. Ciò che sta tra la filosofia e la scienza è sostanzialmente magia, ovvero una forma di ricerca del dominio (magari inteso come auto-dominio). Si tratta anzitutto di un dominio verbale, che ha l’effetto primario di creare conventicole, entro le quali ci si rafforza reciprocamente mediante la condivisione dello stesso gergo. Gli adoratori di Jacques Lacan sono l’esempio più chiaro di questo legame nella cifra oscura (i verdiglioneschi che si chiamano cifranti, che ridere). Personalmente, ritengo tutta la teoria e la pratica psicoanalitica (Freud compreso) più vicina alla magia che alla scienza. E ho toccato con mano la vanità dell’approccio psicoanalitico a causa dell’autismo di mio figlio. Come si sa, la psicoanalisi ha dato dell’autismo una lettura che ne faceva una sorta di autodifesa del bambino, che si chiuderebbe in se stesso di fronte al rifiuto (inconscio) dei genitori nei suoi confronti. Questa impostazione per anni e anni ha colpevolizzato il padre e soprattutto la madre. La neuroscienza negli ultimi anni ha dimostrato irrefutabilmente che si tratta di un disturbo organico legato a malfunzionamento di zone del cervello. Qui si tocca la differenza tra scienza autentica e costruzione mitico-magica…

 

Dell’Inizio, della Fine. Dalla questione “de initio” non si uscirà mai. Penso che abbia ragione Eric Gans nel definire la religione cattiva cosmologia e buona antropologia. La religione, infatti, non illumina il “cos’è” del mondo fisico, della sua costituzione non può dire nulla, ma illumina benissimo il significato profondo dei rapporti umani, soprattutto di quelli sociali, per i quali è nata. La questione principale è oggi quella della nascita dell’umano in quanto differente dall’animale. E in quanto segnato fin dall’inizio dalla violenza intraspecifica.

Si pensi a questo: la morte, l’argomento per eccellenza della riflessione e del dialogo (“tota philosophia commentatio mortis est”, scrive Cicerone, ovvero la filosofia è essenzialmente una meditazione della morte), oggi è evitata nel discorso di tutti, massime in Italia. Nascosta in un angolo, sottoposta a tabù. In Occidente essa è relegata nella fiction cinetelevisiva (dove per compensazione abbonda, insieme alla violenza) e negli ospedali, dove è amministrata tecnicamente. La gente non ne vuole sentir parlare. Distoglie lo sguardo, che però affascinato ritorna dove non dovrebbe, in modo surrogato e virtuale. Ma questo secondo me va inquadrato nel “pensiero vittimario” vigente, cioè nel trionfo del senso di colpa nello stesso Occidente, che si sente responsabile di tutti i mali e della violenza del mondo, delle vittime di ogni tipo. Il vittimismo e l’antioccidentalismo sono due facce della stessa medaglia. I non occidentali, gli animali, perfino le piante: tutti ci appaiono vittime. In TV, ad esempio, vige una censura assoluta: non si vedono mai ammazzare gli animali, quelli di cui ci nutriamo, e se si fa una trasmissione sul prosciutto di Modena, l’unica cosa che non ti fanno vedere è l’uccisione del porco. Non farebbero mai vedere una contadina che tira il collo ad una gallina. Però si vedono documentari con scene di predazione animale estremamente cruente (come leoni che uccidono lentamente un grossa preda). In sostanza: oggi si pensa che la gente possa contemplare lo sbranamento di un pinguino da parte di un’orca marina, con tutto il sangue che schizza ovunque, e non l’uccisione asettica di un pollo in un allevamento. Un motivo ci sarà… tutto si tiene. Nella coscienza diffusa ogni vittima fatta da noi è inaccettabile, ogni morte ingiusta, compresa quella del pollo, e mangiamo il panino col salame in piena falsa coscienza.

