SICILIANO E ITALIESE

NELLE OPERE DI LINA RICCOBENE*

 Salvatore Bancheri **

sbancher@utm.utoronto.ca

 

Quando nel 1994 alla compagnia teatrale Maschere Duemondi -- da me diretta assieme al collega Guido Pugliese -- è stata proposta la messinscena di una delle commedie in dialetto siciliano di Lina Riccobene, a priori si è dovuto declinare l’impegno per motivi puramente inerenti alla struttura e alle finalità di Maschere Duemondi, una compagnia teatrale nata nell’ambito della University of Toronto at Mississauga (UTM). A partire dall’anno accademico 1986-87, si mette in scena, presso il nostro Istituto, una commedia italiana interpretata dagli studenti, a cui assistono circa 2.500 persone l’anno, durante le sette rappresentazioni programmate.  Dal 1986 al 1992 la rappresentazione della commedia ha assunto i connotati di attività parascolastica. Nell’anno accademico 1992-93 l'iniziativa teatrale è stata promossa  -- caso allora unico nelle università nordamericane -- a materia di studio con pieno valore accademico.1  In questa iniziativa teatrale fu individuato uno strumento valido -- come confermano le contemporanee ricerche pedagogiche -- per insegnare lingua e cultura.2 Nel mettere in scena le commedie si tengono sempre presenti tre componenti:  una linguistica, una letteraria e la terza interpretativa.  Tutte le commedie oggetto del nostro studio intensivo, sono analizzate in due prospettive:  quella artistica, effettuata secondo opportuni approcci critici, e quella glottodidattica, in cui i testi sono impiegati per esercitazioni linguistiche.

            Accettando di mettere in scena l’opera in dialetto siciliano della Riccobene sarebbe venuta quindi meno una parte essenziale del nostro esperimento: l’esercitazione linguistica, termine con cui bisogna esclusivamente intendere pratica ed uso attivo dell’italiano standard e non delle sue forme regionali.  Si sarebbero  anche creati dei problemi:  il nostro pubblico e i nostri studenti-attori si sarebbero trovati di fronte ad una barriera linguistica.

            La proposta della messinscena dell’opera della Riccobene, comunque non si è rivelata inutile in quanto ci ha fatto riflettere sulla questione di un possibile teatro dialettale in seno all’esperimento teatrale universitario.  Si è superato l’ostacolo adottando una strategia per appropriarsi del testo, tramite un’operazione fondamentale di ammodernamento e di riscrittura.  In altri termini, fu richiesto allo studente, in seguito a preliminari lumeggiamenti, di riscrivere in versione moderna (per i testi antichi) o in versione in lingua (per i testi in dialetto)  la parte che ognuno era tenuto a recitare. Il dialetto, visto prima come ostacolo diventava ora materia di esercitazione linguistica, fonte di studio, di ricerca linguistica e antropologica presso la comunità.  Il risultato: un testo che ha ancora un suo forte carattere dialettale, ma che diventa anche comprensibile a un uditorio misto come il nostro.  È anche un testo che lo studente sente più suo, in quanto ha apportato in esso dei cambiamenti sostanziali.  Un corso accademico diventa in questo modo più ricco, più completo, più interattivo.  In seguito a questo radicale cambiamento di prospettiva, nell’anno accademico 1995-1996 abbiamo potuto rappresentare Matrimoniu ppi procura della Riccobene.

            La suddetta proposta non è stata inutile anche perché è diventata per me un invito a scoprire l’opera dell’autrice siciliana.

            Persona molto attiva sulla scena culturale, Lina Riccobene, nativa di Delia e ivi residente, si è affermata soprattutto nel settore teatrale in dialetto e in quello poetico.  Diverse e apprezzate le sue opere in entrambi i campi.  A titolo rappresentativo segnaliamo le seguenti pubblicazioni in poesia: Cirri di attese (1991), volume che ha ricevuto ampi consensi di critica fra cui quelli di Giorgio Barberi Squarotti; Celebro la bellezza (1993); Regine d’Attese (1993); Sovranità in attesa (1993); In finale di partita... per non parlare di Beckett (1993); La speranza del giorno (1993); Storia ingemmata (1995); La via dell’oceano (1996); Après nous le déluge (1999); Rosa canina (1999). Molte altre sue poesie figurano in antologie di poesia contemporanea.3 Sono in fase di pubblicazione una trilogia dal titolo “La parola in vetrina” ed un poemetto titolato “Postumo orizzonte nell’assenza presente”.

            Apprezzati sono anche i suoi interventi critici su riviste specializzate come Oggifuturo, La procellaria, Presenza, Amicizia, Giornale di Poesia Siciliana, Arenaria, Jonio, Meridiano Sud, Ultim’ ora, Peloro 2000. Pochi anni fa, ha avuto una certa risonanza, con articoli sia su La Sicilia (La Mattina) che sul Giornale di Sicilia (Montebello), il suo intervento critico su Buio, libro con cui la Maraini ha vinto il Premio “Strega” nel 1999.  “Nel panorama letterario siciliano -- scrive il giornalista de La Sicilia -- la scrittrice di Delia Lina Riccobene continua ad essere una delle più impegnate di questo periodo.  [Dopo l’intervento] la Maraini, con tono affettuoso e cordiale, ha poi apprezzato il lavoro critico svolto in modo forbito da Lina Riccobene, la quale ha catturato, nella stessa sede, l’attenzione del mondo giornalistico della capitale”. (La Mattina)

            Nel campo teatrale ricordiamo:  La Diliana (1981); Roba ... di casa noscia (Premio Internazionale “F.M. Dostoevsky”, Roma 1991); Italia e li so’ figli (1982); Centuncinquant’anni d’Italia (1983); Carnalivari e l’imperaturi (1984); Matrimoniu ppi procura (1986); Li devoti di la hiacca (1988); Schetta nun t’appi (1989); Arri e Catarri (1992); e le ultime commedie brillanti “Cutieddu duru e pani ca nun taglia” (2001) e “Issi issi ca t’avissi” (2005) L’Autrice considera la possibilità che venga presto pubblicata anche l’opera teatrale omnia.4

            Non si vuole, in questa sede, inquadrare l’opera della Riccobene nel contesto del teatro drammatico siciliano o nel quadro poetico italiano attuale; è mia intenzione, invece, concentrarmi solo su quegli aspetti e su quelle tematiche della produzione riccobeniana che hanno in qualche modo un legame con la realtà italo-canadese.  Mi riferisco, in modo particolare, al tema dell’emigrazione, all’uso del dialetto nella produzione drammatica, al tema sociale del matrimonio per procura e infine all’uso dell’italiese, la koiné parlata in Ontario dagli italo-canadesi.

