Rassegna di Altreitalie 2004-2005

Egidio Marchese

emarchese@primus.ca 

 

Nel 2004 Altreitalie - www.altreitalie.it - tratta il concetto di italianità sotto due prospettive opposte, tutt’e due fondamentalmente false: quella fascista trionfalistica e nociva durante il regime, e quella stereotipata anti-italiana degli ultimi vent’anni in America. Gli immigrati così sono doppiamente vittime, abusati sia dalla patria che dal paese adottivo.

Nel primo semestre di Altreitalie 28 del 2004 lo stato degli emigrati all’estero nel periodo fascista è studiato nei seguenti saggi: “Refractory Migrants. Fascist Surveillance on Italians in Australia” di Gianfranco Cresciani (6-47); “La risposta del fascismo agli stereotipi degli italiani all’estero” di Matteo Pretelli (48-65); “‘I nostri compagni d’America’: The Jewish Labor Commettee and the Rescue of Italian Antifascists” di Catherine Collomp (66-82); “Italiani ‘enemy aliens.’ I civili residenti negli Stati Uniti d’America durante la seconda guerra mondiale” di Guido Tintori (83-109); “Bonds of Affection: Italian Americans’Assistance for Italy” (110-123) di Stefano Luconi.

Gli stereotipi e i sentimenti “italofobi” – secondo il succitato articolo di Matteo Pratelli - rappresentano gli italiani come persone di “razza inferiore”, ignoranti e bruti, criminali e mafiosi, impulsivi e disorganizzati, inassimilabili per “tare genetiche”, servili al padrone e crumiri, ecc. (48). Il fascismo, se da una parte si mosse a difesa degli emigrati italiani esaltandone l’onestà e la laboriosità, li trascese poi con una retorica che esaltava il “genio” della razza italica, paragonando i poveri immigrati ai grandi “esploratori” portatori di civiltà nel mondo. Il fascismo nocque agli italiani all’estero quando identificò la loro italianità col fascismo stesso, e passò lo stereotipo di criminalità, indisciplinatezza, ecc. interamente agli italiani anti-fascisti. Anche nell’altro articolo di Guido Tintori si vedono gli effetti negativi della propaganda fascista sugli immigrati italiani trattati come “enemy aliens,” stereotipati e abusati indiscriminatamente. Tintore denuncia gli abusi degli immigrati italiani consideratri fascisti “enemy aliens” e tout court stereotipati in generale negativamente.

Nel secondo semestre di Altreitalie 29 il concetto di italianità è trattato da Patrizia Audenzio e Danilo Romeo nell’articolo “L’immagine e l’identità degli italoamericani nelle politiche dell’Order of Sons of Italy” (4-30). Quest’antica e prestigiosa associazione americana (OSIA), fondata nel 1905 e oggi forte dell’affiliazione di 500,000 famiglie con 759 sedi o logge locali e 21 statali con un ufficio centrale a Washington DC, ha l’autorità di rappresentare circa tredici milioni di italoamericani. Essa ha svolto e svolge una eccellente opera di promozione e di difesa della cultura italiana contro molti pregiudizi e stereotipi diffamatori. Tuttavia l’attività dell’OSIA, se da una parte continua ad essere di straordinaria importanza, particolarmente attraverso l’opera della “Commission for Social Justice” istituita nel 1982,  d’altra parte promuove un concetto d’italianità giudicato insufficiente.