 

Scienza, Gnosi. Penso che ci sia gnosi in Cristina Campo. Per gnosi intendo ogni posizione che postuli come unica possibilità di salvezza dello spirito un atto di conoscenza. Perché vi sia gnosi in senso proprio occorre, dunque, che sia concepita una salvezza, e che questa sia una salvezza dello spirito in quanto contrapposto al non-spirito. La gnosi nella Campo è moderata (dal suo cattolicesimo), mentre Simone Weil è una catara, senza dubbio alcuno. Secondo me, c’è una linea catara non interrotta che giunge fino ai nostri giorni, e che emerge in persone e scrittori anche molto distanti. Un mio caro amico ora morto, Alberto Gallas, che è stato uno dei più profondi conoscitori italiani di Kierkegaard, era d’accordo con me nella definizione del grande danese come “cataro protestante”. Nessuna teoria che ponga la salvezza sul piano dell’ordine puramente mondano, e la faccia scaturire da una prassi, può essere definita gnostica.

Ciò che salva il Cristianesimo dal precipitare nella gnosi è la piena umanità di Gesù. Il Figlio dell’Uomo che si occupa del mangiare anche dopo la resurrezione (Vangelo di Giovanni, il più spirituale, 21).

Io, peraltro, penso che un’accettazione “solare” della carnalità non possa essere davvero pienamente cristiana. “Solare” mi sa di paganesimo (dove la luce copre la pratica sacrificale sottesa ad ogni relazione). La carnalità è cristianamente accolta nel suo essere vulnerata dal peccato, soggetta al disfacimento, soggetta al divenire, e in ultima analisi polvere. Polvere amata e resa vivente.

La gnosi implica sempre che vi sia una trasformazione radicale della vita del soggetto che viene illuminato dalla conoscenza. Basta aver a che fare con qualche scienziato contemporaneo per rendersi conto che scienza e riflessione sulla scienza non sono la stessa cosa. E a maggior ragione tra attività scientifica e vita vi è un baratro. Spesso gli scienziati quando ragionano di varia umanità risultano penosi, e spesso, anche quando brillanti nel loro campo, risultano estremamente poveri dal punto di vista umano. Ne ho conosciuti molti, soprattutto fisici. Alas! Le loro vite private erano regolarmente fallimentari. Ciò nulla toglie al valore conoscitivo della fisica. Infatti la fisica contemporanea non è gnostica.

Il dibattito che periodicamente si accende in Italia sulla cultura scientifica e i suoi nemici è viziato da mancanza di chiarezza concettuale. L’esperimento scientifico è sempre affascinante (ma il suo essere affascinante non è un dato scientifico in sé) e portatore di conoscenza. Conoscenza settoriale. Ne ho fatti anch’io, nel mio piccolo, anni fa, da ragazzo, studiando la chimica del veleno delle formiche (soprattutto della specie myrmica ruginodis e lasius fuliginosus). Tuttavia la scienza di per sé esclude le qualità e tende al quantitativo. Non esiste una formula della bellezza come esiste una formula del veleno della myrmica (simile a quella del veleno della vipera, tra l’altro, se ben ricordo). Pure, la bellezza esiste, e ne facciamo esperienza continuamente. Per gli umani è fondamentale. Non solo, ma la valutazione dei risultati della scienza, e le decisioni sul che farne, su come applicarli, non hanno alcuna scientificità. E, per finire, se io dovessi lodare la scienza perché ha consentito a mia zia di arrivare a 84 anni e continuare a vivere ridotta ad una larva nel suo letto, mentre in passato sarebbe morta da un pezzo, rimarrei su un miserevole piano quantitativo. Meglio morire in battaglia, o ucciso da un orso durante una caccia, da uomo, che infermo nel letto vecchio e impotente, peggio di una squaw! Dovrei allora anche accusare la scienza perché la minaccia di sparizione della vita dalla tutta la terra è oggi molto più grave che in passato…
Personalmente, ritengo che un dibattito simile sia tedioso e assurdo, e che la scienza sia oggi intrecciata col potere economico, politico e militare in un modo tale che ancora una volta risulta chiaro come il problema fondamentale per gli umani sia quello della violenza, il problema che le religioni da sempre cercano di controllare e che la scienza neppure si pone. Essendo però in grado di aumentare di molto l’efficacia delle armi.

