Perché scrivere in “bisiàc”?

 

di Ivan Crico

 



            Le acque verdi dell'Isonzo, oltre gli argini, scorrono a poche centinaia di metri da casa mia, a Pieris. Fin da piccolo, in pochi minuti, potevo raggiungere di corsa i grandi, aridi greti  di ciottoli bianchi dove qua e là, timidamente, spuntavano i fiori gialli di topinambùr. Il verde intenso di quelle acque e il biancore silenzioso di quelle distese senza fine, che mettevano ancora più in risalto l'azzurro sfolgorante del cielo, iniziavano a diventare, così, i colori della mia anima. Quel paesaggio, conosciuto in ogni sua impercettibile mutazione, nell'oro dei tramonti come nelle nevi sui salici, per me diventava un varco verso l'invisibile, il mondo dei morti, la corrente a cui affidare le mie domande senza risposta. La mano che si posava sul mio cuore per portare pace.

Per anni ho continuato, quasi ogni giorno, a camminare lungo le sue rive franose, i boschetti, i greti dove le notti d'estate mi addormentavo con gli occhi perduti in un'infinità buia e meravigliosa che non voleva, o non poteva ancora, spiegarmi il perchè del mio essere lì a contemplarla.

            A quel tempo, per me, non esisteva nulla all'infuori dell'amore per l'arte e la natura. Erano passioni rapinose e totalizzanti. Dipingevo fin da piccolo, scrivevo poesie  e andavo in cerca, sempre, di nuovi libri che mi facessero sognare, oltrepassare con la fantasia il grigiore in cui mi sentivo imprigionato. Vivevo difatti in un piccolo paese, in una zona ai margini dei grandi eventi culturali, abituata, rassegnata direi, praticamente da sempre a essere tenuta in disparte da tutti coloro che nei secoli qui avevano governato. La gente che ci viveva (allora mi pareva ma, in parte, sbagliavo) non sembrava per nulla interessata alle cose che interessavano a me e, così, vivevo in una situazione di solitudine psicologica, ma anche fisica, quasi totale.

Da una parte desideravo dunque distaccarmi in ogni modo da quel mondo che mi appariva limitato, soffocante, privo di slanci ideali, mentre, dall'altra, quella natura continuava a esercitare su di me un'attrazione fortissima che mi impediva di andarmene. Soltanto lì - pur sentendomi sempre come un esiliato nel mondo -  riuscivo in qualche modo a essere me stesso. Così, pur essendo nato in una famiglia dove non si è mai parlato in italiano (penso di averlo sentito per la prima volta a scuola), per anni ho avuto come una specie di rigetto verso tutto ciò che riguardava il dialetto e la cultura locale.

Volevo emanciparmi e, per far questo, diressi ogni mio interesse verso autori come Leopardi, Nietzsche, Schopenhauer, Baudelaire, Rimbaud e poi Char, Saint John  Perse, Rilke, Celan e tanti altri capaci di mostrarmi il mondo da altri, inediti, punti di vista. Non volevo, soprattutto, accettare supinamente le cose come mi erano state insegnate; non volevo vivere secondo regole ispirate dal comune buon senso senza aver capito prima se avessero davvero un senso, se non fossero, cioè, il frutto di quelle scorciatoie che sono di solito le paure o i preconcetti.

Nell'attesa di trovare qualcuno che mi comprendesse o, meglio, più semplicemente, con cui poter parlare, mi abituai così a scrivere e a dipingere come uno che lancia le sue richieste di aiuto nel mare del tempo e non sa né dove arriveranno, se arriveranno, e tanto meno se qualcuno le raccoglierà.

Ho sempre, e sempre profondamente, vissuto l'arte come un bisogno primario di comunicazione in cui, però, non ci si deve mai porre il problema di essere immediatamente compresi. Possiamo avere la fortuna di essere capiti e accettati da chi ci sta intorno o da qualcuno che non conosceremo mai, quando non ci saremo più. L'importante è credere che stiamo parlando a qualcuno e lo stiamo facendo soppesando le nostre parole con la bilancia della vita e della morte. In questo senso, davvero, a volte i discorsi più veri li facciamo dialogando con autori scomparsi da secoli, in immaginarie stanze illuminate dalla luce tremante di una candela, o con qualcuno che, ancora non nato, un domani coglierà dai rami delle nostre parole frutti impensati.