            Delia, una cittadina di circa 4.500 abitanti, situata nel profondo cuore della Sicilia, nel nisseno, è un paese fortemente toccato dal fenomeno dell’emigrazione:  la comunità deliana di Toronto è addirittura più grande di quella in Sicilia; abbastanza grande è anche la comunità deliana in Germania, soprattutto nelle città sicilianizzate di Dammistar, Manaim, Sabrichen;5 vi sono poi vistose colonie di deliani anche in Francia, Belgio, Stati Uniti, Venezuela, Argentina.  In poche parole, non vi è cittadino a Delia  -- come d’altronde in molti paesi del Meridione -- che non sia stato toccato personalmente dal problema dell’emigrazione.  Le gioie, i lamenti, le ansie, le condizioni, le testimonianze della gente di Delia (ma anche dell’emigrato in generale) hanno anche trovato delle voci poetiche prima nella penna di Stefano Vilardo6 -- autore di Tutti dicono Germania Germania, uscito per i tipi della Garzanti nel 1975, con introduzione di Leonardo Sciascia -- e poi in quella di Lina Riccobene  -- La via dell’oceano (da Delia verso l’altrove) pubblicato nel 1996 presso la casa editrice Autori Riuniti, con prefazione di Giovanni Amodio.

            Si tratta di due rappresentazioni dell’emigrato deliano molto simili, ma allo stesso tempo diverse, perché diversa è l’impostazione che i due autori danno alle loro testimonianze.  Nel lavoro del Vilardo sono gli stessi emarginati di Delia, che, in versi che “mantengono ossessivamente il tono e gli accenti del parlato [...] gemono e urlano la loro aggrovigliata rabbia contro coloro che ‘prima delle elezioni / distribuiscono miele di parole’ per poi mostrare il loro volto di ‘sanguisughe velenose’“ (Vilardo, retro copertina):

 

Dalla collina di Delia, un piccolo comune nel cuore della Sicilia, si leva il lamento di questa Spoon River nostrana, la voce dei suoi figli, “disgraziati senza né cielo né terra”, costretti a emigrare. L’unica desolata terra di nessuno concessa loro dall’Italia ufficiale è l’estero: Delia e Germania... non sono che i due poli di un’identica condizione, quella di pendolare perpetuo fra due terre che perpetuamente li attirano e li respingono.  “Manna del cielo”, “paradiso”, è la Germania per il bracciante di Delia che non ha lavoro; ma appena raggiunta diventa fatica e lavoro, come fatica fame dolore diventa appena raggiunta la Delia invocata, la Delia dell’assenza e del ricordo. (Vilardo, retro copertina)

 

Ecco due testimonianze raccolte dal Vilardo:

 

È vita questa

Vita di sacrifici

Ma io dico

che sempre noi dobbiamo farli questi sacrifici

ché siamo figli di puttana

muli siamo senza padre né madre. (17)

 

Tutti dicono Germania Cermania

e se ne riempiono la bocca

come fosse la manna del cielo

a me non ha portato che sfortuna

ma io sono cocciuto come un mulo

e andrò in Germania fino a quando crepo

I primi giorni tutto mi va bene

trovo lavoro casa

e guadagno che non mi posso lamentare

poi il diavolo ci mette la coda

e vado a finire in ospedale

come quella volta che mi cadde addosso

un sacco di cemento

e mi ruppi tre costole che ne risento ancora

Parlano della Germania come fosse il paradiso

come se i soldi te li regalassero

invece se non ti sfianchi di lavoro

per dieci dodici ore al giorno

a casa non manderesti che pidocchi.  (79)

 

            Come si può constatare, il Vilardo trasmette “insieme con la denuncia di un quotidiano, cocente sorpruso, la testimonianza della gente di Delia, con la sua ansia di giustizia, il suo tribolato patire”. (Vilardo, retro copertina)

            Il tono di La via dell’Oceano della Riccobene è molto più pacato rispetto a quello di Germania Germania, in cui il lettore che ha avuto esperienza diretta o indiretta rivive in modo forse troppo realistico la propria esperienza, tanto da fargli “azziddari li carni”7. L’esperienza dell’emigrazione viene presentata dalla Riccobene non tanto come storia del singolo individuo, quanto come storia di un popolo intero, con toni meno realistici e più lirici.  Su questa differenza ha senz’altro un peso il fatto che circa venti anni separano la pubblicazione dei due volumi e che quindi anche le condizioni dell’emigrato sono diverse, come si può constatare dalla poesia “Unni iè ghiè” (“Ovunque”), poesia inedita che riassume La via dell’Oceano:

 

S'assummanu l'anni

e ni 'sta ammunziddrata – qualchi vota –

capita di iri

– pi fami attrassata –

unni iè ghiè.

È 'stu "unni iè ghiè"

c'affuddra dumanni

e fa sudari sangu all'omu

assicutatu di 'na viria.

'Na viria muta.

e d'iddra tutti sannu li siesti di li sfirzati.

 

Tu terra mia

si Risposta

a li lamienti

ittati all'ummira d'un suli malatu

- quannu li manciaterra si rusicanu li ita -

e l'affannu di cu iè luntanu

è chiaja,

chiaja appistata

sempri aperta.

 

E li malanni?

Su lesti a scattiari:

stessa prescia di li sciuri

quannu scattanu 'ntra 'na rama di mennulu

a frivaru.

Iddri restanu sempri comu un bocali di Vrità:

'na Vrità di viviri tutta.

 

Unni iè ghiè.

Unni iè ghiè è lu lamentu

di la genti di 'sta Terra.

È 'na parola c'abballa

'n capu turrena bizzola bizzola

e tocca lu cori

ccu manu garbata e pacinziusa

comu fa lu ventu di giugnu

quannu annaca

spichi arrusciati di suli

e suddra di metiri ancora.

Accussi' camina

la genti di 'sta terra mia: va

unni iè ghiè.

 

E 'stu “unni iè ghiè”

accucchi a 'ntra la falla

suspira e sciati di fuddri di genti

e cannarozza sicchi di umitiari

siddru s'arriva

a 'na brivatura di bona vintura.

