Presentiamo Frank G. Paci

Egidio Marchese

emarchese@primus.ca  

 

Col suo primo romanzo The Italians del 1978, Frank G. Paci si presenta come uno dei pionieri della recente letteratura italo-canadese, asserisce Joseph Pivato, anch’egli pioniere della critica di quella letteratura. Nello stesso anno 1978 Pier Giorgio Di Cicco, originario di Arezzo e oggi celebrato “Poeta Laureato” in Canada, pubblica Roman Candle, la prima raccolta moderna di poesie di autori italo-canadesi, ivi incluso lo stesso Pivato. Sempre nel 1978 Antonio D’Alfonso fonda la sua Casa editrice Guernica Editions, che difende e promuove la letteratura italo-canadese, che in quegli anni va fiorendo ovunque, da Vancouver a Edmonton e Calgari, a Toronto e a Montreal. (Si veda Joseph Pivato, A History of Italian-Canadian Writing).  

F. G. Paci nasce a Pesaro nel 1948 e aveva quattro anni quando la sua famiglia di umile origine si trasferì in Canada, a Sault St. Marie, nel Nord Ontario. Ebbe un’adolescenza penosa, come tanti nelle famiglie degli immigranti. Nel 1970 conseguì la laurea B.A in inglese e nel 1975 quella B. Ed. in pedagogia all’Università di Toronto. Qui fu incoraggiato a scrivere da Margaret Lawence, che gli consigliò di attingere ispirazione dalle sue origini. Nel 1978 infatti esce il suo primo volume The Italians ch’ebbe un notevole successo, seguito da Black Madonna (1982), tuttora il suo romanzo più famoso. Intanto aveva completato i suoi studi in inglese, conseguendo la laurea M.A. alla Carleton University. Seguono molti altri romanzi (si veda sotto la Biografia), particolarmente i romanzi della serie “Black Blood” (Bildungsroman), che ha come protagonista Marco Trecroci. Attualmente vive a Mississauga, presso Toronto dove insegna in una scuola secondaria superiore.

La critica letteraria si va occupando sempre più delle opere di Paci sotto vari aspetti. Per esempio, nell’antologia di saggi critici curata da Pivato, F.G. Paci: Essays on His Works del 2003, si trovano questi saggi, oltre all’Introduzione dello stesso Pivato: - “The confession of Mark Trecroci: Style in Frank Paci’s Black Blood and Under the Bridge” di Caterina Edwards. – “Search for the Great Mother” di Roberta Sciff-Zamaro. – “’The Old Country in Your Blood’: Italy and Canada in Frank Paci’s Black Madonna and Margaret Atwood’s Lady Oracle”di Enoch Padolsky. – “’The most sacred and secret things of life’: Religious Imagery in the writings of Frank Paci” di Anna Carnevaris. – “Provisionality, Multiplicity, and the Ironies of Identity” di Marino Tuzi. – “Father and Family: ‘The Padre Padrone’ figure in Frank Paci’s The Italians and Antonio Casella’s The Sensualist” di Gaetano Rando. E infine, una Intervista in tre parti: - “Interview in Three Parts by C. D. Minni and Joseph Pivato.”

Una opinione comune è che le opere di Frank G. Paci siano di stile realistico. Egli stesso nell’Intervista spiega la natura del suo stile, e Caterina Edwards nell’articolo citato sopra difende il suo  realismo. Certo, si può dire che il suo stile non è quello di un vecchio naturalismo e non manca di fascino. Così si legge nel racconto The Stone Garden: “How beautiful reality was when mixed with the unclear vision of imagination and wonder!” (224)

Qui di seguito presentiamo il suo racconto, delizioso e in fondo drammatico, Growing Up with the Movies, sulla crescita dei giovani tra la realtà e, appunto, una “unclear vision of imagination and wonder!”

Alla fine aggiungiamo una utile bibliografia dell’autore. Separatamente in questo stesso numero di Letteratura canadese e altre culture presentiamo l’Intervista in tre parti di D. Minni e J. Pivato a F.G. Paci. Successivamente presenteremo altri saggi critici sul nostro autore.