Sono arrivato, dopo lunghe e inquiete peregrinazioni, sulla soglia dei vent'anni scrivendo soltanto poesie in lingua e mai avrei immaginato di poter scrivere impiegando quella parlata così come l'avevo appresa a casa "de garzonét" ("da bambino"). Avevo già letto qualcosa di Marin, che stimavo, e di qualche altro autore in dialetto; ma, devo dire la verità, in quel tempo amavo infinitamente di più altri poeti. Come Pasolini, di cui cercavo avidamente in biblioteca ogni opera. Fino a quando non mi capitarono tra le mani "Le poesie a Casarsa". E, da quel momento, la mia vita cambiò. Quelle poesie davvero segnarono una svolta poichè, fino ad allora, in ciò che scrivevo non mi era mai sembrato di riuscire a definire le cose come le sentivo. L'italiano non era la mia lingua vera, seppure molto amata, e quindi tra le cose e i nomi che le definivano si apriva, per me, come una sorta di abisso incolmabile. Queste cose, devo dire, però le ho capite più tardi; allora, semplicemente, mi sembrava di essere o troppo letterario o troppo sofisticato nella scelta dei termini. In realtà, tutti questi non erano altro che tentativi, per lo più vani, di restituire a quelle cose la parte per me mancante, la realtà tangibile con i suoi profumi, i suoi colori sempre diversi, una realtà che io avevo conosciuto però con altri nomi. E questi nomi li ritrovai nelle poesie di Pasolini. C'erano difatti, in quelle liriche, molti termini che avevo sentito e anche adoperato nell'infanzia (il bisiàc, pur essendo una parlata fondamentalmente veneta, ha in comune con il friulano numerosi vocaboli), ma soprattutto - ed è la primissima impressione - ciò che più mi meravigliò fu come quelle parole, che per tanto tempo avevo voluto rimuovere, ritraessero alla perfezione i paesaggi da me tanto amati di queste terre di confine. Il suono di quei termini era un tutt'uno con le cose che definivano, per cui leggevo e, all'istante, vedevo davanti a me rogge, salici, argini come in una fotografia incredibilmente nitida. Questo fece sì che la mia parlata nativa, per lungo tempo snobbata, acquistasse all'improvviso ai miei occhi un prestigio, fino a qualche istante prima del tutto inimmaginabile.

Da qui nacque anche l'impulso a scrivere in bisiàc, un raro "sermo rusticus" di tipo arcaico veneto - ma che al suo interno contiene anche numerosi termini ladini, sloveni,  tedeschi e francesi - parlato ancora nei paesi del monfalconese. Il che si rivelò, però, una cosa per nulla semplice. Questo soprattutto perchè nel frattempo avevo espunto dal mio lessico quotidiano molte parole che nell'infanzia impiegavo normalmente (e che nel frattempo avevo dimenticato). Non possedevo, inoltre, nemmeno un vocabolario del mio idioma nativo ma comunque scrissi, come potevo, un certo numero di testi che mi fecero finalmente sperare di essere su una buona strada. Per quasi un'intera annata (era il 1989 e avevo vent'anni) mi dedicai forsennatamente alla scrittura in bisiàc ed allo studio di una parlata che non avrei mai creduto così insospettabilmente ricca. Ricordo le notti intere passate a riscoprire termini dimenticati, a scrivere e riscrivere liriche che ancora rimanevano non altro, a volte, che delle traduzioni in dialetto di versi ancora pensati in italiano. Ben presto mi accorsi, anche grazie a persone come l'amica poeta Marilisa Trevisan, che soltanto riappropriandomi totalmente di quella perduta parlata, conoscendola in tutte le sue minime sfumature, avrei potuto creare qualcosa di originale e veritiero. In sostanza, mi ritrovavo ad essere come un pittore  quasi senza colori, con pochi pennelli, che vorrebbe ritrarre un paesaggio dalle mille sfumature.