'Na brivatura c'astuta vampa di siti

fina di cori di orbi

(pirchi' anchi li orbi sannu vidiri ccu cori).

 

Si 'gnuttica la menti 'sta genti

comu si 'gnuttica ancora ddr'erba

ca iju picciliddra vitti a Buscazzieri.8

Tutt'a 'na vota si dici...AMMEN.

 

Ch'è bellu 'stu AMMEN!

È malincunia di buscagli,

è l'usura di peddri di tempu,

passa 'n capu la Storia,

briusu ni babbia e ni lusinga,

nun havi nè strati latini

nè cumpanaggiu ppi putiri mangiari.

 

È siti mai sazia

ammutta a pacinziari

e li spaddri di la terra

nun s'arrunchianu mai a 'sta calata di cuozzu

ca risposta nun iè.

 

È liama misa a moddru d'acqua di sciumi.

È spata, fanci e lama ammulata.

Ti signa ni la lotta

e li to' feriti

abbunnanu misericordia.

 

È comu l'AMMEN di 'n'Avimmaria.

È Avimmaria misa ni li manu

ca scappa

e poi torna

grida e poi s'ammutisci.

 

E sempri ti signa

ccu 'na cruci la frunti.

 

Unni iè ghiè

è la noscia sorti

passa mari e taglia aria

lassa caudu  e trova gelu

pi fieudi di stenti e sudura

pi spranza mai lassata di maniu.

 

Si parti e si torna

ccu trusci d'abbrazzi e di purmisi

ma qualchi vota si resta pi sempri.

 

Unni iè ghiè s'addubba

'sta genti mia sbrazzata e facinnuna

ca di luntanu lu tempu 'nganna

scrivennu

"Vuantri drocu comu siti?

Nuantri ccà stammu tutti boni".

 

[S'assommano gli anni/ e in quest'ammucchiata – qualche volta – / capita di andare / – per fame atavica – / ovunque. / È questo "ovunque"/ che affolla quesiti / e fa sudare sangue all'uomo/ rincorso da una verga. / Una verga muta/ ma di cui tutti conoscono le cicatrici delle sferzate. // Tu terra mia / sei Risposta / ai lamenti / lasciati all'ombra d'un sole malato / – quando i terroni mordono le dita – / e l'affanno di chi sta lontano / è piaga / piaga appestata e sempre aperta. // E i malanni? / Fanno presto a giungere: / stessa fretta dei fiori / quando scoppiano su un ramo di mandorlo / a febbraio. / I malanni restano sempre boccale di Verità: / una Verità tutta da bere. // Ovunque. / Ovunque è il lamento / della gente di questa Terra. / È una parola che danza / su terreni scoscesi / e tocca il cuore / con mano garbata e paziente / come fa il vento di giugno / quando dondola / spighe bruciate dal sole / e sulla ancora da mietere. / Così cammina / la gente di questa mia terra: va / ovunque. // E questo "ovunque" / accumula nei lembi d'una veste / sospiri e fiati di folle di gente / e gole arse da inumidire / se si giunge ad un abbeveratoio di fortuna. / Un abbeveratoio che spegne fuochi d'arsura / anche dei cuori dei ciechi / (perchè i ciechi sanno vedere col cuore). // E piega la propria mente questa gente / come si piega ancora quell'erba / che io bambina vidi a Buscazzieri. // Poi ad un tratto si dice 'AMEN'. // È dolce quest'AMEN! / È malinconia di boscaglie, / è usura della pelle del tempo, / attraversa la Storia, / brioso ci raggira e ci lusinga, / non ha strade diritte / né companatico da consumare. // È sete mai sazia / spinge alla pazienza / e le spalle della Terra/ non si curvano mai a questo abbassare il mento / che nulla vuole affermare. // È gomena intrisa d'acqua di fiume. / È spada, falce e lama tagliente. / Ti segna nella lotta / e le tue ferite / abbondano misericordia. // È come l'AMEN di un'Avemaria. / È Ave posta tra le mani / che scappa / e poi torna / grida e poi ammutolisce. // E sempre ti segna / la fronte con una croce. // Ovunque / è la nostra sorte / che passa oceani e fende l'aria / lascia calura e trova geli / per feudi di sudori e stento / per speranza mai abbandonata di benessere. // Si parte e si torna / con fagotti d'abbracci e promesse / ma qualche volta si resta per sempre.// Ovunque s'adatta questa gente affaccendata e laboriosa / che da lontano inganna il tempo / scrivendo / "Voi lì come state?/ Noi qui stiamo tutti bene".]

 

Un’altra differenza sostanziale consiste nel fatto che il Vilardo è soltanto mediatore, ricreatore di questo microcosmo dell’emigrazione, mentre la Riccobene diventa parte integrante di questo fenomeno, che ha vissuto in prima persona, se non proprio come emigrante (anche se ha vissuto un anno nella Germania descritta dal Vilardo) almeno psicologicamente, come protagonista depositaria della memoria della sua gente.  In poche parole, l’operazione di raccolta delle testimonianze da parte del Vilardo è artefatta, letterariamente ricreata,9 mentre quella della Riccobene è vissuta, come lei stessa denuncia in “Chiedo la parola”.

 

Giullare di vampe

rabbie & rossori

io,

bambina

coglievo

soltanto colori a vista

imparentati col fuoco.

Né pianto, né parole, né rancori

(i bimbi devono ignorare)

ma racconti e missive esauste di viaggi

si addensavano a futura memoria

sul banco dei poeti

insieme a immagini d’uccelli del paradiso

insieme a cespugli di licheni accigliati.

Gli aratri di gelo

già seminavano la pagina di terra

che la bambina

traduceva in poesia del domani.