 

Ragione, desiderio. L’uomo che vive secondo il dettame della sola ragione è una mera astrazione. In ogni caso bisognerebbe stabilire prima di quale ragione si parli. La sapienza filosofica greca ha sempre pensato che il vivere secondo ragione consista nell’adeguarsi all’ordine del mondo e al movimento circolare dei cieli: nell’intendersi parte di un tutto razionale e divino l’uomo trova realizzazione e felicità. La sapienza tragica degli stessi Greci, di contro, vede nel mondo umano il trionfo dell’ingiustizia e della violenza, che solo il sacrificio può placare. Anche qui vi è una ragione: non vedere che alla base dell’umano sta la violenza è infatti obnubilamento e follia. Se tutti gli umani morissero “sazi di giorni” di morte naturale in tarda età, forse la morte non sarebbe un problema. Ma basta volgersi intorno e si vede che non è così, e così non è mai stato: muoiono i bambini, e la violenza miete vittime innocenti.

Il mondo non è l’habitat ideale per un intelletto geometrico.

Una volta assunto che il Desiderio è per sé buono, e questo è atto costitutivo della civiltà occidentale, che rende da sempre problematico il suo essere Christianitas, si hanno conseguenze a catena, che necessariamente portano agli abominii del presente, in cui si arriva a porre in questione lo stesso tabù dell’incesto (anche in ciò Wagner è stato precursore, con Siegmund e Sieglinde). Se il Desiderio è buono, tutto ciò che si oppone ad esso è cattivo. E arcicattiva è dunque la Chiesa. Dove porre il limite tra il lecito e l’illecito, tra il giusto e l’ingiusto, se il Desiderio è il nostro dio?

Occorre poi tener presente che il Desiderio ha natura mimetica. L’anima del bambino non sa cosa deve desiderare, e lo impara dal gruppo sociale cui appartiene, in primis dalla famiglia. Ed ogni società ha insegnato ai suoi figli come e cosa desiderare. Mediante modelli. Ai piccoli spartani si dava, ad esempio, il desiderio per noi incomprensibile di morire in battaglia. E tuttavia ogni società aveva dei criteri per distinguere i desideri buoni da quelli negativi. È questo criterio che noi non abbiamo più. In Occidente pare che il criterio sia quello della violenza, ovvero l’idea che debba essere ritenuto lecito e praticabile tutto ciò che non comporti violenza sull’altro. Umano, animale, pianta: la sfera dell’altro si allarga. Il fatto è, però, che la violenza è una componente essenziale dell’umano, ed è intrinsecamente legata al desiderio, e risulta assai difficile scatenare quest’ultimo senza che anche la violenza, in modi diversi, si liberi e dilaghi. Ma questo oggi non si vuol vedere, anche perché senza Desiderio illimitato i meccanismi della nostra società della crescita illimitata si incepperebbero. È una contraddizione insanabile.

 

Amore, matrimonio. L’Occidente sta perdendo l’idea che matrimonio e famiglia siano una istituzione. Li lega al puro e semplice sentimento, e in questo modo li nullifica, poiché il sentimento va e viene, è per natura instabile.