 

“Crescendo coi film,” di Frank G. Paci*

(Traduzione dall’inglese di Egidio Marchese)

emarchese@primus.ca

 

C

irca un mese dopo la festa di Susanna, ero con Rico al palco del Cinema Princess a guardare The Alamo.

Siccome lo avevo aiutato nei suoi compiti tante volte al telefono, egli di tanto in tanto mi compensava portandomi al cinema. Era il suo modo di pareggiare il conto, suppongo, benché lo spettacolo diurno al Sabato costasse poco. Rico era un fan di John Wayne e imitava spesso il suo modo di camminare ondulando e la sicurezza del suo sguardo tagliente di fronte agli ostacoli che incombevano.

Quel sabato, comunque, John Wayne non era il solo a recitare in un dramma.

Come al solito il cinema quel pomeriggio era pieno zeppo. I ragazzi rumorosi e inquieti. Stendevano i loro piedi sopra i sedili di fronte o si urtavano nei corridoi, conversavano a voce alta, ridacchiando o schiamazzavano davanti lo schermo, e costantemente cambiavano di posto con gli amici. Le giovani maschere cercavano di mantenere l’ordine freneticamente. Molto spesso un cartoccio vuoto di pop-corn schiacciato veniva lanciato dal palco come un piattino volante. Se faceva un colpo dritto, scoppiava un tuono di applausi.

Occorreva un supremo sforzo di concentrazione per seguire il film.

Ma se tu fossi come me, saresti rimasto inchiodato allo schermo, con gli occhi sbarrati e le orecchie aperte per accedere totalmente all’ipnotico mondo del tecnicolor, cinemascope e suono stereofonico. C’era qualcosa che mandava interamente in trance, a guardare persone più grandi della vita reale in uno schermo gigante, illuminato da colori più vibranti e densi della vita reale, con una musica eccitante che accresceva il dramma – le attrici più belle e sexy della realtà, gli attori più audaci e belli e disinvolti di chiunque tu abbia mai incontrato nella noia quotidiana di Sault. E anche se fossi andato al cinema con amici e il locale fosse come al solito pieno di rumorosi ragazzi, più interessati a incontrare gli amici e a socializzare o sgranocchiare pop-corn per tutta la durata del film, l’oscurità del cinema tuttavia ti racchiudeva, ti separava dagli altri – anche dalla persona con cui eri andato – tanto che ti sentivi sempre solo dentro il mondo del film. Per me l’oscurità rendeva il film tutto proprio, lo rendeva in parte sogno, in parte completo appagamento dei tuoi desideri, in parte fantasia, ma tutt’insieme un riflesso del profondo struggimento dell’anima ad ottenere fama, ricchezza e amore.

Cosicché non era John Wayne là sopra, ad affrontare coraggiosamente tutti quei messicani – eri tu. E non era Richard Widmark o Laurence Harvey o chicchessia, in quei bei calzoni stretti di pelle di daino marrone, a parlare tanto svelti, riempendo lo schermo dei loro occhi feroci e parole pronunciate con mascelle sporgenti. Eri tu. E non era Charlton Heston a far girare gli occhi alla figlia del Faraone e a dividere il Mar Rosso con tutto il potere di Dio dietro di lui. O Gary Cooper, alto e taciturno in sella, che resisteva agli approcci della bella Maria Shell, per alcune segrete pene della sua vita. O il bel Pat Boone di una carnagione di crema, che faceva gli occhi dolci a Bernardine o Giget e che alla fine riusciva sempre a conquistare la ragazza. O Jeff Chandler con la fossetta al viso e i capelli bianchi, che guidava una carica della cavalleria. O Audie Murphy con una faccia da bambino, piccolo e compatto in sella, con più coraggio e rapidità nelle sue mani da battere quei ringhiosi desperados. Ero io.

C’erano tanti eroi nei film western e nelle epiche bibliche e drammi polizieschi e film di guerra e storie d’amore della città e commedie leggere.