Da una parte la “Commission for Social Justice” accerta un’allarmente diffusione di stereotipi anti-italiani, attraverso i film di Hollywood, i programmi televisivi e altri mezzi di comunicazione. Per esempio, l’italianità associata alla pizza in una campagna pubblicitaria promossa da Pizza Hut Corporation con immagini di italiani tutt’altro che edificanti fu criticata e fu interrotta con le scuse della ditta. (Lo stesso è accaduto nel 2006 a Toronto con la catena di ristoranti “Jack Astor’s”). Gli italiani in generale sono visti come essere inferiori: per esempio parlano male l’inglese, svolgono lavori di basso livello, sono bifolchi, bigotti, sessisti, sciovinisti, buffoni, reazionari, razzisti e soprattutto grazie al “The Godfather”, Il Padrino di Frances Coppola del 1972, sempre più mafiosi. Un sondaggio d’opinione rivela che il 74% della popolazione vede gli italoamericani affiliati a organizzazioni criminali. Da una ricerca del 1998, dei 535 film con italiani prodotti da Hollywood negli ultimi sessantasei anni, risulta che l’86% degli italiani vengono rappresentati negativamente, 49% mafiosi e il 38%  variamente spregevoli (8). Dopo il film di Coppola, dei 259 film prodotti ben 219 sono film di mafia, otto l’anno. Da notare che gli stessi italiani contribuiscono alla produzione di tali film, come nella serie del “Godfather” e quella di “The Soprano’s”. Contro questa valanga di produzione diffamatoria, l’OFIA contrattacca con una vigile e intensa campagna di proteste, di lobby politico e di boicottaggio.

D’altra parte, l’OFIA reagisce promuovendo una immagine onorevole degli italiani. In occasione del cinquecentesimo anniversario della scoperta dell’America, l’OFIA promuove un concetto di italianità eroica e grande, esaltando la figura di Colombo quale precursore degli immigrati italiani. Questa esaltazione curiosamente ci ricorda la retorica e propaganda fascista esaminata sopra. Ma questa italianità di storia passata è insufficiente ed inutile secondo gli autori Patrizia Audenzio e Danilo Romeo, i quali suggeriscono che la migliore italianità degli immigrati va ricercata nella loro stessa esperienza di vita moderna, quale quella degli emigrati socialisti e anarchici, di cui Sacco e Vanzetti furono fieri rappresentanti, animata da ideali di giustizia e di libertà . Inoltre, l’italianità moderna arricchita di frequenti viaggi e scambi con l’Italia va vista in una dimensione identitaria italiana transnazionale.

Nel primo semestre di Altritalia 28 del 2004, troviamo degli interessanti articoli letterari sul teatro:  “Italian-American Theatre” di Emelise Aleandri  (131-151);  “La comicità italoamericana. Il caso di Noc e Joe” di Stefania Taviano (152-159); “Il teatro italoaustraliano” di Gaetano Rando (160-180).

L’articolo di Emelise Aleandri, direttore artistico di “Frizzi & Lazzi” di New York, descrive la storia del teatro italoamericano a New York a seguito del grande flusso migratorio a partire dagli anni 1870 fino alla seconda guerra mondiale. Era un teatro amatoriale e di professionisti, in lingua italiana e soprattutto in dialetto napoletano e siciliano. Il repertorio comprendeva opere classiche di autori come Alfieri e Shakespeare tradotto in dialetto, o commedie come quelle di Eduardo Scarpetta, o spettacoli di varietà o Caffè Concerti dove l’attore era spesso autore cantante impresario e factotum di una propria compagnia teatrale stabile con una propria sede o in tournée. Gli immigrati italiani che nel ‘900 ammontavano a 225 mila a New York (più della popolazione di Roma a quel tempo) accorrevano al teatro, che era un luogo d’incontro sociale, una forma di divertimento e anche d’istruzione. Fra le stelle  di quel tempo si distinguono Fausto (Domenico) Malzone, Antonio Maiori, la cantante napoletana Gilda Mignonette che si esibì anche con Farfariello e Giovanni De Rosalia, che dopo un repertorio di tragedie classiche, creò il personaggio comico di successo «Nofrio», protagonista di satire siciliane: Nofrio al telefono, Nofrio arriccutu, Nofrio  senzali di matrimoniu, Nofrio spara lu jocu di focu (fuochi d’artificio), ecc. Ma nei primi trent’anni del900 a dominare la scena fu Eduardo Migliaccio, in arte “Farfariello,” con le “macchiette” del suo teatro di varietà: Il cafone patriota, Franceschino a New York, Tarantella d’ ’e diebbete, ecc. Rinviamo al recente volume di Hermann W. Haller, Tra ‘Napoli’ e ‘New York’. Le macchiette italo-americane di Eduardo Migliaccio. Roma: Bulzoni, 2006. (Cfr. www.bibliosofia.net/Canada.html nn. 57, 58).