Il Cristianesimo vide sempre nel matrimonio e nella conseguente famiglia l’utilità sociale. Da un lato infatti la Chiesa intese il matrimonio come “remedium concupiscentiae” (“ma se non sanno vivere in continenza, si sposino; è meglio sposarsi che ardere”, 1 Cor. 7, 9), dall’altro vide in esso il fine supremo della generazione della prole. E questo è un dato non solo cristiano ma universalmente umano: in tutte le società, per quanto arcaiche, esistono riti di fondazione della famiglia, e questa ha anzitutto una funzione di prolificazione, e di protezione dei piccoli nati. L’amore cristiano, che non è eros ma charitas, riscatta ogni istituzione umana dai limiti che le sono inerenti a causa del peccato. Quindi l’amore cristiano entra anche nel matrimonio. E purifica anche l’eros. Ma bisogna stare attenti dal punto di vista concettuale. Qui si corre infatti il rischio di incorrere in gravi confusioni. La famiglia in tutte le società tradizionali, per migliaia di anni, non si è fondata su eros. Eros è una potenza destrutturante, terribile, come ben sapevano i Greci. Gli esempi di innamorati nel mondo antico greco e romano sono sempre esempi negativi, da Elena e Paride in giù. E anche nell’Occidente cristiano le coppie di amanti fondative del concetto stesso di amore, cioè di amore come passione, che è il modo in cui comunemente viene inteso, sono coppie extra-matrimoniali e adulterine, dalle iniziali Tristano e Isotta e Lancillotto e Ginevra a quelle tarde ed epigoniche, di cui tra l’altro resta nella memoria solo il membro femminile (Madame Bovary, Anna Karenina…).

Che poi Maria e Giuseppe costituissero una famiglia tradizionale, e non una moderna nucleare scaturita dall’innamoramento, mi sembra indubbio. Le citazioni evangeliche di “fratelli di Gesù” significano che Maria e Giuseppe vivevano non come una “famiglia nucleare” moderna, ma ben inseriti in un contesto relazionale familiare allargato. Un esempio tra tanti:

Giunsero sua madre e i suoi fratelli e, stando fuori, lo mandarono a chiamare. Tutto attorno era seduta la folla e gli dissero: «Ecco tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle sono fuori e ti cercano». Ma egli rispose loro: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?». Girando lo sguardo su quelli che gli stavano seduti attorno, disse: «Ecco mia madre e i miei fratelli! Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre» (Mc 3,31-34; Mt12,46-50; Lc8,19-21).

Passo che tra l’altro mostra come il Vangelo non abbia come fine supremo il rafforzamento della famiglia come istituzione. Infatti la famiglia non è una istituzione cristiana, ma generalmente umana.

È la pretesa moderna di fondare la famiglia sull’innamoramento, su eros (e di volerlo come permanente, sicché gli sposi dovrebbero essere permanentemente erotizzati, sennò sarebbero infelici), a condurre inevitabilmente alla debolezza dell’istituzione familiare, alla crisi del matrimonio, alla fragilità della vita di coppia, eccetera.

 

(Omo)sessualità. Una delle obiezioni contro ciò che oggi si appella l’omofobia è quella della grandezza di molti omosessuali del passato. Si citano personaggi come Cesare o Alessandro, e si passa a Leonardo, Michelangelo ecc. A dire: non è malattia o perversione l’omosessualità, è solo un altro modo di vivere il sesso. È un argomento debole: di per sé la condizione di malato, infatti, non si oppone alla grandezza, basti pensare a Leopardi o a Nietzsche… Quindi non è argomento a non considerare Michelangelo un malato o un pervertito. Rimarrebbe un grande.

Credo che una discussione sull’omosessualità sia oggi molto difficile, soprattutto quando entra in gioco la questione della “natura”, che è un portato non della cultura ebraica ma di quella greca (ad esempio, Platone nelle “Leggi” condanna l’omosessualità sulla base di un concetto di natura), che come tutti sanno si è mediata nel Cristianesimo producendo l’Occidente. Che l’omosessualità sia da interpretarsi in un contesto di storia della cultura è reso evidente dai caratteri di quella antica. Tra i personaggi che vengono solitamente citati, infatti, Socrate, Alessandro e Cesare ebbero mogli e amanti donne, e generarono figli, e concepivano l’omosessualità essenzialmente come pederastia, come tutti i Greci. Mi pare significativo che quel termine oggi sia scomparso dall’uso. È elemento assodato e pacifico che la cultura greco-romana considerava la penetrazione patita da un uomo adulto come massimamente disonorevole. Qui occorrerebbe esaminare tutta l’ideologia del “patire-passione” e dell’ “agire-azione”, con l’assoluta valorizzazione del secondo polo, che porta ad esempio Plutarco a condannare l’amore omosessuale di fronte a quello eterosessuale perché nel primo manca la reciprocità nel momento del piacere, uno agisce e l’altro patisce, mentre nel secondo per natura l’uomo e la donna possono godere insieme.