(Riccobene, Vie dell’Oceano 40)

 

La diversa tonalità della denuncia è evidente anche nella commedia Nun mi maritu ppi procura.  La denuncia è sì fatta in toni meno forti e meno realistici -- in modo più consono alle commedie -- ma risulta altrettanto efficace, come è evidente dall’ultima battuta del protagonista Charlie, il quale, esprimendosi in un siciliano con verbi all’infinito,10 denuncia il fenomeno del matrimonio per procura:

 

Sà?  ma pà mi dicìri a mia: “Calò, va tu a lu paisi cchi ddra tu ci truvari tanti donni prizziusi, chiddri cchi sapiri dari a tia lu cori veru e cchi si spartìri ccu tia assà muddrichi. I ti purtari ccu mia a Canada iè ti faciri ricca, ricca di assà dollari ie assà beni...ie pirchì ... (Rivolgendosi al pubblico Charlie si esprime ora in chiave poetica) PIRCHÌ... ...nun putiemmu delùdiri ‘stu pubblicu onoratu ca oramà s’aspetta ‘na storia a lietu fini. Ma ... a la Dielia, su cosi viecchi e risaputi ca, nun tutti sti storij finivano accussì. È fattu canusciutu e a tutti notu ca belli donni a Torontu...misca si ci n’hannu jutu. Chiddru ca Charlie Mangiapani oj purminti a Maria, nun sempri sti donni ci lu ivanu a truvari. Partivanu, ccu na procura ‘manu. Lu matrimoniu? Iera già firmatu. Arrivi ddra e ti pigli a ccu ci truovi... e lu travagliu... havìa sei misi ch’era prenotatu.  Partivanu ‘sti donni, ccu la spranza ni lu cori di truvari la furtuna e la vintura. Dicivanu lassannu lu paisi: “Chi n’hammu a fari di sta Dielia ladia, brutta e fitusa”? Ma ... ccu tanti biddrizzi canadisi cchi giustu giustu ‘sta Dielia a iddri ci ha mancatu? “Ie terra di travagliu” ci sienti diri quannu ogni tantu quarcuna s’arricampa. “Lu Cannada ti ni duna suddisfazioni”! E ch’hannu a diri, siddru ormà ddra ci hannu crisciutu li propria figli? Ma siddru ci putissitu grapiri lu cori, ‘na cosa sula tu ci pùa truvari: la beddra Dielia, ca nuddru si la pò scurdari.

 

 [“Sa'? Mio padre mi ha detto a me: "Calò, va' a lu paisi che tu ci trovi tanti fimmini priziusi, che ti sanno dare lu cori veru e ca spartinu cu tia puri le molliche di lu pani. Io ti porto con me a lu Cannatà e ti faccio ricca, ricca di assai dollari e di molti beni... perché... perché...  (rivolgendosi al pubblico Charlie si esprime ora in chiave poetica) PERCHÉ... non possiamo deludere questo pubblico onorato che ormai s'aspetta un lieto fine. Ma... a Delia, sono cose vecchie e risapute che non tutte queste storie finivano così. È fatto risaputo e a tutti noto che belle donne a Toronto... chi sa quante ce ne sono andate. Quello che oggi Charlie Mangiapane promette a Maria, non sempre queste donne andavano a trovare. Partivano, con una procura in mano. Il matrimonio? Era già firmato. Arrivi là e ti pigli chi ci trovi... e il lavoro... era sei mesi ch'era prenotato. Partivano queste donne con la speranza di trovare fortuna e l'avventura. Dicevano, lasciando il paese, "Che ce ne dobbiamo fare di stu nostru paisi bruttu, ladiu e fitusu?"  Ma... con tante bellezze canadesi, è proprio lu paisi che viene a mancare. "Il Canadà è terra di lavoro" si sente dire quando ogni tanto qualcuno torna a lu paisi. "Ma ce ne dà di soddisfazioni". E che altro potrebbero dire, se ormai là ci hanno cresciuto i propri figli? Ma se si potessero aprire il cuore, una cosa sola ci troveremmo: ddu paisi bruttu, ladiu e fitusu che nessuno se lo può mai scordare”. Per i tutti i brani citati di Nun mi maritu ppi procura si riproporrà in nota la versione adottata dalle Maschere Duemondi per la messinscena del 1996 (vedi nota 13). Si noti che nelle messinscene nordamericane di cui ho curato la regia, parte della battuta di Charlie (a partire ad “PERCHÉ... non possiamo deludere questo pubblico...”) è stata assegnata alla “VOCE”, a significare ovviamente un commento extratemporaneo dell’autrice.]

 

            Sembra che in un tono pacato e meno disperato la Riccobene voglia fare il verso al Vilardo; questa ultima battuta infatti -- ad una più attenta analisi -- è in versi, che mantengono, come quelli del Vilardo, i toni e gli accenti del parlato.  Sembra proprio una delle testimonianze del Vilardo, dal titolo “Tutti dicono Cannatà Cannatà”.

            Concludiamo l’analisi del tema dell’emigrazione nella Riccobene, per passare all’analisi della sua produzione teatrale e del ruolo del dialetto nelle sue commedie.

            Le commedie vernacolari della Riccobene -- tanto apprezzate dal compianto Ignazio Buttitta11 -- hanno riscosso e continuano a riscuotere ampio successo in Sicilia e sono state rappresentate in quasi tutte le province dell’isola. Si sono avute rappresentazioni anche a Bari e Taranto di Matrimonio per procura e Roba di casa noscia, opera quest’ultima che ha ottenuto a Roma il premio letterario F. Dostojeski.  L’opera teatrale di più successo in Nordamerica è senza dubbio Nun mi maritu ppi procura, rappresentata, con titoli leggermente modificati, sia in dialetto che in lingua una dozzina di volte tra il 1996 e il 2005, a Toronto, Mississauga, Woodbridge, St. Catharines, Sudbury, Middlebury (Vermont). Altre opere della Riccobene rappresentate in Canada sono Li divoti di la hiacca e Arri e... catarri.12

            I motivi che spingono la Riccobene a scrivere in dialetto, a scegliere per le sue commedie dei temi antropologici ben precisi possono essere riassunti in una semplice frase: amore per la sua terra e per il suo dialetto, un amore sicuramente influenzato da Ignazio Buttitta a cui la Riccobene era legata da grande stima e profonda amicizia; lo stesso amore che il poeta palermitano esprime nella più e famosa delle sue poesie:

 

Un populu

mittitilu a catina

spugghiatilu

attuppatici a vucca,

è ancora libiru.

 

Livatici u travagghiu

u passaportu

a tavula unni mancia

u lettu unni dormi,

è ancora riccu.

 

Un populu,

diventa poviru e servu,

quannu ci arrobbanu a lingua

addutata di patri:

è persu pi sempri.