Al teatro comico si contrappone il teatro serio e impegnato de “La Filodrammatica dell’Unione Socialista” e di attori e autori come Salvatore Abbamonte con la commedia “Senza lavoro” o il socialista calabrese Riccardo Cordiferro, poeta, autore di teatro, giornalista, conferenziere, editore e attivista politico che lottò anche a difesa di Sacco e Venzetti.

Nell’articolo citato sopra “La comicità italoamericana. Il caso di Noc e Joe” Stefania Taviano dell’università di Messina, esamina il teatro americano di “humour etnico”, particolarmente il teatro di Carmelo Marino e Joseph Lombardo, in arte Noc e Joe, all’interno della comunità italo-americana di Middletown, Connecticut. Il personaggio Noc è l’immigrante più integrato, mentre Joe è il cafone che si trova sempre negli impicci. Qui la comicità sorge dal contrasto di due culture, nel linguaggio ibrido spesso siculo-americano o in varie situazioni di difficoltà quotidiane di adattamento dell’immigrato. Abbiamo la crisi d’identità e la lotta di sopravvivenza in chiave comico-satirica.

È rilevante il saggio “Il teatro italoaustraliano” di Gaetano Rando, una rassegna a partire dagli anni ottanta del secolo scorso. Oltre alle sporadiche rappresentazioni australiane in inglese di opere di Pirandello, Dario Fo e Dacia Maraini, sono attive le compagnie amatoriali e di professionisti italoaustraliane che mettono in scena opere di autori italiani quali Edoardo e Peppino De Filippo,  Lina Wertmüller, Checco Durante, ma anche opere di drammaturghi italoaustraliani. Fra questi si distinguono gli autori della prima generazione Pino Bosi, Osvaldo Maione e, soprattutto, Nino Randazzo che primeggia per quantità di opere e successo di pubblico. La tematica del teatro italoaustraliano è principalmente quella dell’immigrazione. Si trovano acuiti conflitti generazionali, il tema della mafia, lo sfruttamento nel lavoro anche tra connazionali, l’isolamento sociale, l’esperienza del ritorno in Italia, ecc. Una commedia di Randazzo ha il titolo “Il pane e le rose” tratto dalla scritta sul cartellone di un’operaia italiana durante uno sciopero a Lawrence (Massachusetts) nel 1912: “Vogliamo il pane, ma vogliamo anche le rose”.

L’ultimo saggio di Altreitalie 29 del 2004  è quello di Simona Frasca dell’università di Roma “La canzone napoletana negli anni d’immigrazione di massa.” (34-51). La peculiarità del fenomeno è la creazione di una tradizione popolare di “musica transnazionale” che si affianca alla tradizione operistica diffusa da Caruso. Altra novità è la transizione dal dialetto napolitano alla lingua italiana, lo stesso processo linguistico che Hermann W. Haller esamina nel teatro di Eduardo Migliacchio e definisce a quel tempo istruttivo.

Nello stesso numero di Altreitalie 29 del 2004 si trova nella rassegna televisiva una recensione del film mafioso “The Sopranos” di Claudio Gorlier (120-126). Egli cita il libro uscito a seguito del film dal titolo The Sopranos and Philosophy: I Kill Therefore I Am, [I Soprano e la filosofia: Uccido, quindi sono], una collezione di diciassette saggi a cura di Richard Greene e Peter Vernezze, dell’editore Open Court Publishing. Questo libro, pubblicato in una collana di “cultura popolare”, trae dal film spunti di varie esercitazioni culturali: si trovano addirittura riferimenti concettuali che vanno da Platone e Aristotele a Machiavelli, Nietzsche e Sun Tzu. La “morale” di questo film di Mafia non risiede in una coscienza religiosa del peccato di tradizione italiana, ma in quella tipica americana dove l’esame di coscienza si affida alla psicoanalisi. Il mafioso Tony Soprano si reca da una psicoanalista, la quale a sua volta poi va da un altro psicoanalista. Ma tutto viene attribuito agli italiani stereotipati sempre più negativamente. Anche la persona fisica di Tony Soprano – si nota - è massiccia ma flaccida, con una propensione alla pinguedine, quale si immagina che sia quella propria dell’italoamericano! (124).