 

Leggiamo nell’”Amatorius”: Se è vero, infatti, che l’unione contro natura di due maschi non distrugge né diminuisce l’intesa amorosa, a maggior ragione dobbiamo pensare che l’amore tra uomini e donne, conforme alla natura, conduca a vera amicizia attraverso la grazia della reciprocità. (…) Il rapporto tra maschi è diverso: se il giovane non è consenziente, esso è frutto di violenza e di sopraffazione; se invece acconsente, per il suo carattere debole ed effeminato, a farsi ‘montare e inseminare come fanno i quadrupedi’ secondo le parole di Platone, concede le sue grazie in forma contraria alla natura, in un modo sgraziato , indecente e privo di piacere per lui”.

 

Mi è difficile discutere con chi sostenga che questioni come quelle poste dalla gestione della sessualità in tutte le società umane “dovrebbero essere le più naturali del mondo”. Sono invece questioni culturali e storiche.
L’organizzazione della sessualità umana non è “naturale”, non può esserlo. Altrimenti essa sarebbe strutturata nello stesso modo in tutti i tempi e paesi. Se inseguissimo coerentemente la “natura” dovremmo pensare che la sessualità umana dovrebbe modellarsi su quella dei primati. O che il più forte dovrebbe fecondare lui solo le femmine, per il bene della specie, ecc. ecc. Qui non ci sono le “cose naturali”, per fortuna. E perché mai dovrebbe essere “naturale” il rapporto di coppia, più o meno durevole, e non la poligamia, o altro? E il discorso non varrebbe solo per la sessualità. Potrei dire che la lotta e la guerra sono le cose più naturali del mondo, ecc.

La felicità, poi, non è “dietro l’angolo”. Se lo fosse, tutti i più grandi uomini non avrebbero capito nulla, compresi i fondatori di religioni. L’esperienza di millenni ci dice che gli umani sono mortali e infelici. Affermazioni come quelle che circolano quando si discute di sessualità mi ricordano un famoso “scopate e sarete felici” su cui non ho commenti.
Infine, dove c’è povertà, lontano dall’Occidente impelagato in oziose discussioni, i problemi dei rapporti tra i sessi sono risolti anche in modo assai semplice: lapidazione di adultere e omosessuali, repressione, infibulazione… O no?

 

Del Sacro. Qualsiasi discorso sul sacro e sul profano nell’Occidente post-cristiano non può prescindere dal discorso biblico sul rapporto tra Dio e gli idoli o falsi dèi. Nella Bibbia, infatti, è contenuta una tendenza demistificatrice del sacro che differenzia radicalmente la tradizione giudeo-cristiana dalle altre religioni antiche.

Il sacro e il sacrificio sono la stessa cosa. Infatti sacrificare significa “fare sacro”. E ogni sacrificio è un atto di violenza. Perciò tutte le religioni sono un tentativo di regolare la violenza mediante il sacrificio, mediante un atto ritualizzato di violenza (Girard). Ma quello di Gesù per i cristiani è l’ultimo, definitivo, sacrificio di sangue. Non ce ne possono essere altri. Nella sfera cristiana, dunque, nel mondo visto attraverso la rivelazione cristiana, la violenza sarà solo profana. In un senso ben preciso, il Cristianesimo è la fine della religione. D’altra parte, se il religioso è, come penso, il porsi dell’umano davanti a forze avvertite come trascendenti, e il suo negoziare con esse mediante il sacrificio, ciò che nel nostro mondo appare come Improfanabile ha tutti i caratteri del religioso. Si tratta però, dal punto di vista giudaico-cristiano, di un religioso idolatrico. È, del resto, quasi impossibile che un essere umano sia davvero puramente ateo. Se non crede in Dio, crederà in qualcos’altro. Ma questo qualcos’altro, in quanto non Dio, assumerà i caratteri dell’anti-Dio. Vorrei rimandare a due testi pubblicati sul mio sito web:

Dio e il sacro http://www.bibliosofia.net/files/Dio.htm 

e Moneta di sangue http://www.bibliosofia.net/files/Moneta_di_sangue.htm .