Non dimenticherò mai Burt Lancaster e Kirk Douglas che sparando facevano fuori la gang di Clanton in Gunfight at the O.K.Corral. E Audie Murphy che uccideva tutti quei tedeschi in To Hell and Back. E Gary Cooper, che per me era l’epitome dell’eroe forte e taciturno, che conquistava le donne nonostante le barriere di silenzio e di resistenza che poneva di fronte a loro. E Cary Grant, che aveva l’aspetto e uno spirito ritroso. E John Wayne con quel grande e grosso corpo e suprema fiducia in sé. E gli attori meno noti quale Fess Parker che iniziò la voga di Davey Crockett. Questi e tanti altri ancora, gli eroi dello schermo che crearono i miti che riempirono la nostra via verso la fama, la ricchezza e l’amore.

E poi c’erano le donne. Ma le donne io le ricordo meno per il loro carattere che per il loro aspetto e il loro fascino. Coi seni bianchi e soffici come panna montata che spuntavano fuori dalle loro basse scollature. E i loro capelli ben acconciati e le gambe lunghe ben modellate e l’espressione di desiderio che avevano verso i loro uomini. Ricordo le loro labbra di rubino, così carnose e abbronciate e da baciare - con tanto rossetto ti saresti perduto nelle loro bocche. Ricordo colli pieni di grazia e sguardi di santarelline interessate rivolti ai loro uomini.

Come Sofia Loren in The Pride and the Passion. O Rita Hayworth in They came from Cordura e Marilyn Monroe in The Seven-Year Itch. Per non menzionare Jayne Mansfield, non importa in quale film fosse. Queste e altre simili donne riempivano i miei occhi dell’incanto del loro corpo di donna - così ampio, soffice, invitante, e così appassionato. Tutte donne ben diverse dalla Beata Vergine del Messale, con la figura ricoperta da un’ampia veste e gli occhi rivolti al cielo. Chi sa fino a che punto queste sante immagini insieme alle immacolate statue della Beata Vergine e delle sante italiane, abbiano distorto il mio modo di vedere le donne? Esse un giorno potrebbero essere vergini divinità asessuali su un piedestallo, e il giorno dopo sessuali tigri femmine in cerca di preda.

Anche Cristo sulla croce era asessuale. La sua pelle era stata tanto battuta e depilata, in uno sforzo di farlo apparire spirituale, che sarebbe potuto sembrare niente più che un cosmeticizzato uomo effeminato.

Insieme alle immagini di veri uomini e donne nello schermo coi loro gesti audaci e i corpi dai busti prorompenti di stelle del cinema, c’era la colonna sonora che, probabilmente ancor più del banchetto per gli occhi, manipolava le emozioni che si andavano sviluppando. Orchestre sinfoniche al completo giocavano con i nostri cuori, mentre gli occhi erano attratti dallo schermo. Sembrava, a volte, che migliaia di violini uscissero dai pori dello schermo illuminato, suonando pianissimo in scene d’amore, tuonando come un risuonare di zoccoli, sbuffando come una locomotiva nelle varie sequenze dell’azione, e prorompendo in un crescendo di fortissimi nelle vedute panoramiche mozza-fiato. Un violino ad alta tensione avrebbe potuto raschiare fuori di me ogni ultimo rimasuglio di emozione, e lasciarmi alla fine debole ed esausto, cosicché era quasi impossibile fare appello alle emozioni, necessarie alla banale esistenza di ogni giorno. A volte mi aspettavo anche, per metà, che i violini nello sfondo gemessero, quando mi trovavo in situazioni impossibili nella vita reale.

Un film che ha inciso enormemente nella mia vita sessuale è stato un film italiano, che mia madre mi ha portato a vedere proprio l’estate scorsa. Contrariamente alle mie aspettative, la televisione non è servita a migliorare il suo inglese. Lei guardava il film e capiva quello che stava succedendo in generale. Ma spesso, pure, infastidiva Lianna e me con tante domande sulla trama che noi ci spazientivamo con lei. “Che cosa dicono adesso?” diceva. “Dimmi. Che cosa succede?” Non volavano più le pantofole se la facevo arrabbiare o ero scostumato. Ero ormai troppo grande per quello. Ma si sarebbe lamentata e mi avrebbe chiamato ingrato se non l’aiutavo con le storie.