 Il dialetto inoltre, in quanto "lingua della realtà" com'è stato definito - anche se di una realtà forse molto più aperta al magico rispetto a quella in cui viviamo - non comprendeva la sfera concettuale, nemmeno nei suoi aspetti più banali (la parola "felicità" non ha corrispondenti in bisiàc). Per cui mi accorsi che, in mancanza di termini appropriati, dovevo trovare altri termini che, una volta accostati, grazie anche alla loro sonorità, potessero alludere a realtà che da soli non avrebbero, forse, potuto mai esprimere. Il tutto sarebbe stato ovviamente più semplice introducendo degli italianismi, andando ad attingere altrove ciò di cui il dialetto era privo, ma era proprio questo suo essere qualcosa d'altro rispetto all'ufficialità della lingua, il suo  essere cosa tra le cose e non pensiero che incasella, divide la realtà in categorie, che mi affascinava e che, assolutamente, non avrei voluto mai tradire attraverso gratuite forzature. Per cui ho scelto di rimanere entro quei confini che, come tutti i confini, possono essere visti anche come frontiere di mondi sconosciuti, mondi ancora da esplorare.

Un altro problema, comune ad altri poeti della mia generazione, è che, pur avendo sempre parlato in dialetto, il mondo in cui quel dialetto si era formato ormai andava sparendo, se non era già scomparso da anni, decenni a volte. Avevo avuto la grande fortuna di nascere in un'ambiente ancora in larga parte intatto, con una natura ancora onnipresente in forma di fiumi e rogge, alberi, uccelli, animali ma, al contempo, anche l'inquietudine di vivere tra persone che stavano rapidamente e brutalmente recidendo i legami con quel mondo passato - certamente non facile - per addentrarsi nei meandri di una realtà sempre di più ovunque uguale, dove le differenze andavano annullandosi e la meravigliosa varietà dell'esistente perdendosi, a volte, per  sempre. Non mi interessava accodarmi a quella corsa di figure bendate, che non condividevo, che mi appariva e mi appare basata soltanto sull'esaltazione del proprio ego, indifferente alle esigenze degli altri e dell'ambiente in cui ci ritroviamo a vivere. Ho sentito che, invece, era necessario per me procedere a ritroso, ritrovare nel passato le chiavi per poter riaccedere a un'altra visione della vita, fatta di continuità tra ieri e oggi, di sapienze secolari, segrete visioni della realtà. Quelle  di cui ancora, a volte, mi facevano partecipi i più anziani o coloro che, per tradizione familiare, avevano imparato a custodirle gelosamente, come un patrimonio da non disperdere.

Ho sempre pensato a qualcuno, scrivendo, ma non so davvero per chi scrivo. Quel che so è che non sarà certo la difficoltà della lingua ad impedire alla poesia di arrivare, se ne avrà la forza, dove deve arrivare. Le parole di un poeta cinese di mille anni fa, pur tradotto, a volte le sentiamo più vicine di quelle di chi ci vive accanto. Ma forse, prima ancora di pensare a un possibile lettore, scrivo forse per avvicinarmi a quel me stesso che sarò, che non conosco ancora, se la scrittura, come la pittura, sono da sempre dei mezzi che mi spingono a esplorare zone di me, del mondo, in cui forse da solo non mi sarei mai avventurato, come incamminandosi lungo un sentiero senza mai sapere dove porta e chi saremo alla fine - se mai ci sarà - del nostro viaggio.

 

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Diplomato in pittura all’Accademia di Belle Arti di Venezia, Ivan Crico ha esposto in Italia e all’estero. Affermato poeta in lingua, dal 1989 scrive nella lingua arcaica veneta chiamata “bisiàc”. Suoi testi poetici e saggi critici sono apparsi sulle maggiori riviste letterarie italiane.

 

Having graduated in painting at the Accademia di Belle Arti in Venice, Ivan Crico has shown his work in Italy and in foreign countries. A well-known poet in Italian, since 1989 he writes in an archaic Venetian language, “bisiàc”. His poetry and his critical essays have been published by the most important literary magazines in Italy.

 


 

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