Penso che se il discorso deve essere rigorosamente antropologico (e deve esserlo), si debba risalire alle fonti del sacro. Queste precedono la nascita del mercato e della merce (che propriamente esiste solo là dove vi è circolazione del denaro). Le società arcaiche non conoscono la merce, ma ben conoscono religione, sacrificio e sacro. Ben conoscono soprattutto la violenza, e il problema che questa costituisce per l’umano e la sua sopravvivenza (la nostra è l’unica specie per la quale il pericolo massimo sia rappresentato dalla specie stessa). Vi è, a mio giudizio, una singolare cecità nel non vedere la centralità del sacrificio, e il suo essere atto violento, al centro di ogni concezione religiosa del mondo (cioè di ogni concezione umana). Ma ciò non è sorprendente, poiché “chi è stato omicida fin dall’inizio” ha sempre mistificato la sua natura presentandosi come benefattore. La nostalgia dell’orizzonte sacro, che appare forte in molti settori della cultura occidentale contemporanea, sotto varie spoglie, mi appare estremamente pericolosa nella misura in cui oblia il legame essenziale tra il sacro e la violenza.

Ho l’impressione, poi, che perché la discussione sul questo tema oggi fosse feconda sarebbe necessario un accordo generalizzato su di un concetto rigoroso del sacro. Altrimenti oscilleremo tra filosofie varie e alquanto soggettive ed un uso metaforico allargato del termine (che può estendersi fino ad un “per me la partita di calcio della domenica è sacra”). Il discorso è chiaramente complesso, ma proprio per questo va impostato con rigore: anzitutto avendo chiaro che santità e sacralità non sono la stessa cosa. L’assoluta trascendenza del Dio biblico, che lo rende altro dalle potenze di questo mondo, spoglia questo stesso mondo di ogni sacralità (esso non è più “pieno di dèi” come era per i Greci - ed è per questo che i primi cristiani venivano visti come atei) e nello stesso tempo fa sì che Dio si possa manifestare totalmente in un uomo. Quello di cui abbiamo appena ricordato la rivelazione pasquale.

Micropensieri generativi. Anche nell’attuale dibattito sulle posizioni di Vito Mancuso si usano a profusione le parole Dio, Spirito, ecc. Parole che hanno millenni di storia. E, in questo dibattito, c’è il pericolo di farsi inebriare, di non più propriamente pensare, ma farsi trascinare dall’emozione che sorge dal proprio vissuto, dalle parole lette, dai testi sacri, e così via. Risonanze che annebbiano l’intelligenza di che cosa “spirito” sia. Poiché nulla è peggiore del dominio che sull’anima esercitano i nomi, e i confini dei nomi si sovrappongono. Perché “Dio” è “vita”, “Dio” è “spirito”, “spirito” è “vita”, “vita” è “energia”, ecc. ecc.

Del resto, anche le parole più usate, se assunte criticamente, si rivelano estremamente problematiche. Si prenda cosa. A me piace l’espressione cose contingenti. Bertrand Russell, prototipo di molti atei contemporanei, si rifiuta di applicare alle cose il termine “contingente” perché se lo facesse dovrebbe ammettere che si dia la possibilità che esista qualcosa che contingente non è. Quindi per lui noi dovremmo dire solo “cose”, perché è assunto che esse non possano essere altro che “contingenti”. In questo modo, tuttavia, l’idea della contingenza viene solo dislocata, rimanendo un paradossale pensiero non pensato. Non dissimilmente dall’ateismo, che non può essere che secondario e derivato, e mai un primum, dipendendo da una primitiva idea di Dio.