 

Diventa poviru e servu,

quannu i paroli non figghianu paroli

e si mancianu tra d’iddi. (54)

 

[Un popolo / mettetelo a catena / spogliatelo / tappategli la bocca, è ancora libero.  // Toglietegli il lavoro / il passaporto / la tavola dove mangia / il letto dove dorme, è ancora libero.  // Un popolo, diventa povero e servo, / quando gli rubano la lingua / avuta in dote dai padri: / è perso per sempre.  // Diventa povero e servo, quando le parole non figliano parole / e si mangiano tra di loro.](54)

 

Per la Riccobene, è vitale mantenere vivi i rapporti con la terra natia, con la propria regione attraverso l’uso del dialetto, attraverso l’uso della parlata locale, ricca di quegli idiomi locali, di quei termini che purtroppo vanno scomparendo. Una parlata locale ricca di proverbi, di aforismi, di vecchi detti che rendono appunto le parlate regionali colorite e fortemente condensate e condensanti emozioni.

            “Le mie commedie -- osserva la scrittrice deliana nel 1996 in occasione della messinscena di Nun mi maritu ppi procura -- scaturiscono dall’esigenza di scagionare il pericolo che tutto di Delia vada perduto; questo non può e non deve succedere. E nel tentare di fare sorridere la gente già provata dalle fatiche, dallo stress quotidiano, dalle amarezze, dai dispiaceri, dai dolori, io provo soprattutto a recuperare al nostro patrimonio linguistico tutto ciò che tende a scomparire, compresa la conoscenza per i giovani deliani di quelle fette o scorci di realtà sociali che per fortuna negli anni hanno teso al miglioramento attraverso una forma più esperita di cultura, di emancipazione e di elasticità mentale. E riporto pertanto sulla scena situazioni che si verificavano 30 o 40 anni fa quando la fame e gli stenti e il sogno di raggiungere ‘sponde altre’ portavano a discutere della roba, ‘di li capituli’13 o faceva approdare ai matrimoni per procura o alla classica “fuitina”.  E parlo anche della devozione del popolo deliano. Parlo nelle commedie delle tradizioni popolari; tutto questo però per recuperare, appunto, per informare i giovani, che per loro fortuna non hanno vissuto queste realtà e che però è giusto che conoscano, perché queste cose hanno fatto e restano la cultura della propria regione, della propria terra. Per questo io faccio e scrivo teatro.”

            In Nun mi maritu ppi procura, accanto al dialetto la Riccobene aggiunge la koiné parlata dagli italo-canadesi di Toronto, l’italiese, al cui fenomeno si sono interessati diversi linguisti. (si vedano i due articoli di Clivio; Danesi; Iuele-Colilli; Pietropaolo)  Il termine Italiese  -- spiega il linguista Gianrenzo Clivio  -- designa il particolare tipo di italiano, venato di influssi inglesi più o meno acclimatati, che costituiscono il normale codice linguistico della quasi totalità di parlanti degli italo-canadesi dell’Ontario. (Clivio, “Su alcune caratteristiche dell’italiese di Toronto,” 483-484)

            L’opera della Riccobene riesce a cogliere l’anima di questo linguaggio, come pure l’anima dell’italo-canadese, anche se prima della composizione della commedia la scrittrice non era mai stata fisicamente  a Toronto, ma spiritualmente sì in quanto aveva psicologicamente vissuto, come raccoglitrice di memorie, l’esperienza e il trauma dell’emigrazione (il riferimento è alla poesia “Chiedo la parola”, precedentemente citata).  In termini lapalissiani, la Riccobene faceva da scrivana e lettrice per i suoi parenti delle missive che pervenivano dal Canada; ogni volta che in una di queste lettere veniva usato un termine italiese, la poetessa, allora bambina, quasi leggendo nel suo futuro, ne prendeva nota nei suoi diari e nelle sue agendine e con esso scriveva anche la traduzione in italiano, a cui arrivava per intuito o dopo chiarifiche con il mittente. Si veda, per esempio, il seguente documento scritto a mano dall’autrice nelle pagine iniziali di una agendina del 1982:14

 

            Questa operazione linguistica in Nun mi maritu ppi procura della scrittrice deliana diventa un documento storico per gli studiosi della società italo-canadese: mai infatti, a quanto mi risulti, un drammaturgo italiano aveva messo in scena, in una delle sue opere, l’ambiente e la lingua dell’italo-canadese. Esempi illustri di presenza dell’italiese si registrano in poesia  -- si veda il modo di esprimersi dei “reduci di Mèrica” nella poesia “Italy” di Giovanni Pascoli (171-183); nel campo teatrale -- ci informa il linguista americano Hermann W. Haller -- vi era anche stato un piccolo tentativo nelle cosidette “macchiette coloniali” (varianti newyorkesi della macchietta napoletana), presentate da comici come Edoardo Migliacci, chiamato Farfariello”. (30, in nota; si veda anche Taviano).  I linguisti italiani, afferma Haller, “hanno trascurato per decenni le forme dell’italiano nell’emigrazione, preferendo lasciarle come materiale per macchiette e caricature (retro-copertina)”.15            Queste forme dell’italiano dell’emigrazione sono evidenti sin dalle battute iniziali di Nun mi maritu ppi procura che fissano subito sia il tono e che l’atmosfera più consoni alla commedia:

 

Charlie   Mà, mi lu ppriparà vossia lu longiu ‘ppi dumani matinu?

Tresa      Ja, intra la frigi iè misu.

Charlie   La beka,... dumani matinu l’havi a chiuìri bona, cchi n’atra matina li cuchìs si straviaru tutti ‘capu lu bussu, ie lu bigliettaru mi li faciri cuglìri ccu ma lingua.

Tresa      Gna dopu cu li canatisi!... E a tia cchi fa, ti ammuddravanu li manu a firmari la beka? Nun lu vidi ca vaju arrimbambiennu? ‘Nguaggiati Calò, ca la muglieri ià di bisuognu, almenu ‘na picciutteddra frisca frisca ti po’ serbiri meglia di mia.

Charlie   Accumincià uora? I ci dicìri cchi nun pigliu mugliera, i nun sugnu scemu cuomu a ma frati Semy cchi si maritari ie cchi cummattìri ccu mugliera di curtu senziu.

Tresa      O beddramatri, e cchi su tutti a li stessi li fimmini? Ci sunnu cuvati ca arriniescinu e n’antri ca nun arriniescinu. Annacati druocu e deciditi ca ora nun ci si cchiù picciliddru.