Ad ogni modo, mia madre mi prese con sé perché non aveva spesso l’occasione di vedere un film italiano - e non sarebbe andata da sola. Mio padre allora lavorava nel turno dalle tre alle undici. Io non potevo capire molto bene la lingua del film. Ma allineando la lingua con l’azione e le immagini ero in grado di afferrare l’essenza di quello che succedeva. Ho fatto chiaro il punto che certamente non intendevo chiedere a mia madre cosa stesse succedendo. Guardare qualcosa insieme in relativo silenzio era un gradito sollievo.

Alla superfice il film era un western, ma una interpretazione italiana del vecchio west, diverso da ogni altro che avessi mai visto. In questo western gli uomini erano più interessati alle donne come donne che come accessori al loro eroismo. In quasi tutti gli altri western che avevo visto le donne erano naturalmente attratte verso i forti eroi taciturni. Ma in questo film, di cui non ricordo il nome, qualcosa di strano succedeva. La signora protagonista era molto bella, molto femminile, e indossava uno stretto corsetto che sollevava i suoi seni tanto che io pregavo continuamente che sgusciassero fuori. Lei era interessata a due uomini – uno era un bel vagabondo cencioso che rappresentava il tipico silenzio eroico di Gary Cooper che io ammiravo grandemente. L’altro era più loquace, più il tipo di un effeminato buffone che portava la pistola a lato del suo stomaco come un ridicolo novizio. Il primo era forte e taciturno – pieno di stoico orgoglio. Il secondo era un vanesio debole, benché avesse intorno a sé un fascino da ragazzo. All’inizio, la signora protaginista non gli avrebbe dato un secondo sguardo. Ma lui continuò a importunarla, non accettando mai il no come risposta, mentre quello forte taciturno era intento ai suoi eroici doveri. Era come se, mentre il tipo buono stesse a giocare al baseball e all’hokey cercando di essere uomo, il debole andasse sempre a ballare come un codardo per adulare la sua ragazza.

Alla fine, quando la signora cedette, non ci potevo credere. Ho sentito come se lei avesse tradito lo spirito di ogni western che avevo visto – come se, infatti, avesse tradito ogni forte e taciturno eroe che avesse camminato per le polverose strade di un paese di gente vigliacca, paurosa ad affrontare le pistole dei cattivi a mezzogiorno col sole alto. Come può essersi sottomessa a quel vagheggino, che passava tutto il suo tempo ad adularla? Non aveva visto attraverso uno schermo di fumo i suoi approcci d’inganno? Non si sentì fedele a uno che l’amava con il suo orgoglio silenzioso?

E quando nella scena che si rappresenta ancora oggi nella mia memoria, lei fece all’amore con questo “uomo di donna,” questo pavone di un cowboy che cammina impettito con le pistole in alto sullo stomaco, mi sono sentito completamente perduto. La cinepresa indugiava su di lui mentre la baciava in quelle labbra di rubino, e poi più giù nei suoi seni di panna montata – e la mia rabbia non conobbe più limiti! Pensavo che di sicuro quello forte taciturno avrebbe fatto irruzione attraverso la porta e l’avrebbe preso a pugni fino a fargli perdere i sensi. Pensavo che di sicuro a quel momento estremo, prima che lei fosse violata da quel misero surrogato d’uomo, l’eroe l’avrebbe salvata. Ma no! Questo non accadde, naturalmente. Ché la cinepresa si mosse proprio quando la testa dell’uomo andava abbassandosi di più sul suo corpo, si mosse sopra all’espressione di penosa tortura sulla faccia della donna. Lì indugiò un poco, riprendendo la sua bocca aperta e i suoi occhi chiusi. Ho pensato per un momento che lei soffrisse un terribile dolore. Cosa le stava facendo quel vigliacco? Ancora per metà mi aspettavo che l’eroe arrivasse prorompendo attraverso la porta. Ero confuso per il fatto che la donna non lottasse. Finché nello schermo fu messo a fuoco il braccio di lei teso sul lenzuolo, la mano che stringeva il lenzuolo sempre più fortemente, nella tormentosa gioia dell’estasi sessuale.