 

“Il taglio netto della testa causa sempre la morte di chi lo subisce”: questa proposizione enuncia una verità. E se sì, di che ordine? “Hitler ha governato la Germania”: questa proposizione enuncia una verità? Di che ordine?
Se qualcuno parla di verità scientifiche, giuridiche, sociali, e opinioni, e poi afferma essere cosa vacua chiedersi di che ordine siano le verità espresse in quelle due proposizioni (“Il taglio netto della testa causa sempre la morte di chi lo subisce” e “Hitler ha governato la Germania”), gli sfugge che affermare che esse “sono solo vere”,  implica un concetto apriori di verità (che non è giuridica né sociale né scientifica e non è nemmeno un’opinione). Oggi mi sembra quanto mai necessario problematizzare un concetto di verità corrente che mi sembra ingenuo.

Intendo dunque dire non che il contenuto della proposizione “Hitler ha governato la Germania” è vero a priori, ma che l’affermazione della veridicità di quella proposizione implica necessariamente un’idea a priori della verità e della veridicità in sé. Aggiungo che se non condividessimo un’idea generale di verità non potremmo nemmeno dialogare, su nessun argomento.
E poiché non si può pensare Dio senza pensare la verità, io enfatizzerei molto, nella mia prospettiva girardian-gansiana, come il Dio di Nietzsche, al quale non possono non riferirsi i teologi e i filosofi di oggi, a prescindere dalla loro posizione, non muoia accidentalmente, o di vecchiaia, come molti lettori sembrano aver inteso, ma sia stato UCCISO. E questo riporta il discorso sul rapporto tra religione, violenza, sacrificio e genesi degli idoli (o dèi). Il rapporto critico è quello tra verità e potere (che è sempre, in qualche misura, potere idolatrico, cioè religioso).

Aggiungerei che oggi tutti i poteri di questa terra si riempiono la bocca di Amore e di Emozioni, ma sono nemici del Pensiero (abbiamo un papa teologo, però). E su questo c’è da pensare….


A mio parere il discorso nietzscheano della morte di Dio è il discorso dell’uccisione di Dio. E Dio secondo lui è stato ucciso dagli uomini. Questo aspetto dell’uccisione, del sacrificio, chiarissimo nel testo nietzscheano, è stato misconosciuto dagli interpreti. Nietzsche aveva ben compreso come l’umanità sia sempre stata regolata dal meccanismo vittimario, e come nel suo profondo la tradizione giudeo-cristiana vi si opponga: da qui la sua avversione verso il Cristianesimo (che egli unifica poi al platonismo, il che è stato in parte fuorviante sia per lui che per i suoi successori). Nietzsche vorrebbe tornare al mondo della religiosità pagana, in cui le vittime erano rese tali senza alcuna pietà. Il suo è, in profondità, un discorso antropologico, non metafisico o antimetafisico, ovvero è quest’ultimo solo in seconda istanza.

Nessuna “dimostrazione” in filosofia è definitiva. Il “come hanno dimostrato” suona sempre appello ad auctoritates…  Veramente, ci sono alcuni oggi che ritengono la follia di Nietzsche non separabile dal senso profondo della sua filosofia. Ad esempio René Girard, Giuseppe Fornari, e nel suo piccolo anche il Brotto. Comunque, la follia di Nietzsche non è usata da costoro a smentire la validità teorica delle sue affermazioni, come qualcuno fece in passato, ma per mostrarne la tragicità (cosa che in fondo piacerebbe allo stesso Nietzsche, il quale non avrebbe mai accettato che la follia di un pensatore non avesse alcunché da spartire col suo pensiero).

 

Il mondo della verità è il mondo del segno, che è fondamentalmente parola, ma anche gesto e cenno. La verità riguarda dunque solo gli umani nel loro essere nel mondo. E primordialmente è sperimentata già dal bambino, nel momento in cui vive la prima relazione tra il significante e il significato come attuantesi o non attuantesi: mamma, e il seno col latte; così come può sperimentare la non-verità: mamma, e un succhietto di gomma che non conforta. Dunque il segno come compossibilità di verità e non-verità. Sono fondate insieme.