Charlie   Nain, nun maritu, nun fazzu fini cchi facìri ma frà, i nu sugnu collu cuomu a iddru. ...Quannu i dicìri “ja” di pigliari mugliera, i mi pigliari a una gherla di Cannatà, almenu l’Americani su tedeschi precisi. (Interviene il padre ‘Ntoniu)

‘Ntoniu   Ja, francisi su.... Calò, tu ha diri ca la muglieri a ta frà nun ci potti arrinesciri, ezzò,...! Ma tu cchi vùa mintiri ‘na picciotta diliana ccu una cannatisa? Vidi ca ci su picciotti a la Dielia, ca unu arresta spantu, tutti massari e giudiziusi... e senza nasca tisa, ah!

Charlie   Ja, iè ccu gammi accussì iè ccu “chissu darrieri” vasciu fina ‘nterra, cuomu a ma cugnata.

Tresa      Calò...., cosi ‘ntra un pugnu su! Quannu unu si marita ccu la procura, cuomu la trova si la piglia la muglieri. A ‘ranni ca Semy la truvà di lu paisi.

 

[CHARLIE: Mà, me l'avete preparato lu lungiu per domani mattina? TERESA: Ja, è ni la frigi. CHARLIE: La beka... domani mattina la dovete chiudere bene, perché l'altra mattina li cookies mi sono tutti caduti ni lu bussu e lu bigliettaru me li ha fatti cogliere tutti, pure le molliche.TERESA: Sti canadesi sono sempre esagerati!... Ma a tia, che ti siccavano le mani a chiudere la beka?  Non lo vedi che sto diventando vecchia?  Maritati, Calò, che di na muglieri hai bisogno, almenu na picciotta frisca frisca ti pò serviri megliu di mia.  CHARLIE: E ora ricomincia?  Ci ho già detto che non voglio mugleri.  Io non sono scemo come mio fratello Semy che si è sposato e che gli tocca avere a che fare cu na muglieri di cervello corto. TERESA: O beddramatri, e che sono tutte le stesse li fimmini?  Ci sono covate che riescono e altre che non riescono.  Sbrigati piuttosto e deciditi perché non sei cchiù picciliddru.  CHARLIE: No, non mi marito.  Non voglio fare la fine di mio fratello; io non sono scemo come lui.  Quando io dico "ja, voglio prendere muglieri", io mi prenderò na gherla di lu Cannatà. 'NTONIU: Calò, tu devi dire che la muglieri a tuo fratello non è riuscita bona, ezzò...!  Ma tu che vuoi mettere una gherla canatisa con una picciotta deliana?  Ricordati... che ci sono picciotte a la Dielia, che uno rimane a bocca aperta, tutte massare e giudiziose... e senza la nasca tisa!  CHARLIE: Ja, cu li gammi acccussì e cu lu darrieri ch'arriva fin'a 'nterra, come a mia cognata. TERESA: Calò... quando uno si marita per procura, come la trova se la piglia la muglieri.  Quello che conta è che Semy l'ha trovata di lu paisi la muglieri”]

 

A convincere Charlie a sposare una deliana, ci pensa indirettamente la cognata Cuncetta, la quale durante una lite gli dice in faccia:

 

Cuncetta      Già ca cu t’havi a carricari? Ccu ‘ssi carattiri fitusi ca ià, mancu la cchiù tinta cannatisa s’assuggittassi a pigliarisi a tia, pensa pensa ‘na diliana, ezzò! Pigliati chissa! 

 

[Ma a tia, cu ti voli cu stu carattiri fitusu ca ha, neanche la più brutta cannatisi accetterebbe di pigliarisi a tia, pensa pensa se lo fa na diliana.  Pigliati chista!]

 

Per dispetto, Charlie telefona a La Dielia e chiede alla zio Nofriu di iniziare le trattative per il matrimonio per procura con Maria, figlia di Bilasi “lu Cruzzutu” (Biagio ‘Testa dura’).

            Dopo la telefonata, prima di partire, Concetta spiega a Charlie -- con un pizzico di spirito di vendetta, ma attingendo dalla propria esperienza matrimoniale-- che il matrimonio per procura è una prassi che dovrebbe essere abbandonata:

 

Calò, lu matrimuoniu ppi procura iè ‘na cosa ca nun s’avissi a fari: iè cuomu quannu unu joca a circari a n’antru ccu l’uocchi attuppati e di pùa va sbatti a ‘na cantunera o a un travu e si rumpi la testa. Quannu dù s’hannu a maritari, prima s’avissiru a canusciri e s’avissiru a pigliari ccu tuttu lu cori, mannò ci po’ finiri cuomu finì a ta frà, ca si piglià a mia e cu la procura e nun ci piacivu. Però c’è un fattu,: j ccu to frà ci staju, lu sierbu cuomu miegliu puozzu, vaju a travagliu, ci puortu intra la giobba e ci crisciu li figli... e CORNA NUN CI NI FAZZU! Ora j ti dicu ‘na cosa: po’ anchi essiri ca a tia la muglieri t’arrinesci veru naisa e beddra, ma po’ iessiri anchi ca nun ci pùa piaciri tu a iddra, pirchì l’uocchi vidica l’aviemmu tutti ‘ppi taliari,... e mi scantu ca qualchi paru di corna ‘nchiafardati ‘ntesta ti putissiru pisari cchiossà di quantu ti pisanu ssi sacchetti chini di dollari cu ccu ti pùa accattari socchi vùa. Ezzò! Pigliati chissa!... Mi ni ivu ca si fici notti e lu strittu e carru mi parti. Bay papà, sabenedica.

 

[Calò, il matrimonio per procura è una cosa che non si dovrebbe fare:  è come quando uno gioca a cercare un altro con gli occhi bendati e poi va a sbattere contro un palo e si rompe la testa.  Quando due si devono maritare, prima si dovrebbero conoscere e si dovrebbero sposare con tutto il cuore, sennò può finire come è finito a tuo fratello che si è preso a me per procura e non gli sono piaciuta. Però c'è un fatto, c'è un fatto:  io con tuo fratello ci sto, lo servo anche se non se lo merita, vado a lavorare, porto a casa i la cecca e cresco i figli... e li corna nun ci li fazzu!  Ora io ti dico una cosa: può darsi che a te capiti na muglieri veramente naisa e beddra, ma può anche essere che non ci puoi piacere tu a lei, perché, bada, gli occhi li abbiamo tutti per guardare... Ricordati però che qualche paio di corna appiccicate 'ntesta ti potrebbero pesare più di quanto ti pesano le tasche pieni di dollari con cui puoi comprare quello che vuoi. Ezzò! Pigliati questa!...  Me ne vado ché si è fatto notte e lu street e carro tra poco passa.  Bay, papà, sabbenedica.]