 

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Nel 2005 Altreitalie è sempre ricca di molti interessanti articoli, recensioni e altre informazioni, ma non c’è quasi niente attinente al mondo canadese e nordamericano. I sei saggi presenti nel primo semestre Altreitalie 30 vertono tutti sull’emigrazione in Europa. Anche i libri segnalati sono al di fuori dell’area nordamerica, eccetto uno sugli scambi cinematografici tra Italia e Stati Uniti dal 1895 al 1945. Viene indicato un libro che contiene racconti di emigrati campani in Argentina, nel Brasile meridionale e in Uruguay ed un altro ch’è una raccolta di autobiografie di emigranti italiani in Argentina e in Brasile.

Nel primo saggio “Gli italiani in Gran Bretagna: profilo storico” (4-22) Lucio Sponza traccia un profilo dell’immigrazione concentrata in gran parte a Londra nel periodo dall’inizio del XIX secolo agli inizi degli anni 1970. Esclusi dal campo del lavoro agricolo e industriale, gli immigrati svilupparono imprese individuali artigianali o commerciali, specie nel campo dell’alimentazione e della ristorazione. La presenza degli immigrati italiani non è ben vista all’inizio specie  per la loro povertà, che li costringeva a vivere in miserabili alloggi sovraffollati e riversarsi nelle strade come venditori ambulanti e suonatori di organetti. Giuseppe Mazzini si trovava lì a quel tempo e cercò di aiutare i disgraziati compatrioti.

Nell’articolo “The «conspicuous visibility» of Italianess and the «invisibility» of Italian migrants: a sociological analysis of a «regime of representation»” (23-40) Carla De Tona analizza un singolare concetto di italianità modellato in Irlanda sulla base di particolari situazioni storiche del paese di accoglienza. Si sente il solito lamento dell’emigrante in una donna intervistata dalla scrittice: “So we’re foreigners there, we’re foreigners here, what the hell are we?” (23). Così siamo stranieri là, siamo stranieri qua, che diavolo siamo? Viene segnalato che gli italiani in Irlanda erano i re del “Fish & chips”, famosi  per il piatto di pesce fritto con patatine, e avevano infatti quasi il totale monopolio dei ristoranti di quel genere.

Gli altri saggi di Altreitalia 30 circostritti all’Europa sono: “Italiani in Irlanda: comunità, individualità, transnazionalità” di Paolo Zanna (41-68); “Un progetto migratorio di successo? L’istruzione delle seconde generazioni di italiani all’estero” di Roberto Impicciatore (69-99); “Principali caratteristiche e inserimento lavorativo dei naturalizzati e degli stranieri di prima e seconda generazione in Svizzera” di Salvatore Strozza, Nicoletta Cibella, Carmela Roccia e Silvia Rosella (100-128); “Emigrazione italiana e sport a Nizza nel secondo dopoguerra” di Alessandro D’Aglio (129-146).

Neppure nel secondo semestre di Altreitalie 31 del 2005 abbiamo articoli attinenti al Nord America. Troviamo: “Percorsi dell’emigrazione italiana negli anni della ricostruzione: morire a Dien Bien Phu da emigrante clandestino” di Sandro Rinauro (4-48); “Nonna Maria e i paradigmi dell’azione migratoria: un’esercitazione” di Giuseppe Scida (52-73). Relativamente agli anni del fascismo abbiamo altri due articoli: “The Duce and the Prominenti: Fashism and the Crisis of Italian American Leadership” di Philip V. Cannistraro (76-86), “Brazil through Italian Eyes: The Debate over Emigration to São Paulo during the 1920s” di David Aliano (87-107).

In Altritalie 31 troviamo una interessante rassegna di libri riguardante il Nord America. Precisamente: Francesco Durante, Italoamericana. Storia e letteratura degli italiani negli Stati Uniti, 1880-1943, recensito da Claudio Gorlier (150-51); Matteo Pretelli e Anna Ferro, Gli italiani negli Stati Uniti del XX secolo, recensito da Paola Corti (151-53); Gianni Paoletti, John Fante, Storia di un italoamericano, recensito da Paola Corti (153-54).

 

 

 

1 luglio 2006

 

 

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