Il luogo della verità è perciò la relazione interumana: nel flusso dei segni che unisce gli umani si conosce la stabilità dell’essere altro da sé come distinto e indipendente, ma insieme tanto umano quanto il sé. Il segno che rende umani gli umani dice anzitutto la verità della loro reciproca presenza di umani, e su questo fondamento ogni ulteriore verità posa. Non dico che la verità è il segno, ma che il suo mondo è quello del segno. Ciò significa che essa per noi umani abita il mondo dei segni. Ma non si riduce ad essi.

Se si sostiene, poi, che il mondo dei segni è il mondo del potere, potrei essere d’accordo, se si fa coincidere l’umano, cioè la sfera del segno il cui piano “verticale” trascende il piano “orizzontale” delle pulsioni e degli appetiti puramente animali, con il potere stesso. Poiché anche gli umani più critici delle modalità in cui il potere viene esercitato dagli e sugli uomini, come Gesù, sono rimasti entro l’orizzonte del segno. Tanto che gli stessi miracoli, che sono gesti e operazioni, vengono chiamati “segni”.
Ma io non penso che esista solo la sfera del segno. Per questo facevo l’esempio del bambino e del latte materno. C’è la datità dell’esperienza, c’è l’immediatezza ancora-non-significata, ci sono le realtà brute, ecc. C’è, se si vuole, la nuda vita, il dolore insoffribile. C’è anche tutto quello che abbiamo in comune con gli animali. Ma ciò che ci rende umani è il segno. Quello con cui ci comunichiamo il nostro reciproco riconoscimento come umani.

 

C’è una grande difficoltà del pensiero comune contemporaneo, che sembra incapace di fissare la differenza essenziale tra l’animale e l’uomo. Come ho già detto, questa differenza è istituita dal segno, che è ben diverso dai “segnali” con cui comunicano gli animali, e che consente la nascita della cultura, che gli animali non possiedono.
Come tutti sanno, i rapporti tra gli animali all’interno di una stessa specie sono regolati dal cosiddetto pecking order, che è stato osservato per la prima volta tra le galline: in un gruppo, il più forte “becca” tutti gli altri, e non è beccato da nessuno, il secondo è beccato dal primo e becca tutti gli altri, fino ad arrivare all’ultimo nella gerarchia, che è beccato da tutti e non può beccare nessuno. Il criterio discriminante è la forza. Una spietata legge gerarchica domina le relazioni tra gli animali. Ma insieme consente che non si giunga mai alla violenza indifferenziata, ma semmai solo a uccisioni mirate. È tuttavia chiaro che tra gli animali non esistono diritti né doveri (e non è un caso che l’animalismo possa parlare solo di diritti degli animali, non di doveri, che sono pensati dall’uomo per l’uomo. Come pensare infatti i diritti reciproci di predatori e prede?).
Con la comparsa dell’umano, si ha una rottura del pecking order, esso non basta più, e la specie potrebbe collassare nell’autodistruzione. Per questo l’antropologia generativa attribuisce la nascita del primo segno, con cui l’umano fa la sua comparsa, ad un atto di rinuncia, un atto di differimento di quel tentativo di impossessarsi di una preda che scatenerebbe nel gruppo proto-umano, in assenza appunto di un pecking order, la violenza indifferenziata. Questo significa che noi umani avremo sempre la tendenza alla violenza e insieme la possibilità di differirla, mediante lo scambio reciproco di segni, che sono gesti e parole, il dialogo e lo scambio. Per questo ogni interruzione dello scambio allude sempre alla possibile violenza.
Ma il perdere il senso della differenza (di tutte le differenze) è un portato della cultura “vittimaria” che si è diffusa in Occidente dopo la seconda guerra mondiale, per cui il concetto di “vittima” è stato esteso dalle minoranze umane perseguitate agli animali, e perfino alle piante. E tutti vogliono essere dalla parte delle vittime, quando non si proclamano vittime essi stessi. Comprenderne le origini storiche è fondamentale per un pensiero che voglia mantenersi razionale.

 

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