 

            Per questo motivo Charlie si lascia convincere a prendere moglie deliana; tuttavia non per procura ma recandosi in Sicilia di persona.

            Nel secondo atto, la scena si sposta a Delia, in casa della famiglia di Maria, la giovane di cui Charlie vuole la mano.  L'idea del matrimonio è ben accetta dal capofamiglia, Bilasi lu Cruzzutu, ma è fortemente avversata dalla moglie Vita, che non vuole privarsi, mandandola in Canada, della figlia, unica consolazione di una vita abbastanza dura a causa di un marito “cruzzutu” e di una una suocera piagnucolona e incontentabile.  Le trattative tra Charlie, lo zio Nofriu e la famiglia della sposa sembrano andare a monte per l’irremovibile posizione di Vita e per le molte incomprensioni a causa della diversità delle lingue.  Vita cede -- ma non subito -- solo quando Charlie le promette di fare l’atto di richiamo in Canada a tutta la famiglia:

 

Maria     Lu ‘ntisi mà, ni putiemmu iri tutti a lu Cannatà, tutti mamma ‘rà, tutti (Euforica)

Charlie   (Corregge Maria) No! Mamma ‘ranni nu putìri vinìri a Cannadà ie pirchì iessiri vecchia. Lu Cunsulatu nu faciri passari abili a visita, no, no, nu putiri viniri a Cannadà, iè vecchia.

Vita        (Chiede stupefatta) Aspittati un minutu ca nun capivu bona: vuliti diri ca ma sogira nun ci putissi viniri a lu Cannatà e nuantri ammeci sì?

Charlie   Sciù, certu, iddra nu putiri viniri, no, no!

Vita        E nun lu putivavu diri prima, cchi ci vuliva l’ordini di lu tribunali?

 

[MARIA: Lo hai sentito mà, ce ne possiamo andare tutti a lu Cannatà, tutti nonna, tutti. (euforica) CHARLIE: (corregge Maria) No! mamma 'ranni, voi non potete venire a lu Cannatà perché siete vecchia. Il Consolato non la fa abile alla visita, non può venire a lu Cannatà, è troppo vecchia. VITA: (stupefatta) Aspettate un minuto che non ho capito bene: volete dire che mia suocera non ci potrebbe venire a lu Cannatà e noi invece sì? CHARLIE: Sure, certo, lei non ci potrebbe venire, no, no! VITA: E non lo potevate dire prima, che e ci voleva l'ordine del re per dirlo?]

 

La commedia si conclude con la denuncia -- precedentemente letta -- della prassi del matrimonio per procura, una prassi assai diffusa tra gli italo-canadesi durante gli anni che vanno dall’immediato dopoguerra alla fine degli anni 60.  Numerose sono state le testimonianze a questo riguardo da parte del nostro pubblico, dopo la messinscena della commedia riccobeniana.  E qui le storie dei ritratti scambiati -- vedi il film Bello, onesto, emigrato Australia, sposerebbe compaesana illibata (1971) con Alberto Sordi e Claudia Cardinale per la regia di Luigi Zampa -- diventano non storie fittizie, ma storie reali, con spose che, dopo aver festeggiato il matrimonio per procura in Italia, non partono più per il Canada perché non più volute, storie di matrimoni annullati o falliti, storie vere e tristi.16

            Alla Riccobene va il merito di aver portato alla luce e denunciato questo fenomeno, una denuncia che -- a mia conoscenza -- neanche gli studiosi dell’emigrazione italo-canadese hanno mai fatto o di cui hanno scritto poco se non addirittura nulla.

            In conclusione, nel presentare quegli aspetti e tematiche della produzione riccobeniana che hanno in qualche modo un legame con la realtà italo-canadese mi sembra di aver apportato prove sufficienti per poter affermare che alla Riccobene spetta un posto di riguardo nell’ambiente culturale italo-canadese.  Grazie ai suoi lavori poetici e drammatici, la poetessa di Delia ha acquisito, a tutti gli effetti, la cittadinanza italo-canadese, divendando parte viva della sua gente ora annidata nell’altrove di Woodbridge e Toronto.

 

 

Note

 

1. Per ulteriori informazioni sull’attività teatrale delle Maschere Duemondi, si veda: Bancheri, “Il workshop teatrale a Middlebury College;” Bancheri, “The Theatrical Workshop Within the Italian Curriculum;” Bancheri e Pugliese; www.utm.utoronto.ca/~w3ita/theatre.html.

2.  Sull’argomento, oltre agli articoli citati nella nota precedente, si veda: il fascicolo 81.4 (2004) di Italica, esclusivamente dedicato all’attività teatrale nei corsi di lingua, e i seguenti studi: gli articoli nei volumi collettanei di Swarbrick e di Bräuer; Cairns; Carter e McRae; Courtney; Devitt; i due articoli di Essif; Haggstrom; Hegman Shier; Heath; Livingstone; Maley e Duff; Mather, McRae; Savoia, Schofer; Semke, Stern; Stevick; Wessels; Whiteson.

3. Si veda, per esempio, Verso fine millennio. La poesia in antologia), a cura di Giovanni Amodio. Pulsano (TA): Lisi Editore, 1996; e Pietrarossa e zolfo giallo. Poeti nisseni di ieri e di oggi. Caltanissetta: Edizioni Lussografica, 1994.

4. Per ulteriori informazioni, si veda Bancheri “Lina Riccobene, scrittrice e critico letterario.” Valle del Salso, June 2000, 49-51.

5. Usiamo la grafia del retro-copertina del libro di Vilardo, che sarà oggetto di discussione in seguito. L’ortografia corretta delle città è Darmstadt, Mannheim e Saarbrücken.

6. Per informazioni su Stefano Vilardo e la sua opera, si veda la tesi di laurea di Giuseppina Stefania Mandalà, che include anche una breve bibliografia

7. L’espressione siciliana “azziddari li carni” o “arrizzari li carni” è molto forte ed equivale a “far accapponare la pelle”, “far venire la pelle d’oca”, “far venire i brividi”.