Ma anche allora non ero sicuro. Fu solo dopo, nel film, quando la protagonista cominciò a far festa a quel codardo bellimbusto come un gatto che graffia il suo padrone – dimenticato completamento il suo taciturno corteggiatore - che il mio peggiore sospetto fu confermato.

The Alamo, comunque, non era per niente simile a quel western italiano – quell’aberrazione del mito che solo temporaneamente mi aveva fuorviato dalla verità dei film. The Alamo era la verità trionfante. Non c’erano donne che traviavano gli uomini. Gli uomini erano uomini – che procedevano verso la loro inevitabile fine con i loro stivali addosso.

Eppure ci volle tanto per arrivare alla scena dell’attacco finale, con tante sotto-trame – con Frankie Avalon nel ruolo di un adoloscente da battito-al-cuore e Richard Boone quale Sam Houston e Lawrence Harvey quale Col. Travis con quel suo tic al labbro superiore rigido che annoiava tante volte il pubblico.

E fu durante uno di questi momenti di tregua nell’azione che Rico ed io notammo giù nella platea, la testa di lui sospettosamente vicino a quella di lei.

“Che diavolo sta facendo quel contadino?” Rico sputò fuori.

Era del tutto giusto vedere questi piccoli drammi nello schermo, con gli attori e le attrici che odoravano di pop-corn in pieno cinemascope e suono stereofonico, ma essere di fatto nella vita reale di uno era, secondo me, imbarazzante. Ed io sarei scappato a nascondermi, se Rico non mi avesse afferrato per il braccio e trascinato giù nel corridoio, pochi posti dietro la coppia amorosa. Questo proprio quando l’armata di Santa Ana si era ammassata intorno ad Alamo. Quando gli americani avevano risolto tutte le loro divergenze ed erano pronti a morire con i loro stivali addosso. Leali, adesso, senza alcun ombra di dubbio, ad affrontare le migliaia di soldati messicani allineati fuori le mura della vecchia chiesa.

Era alquanto evidente, comunque, che Perry e Maria sarebbero stati di minimo interesse fra pochi momenti, nello scontro finale tra i messicani e i texani. Avevano risolto verbalmente le loro divergenze. Ho dovuto guardare una seconda volta per essere sicuro che effettivamente stavano amoreggiando.

Quella vista mi fece arrabbiare per ragioni che avrei potuto districare dopo. Primo, perché stava distruggendo l’illusione del film, distraendoci da tutta quella maledetta situazione per montare la quale erano occorse due ore. Secondo, Rico mi aveva trascinato in qualcosa che non era per niente affar mio. E, terzo, perché quella vista, cosa abbastanza curiosa, sembrava tanto irreale come se accadesse nello schermo.

Diversamente per Rico, i cui occhi erano tanto feroci, quanto Santa Ana che reclamava indietro la sua terra, pronto ad annientare quei pazzi intrusi che avevano osato opporsi a lui.

“Perry!”gridò al di sopra del baccano dei moschetti e gli urli dei texani.

E tutto quello ch’io potevo fare era di scivolare giù sulla sedia, sperando che ci sarebbe stata una fossa in basso profonda sei piedi.

“Andiamo giù. Io l’ammazzo quel contadino!”

Avrei potuto interrompere tutto proprio lì. Se avessi agito. Invece di essere imbarazzato e voler nascondermi. Forse avrei potuto stroncare tutta la faccenda sul nascere – era così ingenuo, anche così ridicolo recitare il dramma di due corteggiatori dietro alla stessa ragazza. Appariva appropriato nei foto-romanzi di mia madre e nello schermo, accettabile anche nei fumetti e nei romanzi, ma non nella vita reale con persone che erano ancora ragazzini. Era questo quel che vuol dire crescere? Recitare tutte quelle scene che avevamo letto e visto anche nello schermo? Come se nulla fosse penetrato dentro? Come se non avessimo imparato un’acca da tutte le lezioni dei fumetti e dei foto-romanzi e dello schermo? Markie Trecroci aveva recitato tutti i grandi ruoli dei film e dei fumetti. Ma quando fu la volta di recitare il ruolo di un amico, non ci riuscì.