8. Si tratta di una contrada di Delia.

9. Leonardo Sciascia, nell’introduzione al volume, afferma: “[Vilardo] ad un certo punto si è dato a raccogliere queste storie. […] E non è stata un’operazione facile. Per quanto leggendole, non sembri, la mediazione del poeta c’è stata. La ricreazione, appunto. E che non sembri, è il maggior merito di questo libretto”. (7)

10. Ecco come giustifica la Riccobene questo modo di parlare di Charlie in una delle nostre corrispondenze: “Il personaggio Charlie parla all’infinito perchè è stata una mia scelta motivata dal fatto che io ricordo [...] che qualche [...] compaesano figlio di emigrati e nato in Canada, durante la sua venuta a Delia, si esprimeva così. E tutt’ora: con la venuta di una mia cugina proprio l’estate appena scorsa mi sono resa conto di un uso molto appropriato del verbo all’infinito per la difficoltà di coniugazione, proprio perché i figli dei nostri emigrati nati e cresciuti lì, fortemente vincolati alla parlata o inglese o dialettale , conoscono poco o male l’uso del modo e del tempo di un verbo e ricorrono facilmente all’uso dell’infinito. Esempio: mia cugina quest’estate in pizzeria ha conosciuto una mia amica molto pallida, magrissima ed emaciata in viso. Ecco la sua espressione che riporto fedelmente:Misca! chissa facìri fietu di murìri!’ anzicchè  ‘Chissa fa fietu di morti!’. [‘Questa puza di morte!’]” A tal proposito, però, la Riccobene ha riveduto la sua posizione e ha permesso, nell’ambito delle rappresentazioni nord-americane, di uniformare la parlata di Charlie a quella degli altri personaggi.

11. Sui rapporti tra Buttitta e la Riccobene, così mi scrive l’Autrice deliana: “Non c’è una fonte scritta che faccia riferimento alle espressioni di apprezzamento di Ignazio Buttitta alla mia poesia. Ciò è avvenuto a Bagheria intorno al 1990/91 durante un incontro culturale insieme allo scrittore e scultore, nonché pittore bagheriota Carlo Puleo che fu indefesso e instancabile accompagnatore di Buttitta fino alla sua morte. In quella circostanza ricevetti in dono una sua immagine disegnata a matita e con su scritta una sua frase che ti riporto: ”I casi senza libbri sunu staddri: i puorci e i scecchi nun ligginu”. [“Le case senza libri sono stalle: i porci e gli asini non leggono]. Questa è incorniciata e appesa alla parete del mio studio”.

12. Questo è l’elenco completo delle opere della Riccobene rappresentate in Nord America: 1) Li divoti di la hiacca: Maschere Petiliane, UTM, 26 ottobre 1997 (2 spettacoli); produzione del Delia Social Cultural Centre; regia S. Bancheri. 2) Arri e... catarri: Maschere Petiliane, UTM, 2-3 ottobre 1999; produzione del Delia Social Cultural Centre; regia S. Bancheri. 3) Nun mi maritu ppi procura. Questi gli spettacoli prodotti dalle Maschere Duemondi, per la regia S. Bancheri e G. Pugliese:  Forest Hill Collegiate Institute, North York, 27 febbraio 1996; Sidernese Cultural Centre, Woodbridge, 2 marzo 1996; Brock University, St. Catharines, 3 marzo 1996; UTM, 9-10 e 15-17 marzo 1996. Inoltre: Sidernese Cultural Centre, Woodbridge, 31 marzo 1997; Maschere Middleburiane, Middlebury College, Middlebury (VT), 6 agosto, 2000, regia S. Bancheri; Maschere Petiliane, St. Joan of Arc CHS, Maple, 21 settembre, 2003 (2 spettacoli), produzione del Delia Social Cultural Centre, regia S. Bancheri; Maschere Laurenziane, Laurentian University, Sudbury, 6-7 febbraio 2004.

13. La Riccobene stessa mi chiarisce il significato della parola:  “Sul termine ‘li capituli’, ti passo la definizione precisa espressami stamane da un notaio di vecchio stampo amico di famiglia e che non si discosta affatto da quanto ho voluto significare nella mia commedia “Roba di casa noscia”: trattasi di ‘contratto di donazione pre-matrimoniale di beni dotali’”.

14. Quasi tutte le parole dell’elenco nell’immagine sono state poi usate in Nun mi maritu ppi procura.  La corrispondenza tra le parole inglesi e la versione italiana è eccellente (anche per quanto riguarda la grafia), eccezion fatta per una imperfezione di traduzione (dovuta sicuramente all’informante) per la parola inglese “salesman”, tradotta con “cercatore di lavoro”.  Interessante notare che la parola “sciau” (shower) tradotta con “festa a sorpresa” è usata nella commedia con il più generico significato di “doccia”.

15. Termini italo-tedeschi si trovano anche nell’opera del Vilardo, ma il linguaggio degli emigrati di Tutti dicono Germania Germania è alquanto artefatto sia nella sua sicilianità che nella koiné italo-tedesca.

16. Nonostante una apparente contraddizione, queste storie potrebbero essere, per un esperto commediografo, soggetto non ti una, ma di diverse commedie.

 

 

OPERE CITATE

 

Bancheri, Salvatore. “Il workshop teatrale a Middlebury College.” In La Scuola italiana di Middlebury (1995-2005). Passione - Didattica - Pratica, a cura di Antonio Vitti. Pesaro: Metauro, 2005. 45-86.

_____. “Lina Riccobene, scrittrice e critico letterario.” Valle del Salso, Giugno 2000, 49-51.

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1 marzo 2006

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* Questo articolo è stato pubblicato in Italian Canadiana n.17, e qui riprodotto per gentile concessione.

** Salvatore Bancheri è Associate Professor alla University of Toronto. Dal 2005 egli è Direttore del Iacobucci Centre dell’Università di Toronto, ed Editore di Italian Canadiana. Ha insegnato alla McMaster University, University of Ottawa e all’Italian School  of Middlebury College (Vermont). Le sue ricerche sono state principalmente nell’area della critica testuale, teatro religioso, letteratura del diciottesimo secolo, letteratura siciliana, insegnamento e apprendimento di una lingua seconda, teoria e messinscena teatrale, sviluppo di programmi CALL, ricerca assistita da computer.  Pubblica regolarmente in riviste scientifiche ed ha contribuito con articoli di filologia testuale, teatro, teatro religioso, Boccaccio, studi italo-canadesi, apprendimento, insegnamento e tecnodidattica di una lingua seconda.


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