Cosa, se al cinema Princess avessi detto a Rico di stare zitto, invece di fare la parte di un asino? Cosa, se gli avessi ricordato la nostra alleanza – tre dita ma una mano? Cosa, se quei due li avessi preso da parte e interrompendoli li avessi indotto a pensare a quello che stavano facendo, che era così ridicolo che sarei scoppiato a rider loro in faccia, se non fosse stato per la peculiare espressione di soddisfazione nella faccia di Maria. Infatti quando ci siamo incontrati tutti nel vialetto dietro il Princess, mentre i due rivali si affrontavano minacciosamente, Maria Marino stette da parte esortandoli solo a metà a fermarsi. Per l’altra metà lei, cosa che non mi è sfuggito di notare, era in qualche modo contenta di quello che succedeva, sorridendo in un modo di auto-soddisfazione, come se fosse compiaciuta che due ragazzi lottassero per lei.

Ma io non feci nulla.

Benché una parte di me fosse confusa da quel ruolo di pagliacci seri più appropriato agli adulti, un’altra parte era distaccata come uno spettatore che guardi la scena di un film. Perché sembrava così ovvio che stessero recitando i ruoli che erano stati assegnati loro decine d’anni fa, quando la prima scazzottata era stata girata davanti alla cinepresa, la stessa che si era poi sviluppata in mitiche proporzioni nelle cinque versioni di The Spoilers - di cui io ne ho viste solo due: John Wayne contro Randolph Scott e Rory Calhoun contro Jeff Chandler. La lotta che durò oltre cinque minuti, le due preminenti star con la loro reputazione a repentaglio davanti al loro pubblico - e solo le ragioni economiche del botteghino determinavano il vincitore finale. A queste, e molte altre scazzottate, abbiamo assistito davanti lo schermo, coi colpi che si abbattevano sempre con un sordo schianto, i lottatori che cadevano e si rialzavano come se nulla fosse successo, la faccia insanguinata ma mai seriamente danneggiata perché l’uomo star doveva apparire sempre di bell’aspetto.

Ma quando il pugno di Rico colpì Perry diritto alla bocca, non c’era un suono di schianto, Perry semplicemente cadde giù come un sasso, un soffocato lamento sfuggì dalle sue labbra. E non si rialzò. Ed il sangue era reale.

Rico stette in piedi davanti a lui ansimando. Tracce di sangue erano nelle sue nocche, la faccia rossa come una fiamma, gli occhi un misto di paura e di rabbia.

“Tu contadino!” gridò digrignando i denti. “Tu stupido contadino! Non ti avevo ammonito su Maria?”

Rico aveva colpito Perry così velocemente, e senza avvertimento, che ci vollero alcuni secondi a Maria per digerire lo shock del fatto improvviso. Il vano, compiaciuto sorriso si mutò in un istante in orrore. I suoi occhi pieni di timore, mentre guardava Rico che non fece una mossa qualsiasi per attestare  la sua presenza. I suoi occhi erano fissi su Perry, che si contorceva con dolore nella neve. Appariva una massa di sangue come una macchia di vino. Il mio stomaco cominciò a rivoltarsi con nausea.

Maria ed io ci siamo mossi gradatamente verso la forma accasciata del nostro amico, che si era piegato in una posizione fetale ed era rimasto paurosamente immobile.

“Cosa gli hai fatto?” Maria guardò a Rico.

“Non l’ho colpito tanto forte,” Rico disse, la sua tempra adesso sottomessa alla paura e al rimorso come se si rendesse conto di cosa aveva fatto. Cominciò ad allontanarsi lentamente.

“Come hai potuto” lei disse. “Come hai potuto?”

“È colpa sua. Non voleva dar retta.”

“Vai via di qui,” Maria gli gridò. “Tu rovini tutto. Non vogliamo vedere la tua faccia.”

“Non potevo farne a meno. Mi ci ha costretto lui. Non potevo farne a meno. È colpa sua.”

Rico, scuotendo la testa e camminando all’indietro, infine si girò e corse giù per il vicolo che riportava al West End, le falde delle sue calosce che sbattevano sordamente contro i suoi stinchi.

Nella neve che cadeva lentamente guardammo la sua giacca di pelle nera che recedeva nella distanza. Non c’erano violini che suonavano. Né cimbali di risonante vittoria che cozzavano. C’era solo un vago senso che stavamo recitando momenti importanti della nostra vita in totale anonimità.

 

 

* Growing Up with the Movies è un estratto della prima versione di una scena del romanzo Black Blood. Pubblicato in “The Anthology of Italian-Canadian Writing”. Edited by Joseph Pivato. Toronto: Guernica, 1998, pgg. 260-270, viene qui riprodotto per gentile autorizzazione dell’autore e dell’editore.

 

 

 

BIBLIOGRAFIA di J. PIVATO

 

Novels:

 

The Italians. Ottawa: Oberon Press, 1978. New American Library, 1980.

Black Madonna. Ottawa: Oberon Press, 1982.

The Father. Ottawa: Oberon Press, 1984.

La Famille Gaetano. Trans. The Italians by Robert Paquin. Montreal: Guernica, 1990.

Black Blood. Ottawa: Oberon Press, 1991.

Under the Bridge. Ottawa: Oberon Press, 1992.

Sex and Character. Ottawa: Oberon Press, 1993.

The Rooming-House. Ottawa: Oberon Press, 1996.

Icelands. Ottawa: Oberon Press, 1999.

Italian Shoes. Toronto: Guernica, 2002.

Losers. Ottawa: Oberon, 2002.

Hard Edge. Toronto: Guernica, 2005

 

Short Stories:

 

"Chapter 12" in Italian Canadian Voices. ed. Caroline Morgan Di Giovanni. Oakville: Mosaic Press. 1984.

"The Stone Garden," in Other Solitudes: Canadian Multicultural Fictions. eds. Linda Hutcheon & Marion Richmond. Toronto: Oxford U. P., 1990.

"From Black Madonna," in Making a Difference: Canadian Multicultural Literature. ed. Smaro Kamboureli. Toronto: Oxford U. P., 1996.

"Growing Up with the Movies," in The Anthology of Italian-Canadian Writing. ed. J. Pivato. Toronto: Guernica Editions, 1998.

"In Italy," The Toronto Review of Contemporary Writing Abroad. 16, 3 (1998).

 

Essays and Interviews:

 

"Tasks of the Canadian Novelist Writing on Immigrant Themes," in Contrasts: Comparative Essays on Italian-Canadian Writing. ed. J. Pivato. Montreal: Guernica Editions, 1985.

"An Interview with Frank Paci," by C.D. Minni. Canadian Literature 106 (1985).

"Interview with F.G. Paci," by J. Pivato in Other Solitudes. Op. cit.

 

Essay on Frank Paci:

 

Bonanno, Giovanni. "The Search for Identity: An Analysis of Frank Paci's Novels," in Canada: The verbal Creation. ed. Alfredo Rizzardi. Abano Terme: Piovan Ed. 1985.

Morgan Di Giovanni, Caroline. "The Image of Women in Italian Canadian Writing," Italian Canadiana, 11 (1995).

Pivato, Joseph. "Hating the Self: John Marlyn and Frank Paci," in Echo: Essays on Other Literatures. Toronto: Guernica Editions, 1994.

Sciff Zamaro, Roberta. "Black Madonna: A search for the Great Mother," in Contrasts: Comparative Essays on Italian-Canadian Writing. Montreal: Guernica, 1985 and 1990.

Tuzi, Marino. " Provisionality, Multiplicity, and the Ironies of Identity in Black Madonna" in The Power of Allegiances. Toronto: Guernica, 1997.

Waxman, Martin. "The Discipline of Discovery," Books In Canada XXIII, 8 (Nov. 1994).

 

Theses:

 

Canton, Licia. The Question of Identity in Italian-Canadian Fiction. Ph.D. Etudes Anglaises, Université de Montréal, 1998.

Tuzi, Marino. Identity, Multiplicity and Representational Strategies in Italian-Canadian Fiction. Ph.D. English Literature. York University, Toronto. 1995.

 

1 gennaio 2006

 

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