Tra due rive sconosciute e distanti: Frammenti di relazione personale con la trilogia

Lives of the Saints di Nino Ricci*

 

di Gabriel Niccoli

 

Se questa breve considerazione sulla mia personale relazione con Lives of the Saints di Nino Ricci, o per meglio dire con tutta la sua trilogia migratoria, deve avere un inizio, una sorta di incipit misterioso i cui tratti apparentemente immutabili ascrivono significazione e identità sia al testo che a questo lettore privilegiato, allora questo inizio, che in se stesso può essere considerato una fine, ha luogo in un freddo e fosco giorno nella seconda metà di marzo del 1961, sulle distese immense dell’Atlantico. Avevo solo quindici anni quando attraversai quel mitico mare che adesso, nei frammenti della memoria mi appare al tempo stesso reale e immaginario, un viaggio oceanico straripante di tutte le sue metonimiche filiazioni, come un palinsesto atavico le cui ombre ritualizzate richiamano spiriti logori del passato per difendere il richiamo di codici oracolari da tempo perduti.  Eppure, questo viaggio migratorio classicamente consacrato rimane per me una sorta di sfera liquida, l’unico segno ondeggiante che meglio controlla la lettura di entrambi i testi, quello di Ricci e quello della mia stessa vita, guidando la mia nave Saturnia, nel contempo reale e immaginaria, verso una meta che mi appare distante e ignota, sebbene propizia; verso la ricerca di un senso apparentemente stabile, rassicurante, e duraturo.

Sono stato educato ad essere conforme alla nozione che una teoria critica valida,  scientifica, deve attenersi a schemi rigorosi per poter confermare i costrutti puramente retorici del testo letterario, un testo governato dalla propria struttura di leggi interne che sembrano a loro volta quasi generate per escludere ogni relazione che la letteratura possa avere con la vita, ruotando come fanno sulle loro puntellature testuali e intertestuali. E in questo caso non mi sento di essere un critico letterario; piuttosto, un criticastro nella migliore delle ipotesi, un devoto dilettante la cui lettura discorsiva riduce alquanto la tessitura tecnico/letteraria dei vari livelli di significato del testo, e il cui conseguente goticismo smentisce gli assiomi di un fondante post-modernismo.  Accostandomi al testo di Ricci, ripeto, non da critico letterario ma da persona impegnata in considerazioni non-testuali, da lettore, quale sono, le cui premesse, basi e digressioni non sono altro che reliquie frammentarie della propria personale esperienza migratoria, mi illudo di sentirmi autorizzato a portare Lives of the Saints fuori dal suo discorso inter-refenziale, fuori dalla sfera dei significati molteplici suggeriti dalla sua costante allusione ad altre correnti, tradizioni e lavori per farlo parlare con me, collocandolo dunque sulla scia del testo della mia stessa vita. Come i ricordi di Nabokov, come la conversione di Claudel, come l’egoistica ermeneutica del Dante de La Vita Nuova. Una sorta di lettura naïf, senza scetticismo né vigilanza da parte mia, una rilettura, se preferite, di realtà vissute e immaginate senza alcuna utilizzazione teoretica o pratica al di fuori del proprio costrutto. La voce di Vittorio da eco alla mia voce, il suo silenzio austero articola il mio, dato che per un arcano volere del fato entrambi attraversiamo l’Atlantico nello stesso istante, sulla stessa nave, la Saturnia, ed è difficile per me distinguere le parti vere da quelle immaginarie.

La mia relazione con Lives of the Saints comincia allora, alquanto canonicamente, in media res o, volendone mappare una collocazione, nel mezzo del vasto oceano migratorio, come menzionato. Un locus centrale liquefatto che mette in scena l’instabile stato di sospensione che al tempo stesso connette e disconnette, illumina e rende buie entrambe le rive, quella dell’adolescenza e quella della maturità.  Attraverso l’oceano sul mio vascello saturniano, e mi capita, adesso che mi spingo verso ponente, di seguire semplicemente le orme di precedenti generazioni di marinai emigranti, ricollocando il loro destino di viaggio ed incollandolo al mio. Il mio vascello, mentre a stento mi muovo sulle acque dense e tenebrose di una memoria fatta di frammenti, è la grande nave di emigranti che gettò l’ancora sotto gli occhi grondandi del Vesuvio, gigante antico e sonniloquente, e portò con sé il solito carico umano di sogni irrealizzati e di rinnovate speranze, di vecchi bauli marroni e blu pieni di lini bianchi, raffinati, e di foto scadenti in bianco e nero dei propri cari lasciati a riva, e ogni macchia e sbavatura su di esse a testimoniare scorci di penosa memoria. Ricordi di emigrati che, come un testamento, diventano operativi nel momento in cui la barca della vita di ognuno è pronta a navigare, come se il vascello, privo ormai di ogni porto, fosse in qualche modo, da quel momento in poi, destinato a navigare soltanto in un oceano di oblio. Spinto da un vento ribelle di una memoria sconnessa e da un’aura di solenne tristezza che solo le navi possono ascrivere alla vita di un emigrato, la mia grande imbarcazione marittima solca l’abisso e porta a bordo, come già detto, un ragazzo più giovane di me di circa sette anni il cui nome è Vittorio Innocente. Arte e vita, storia e finzione si mescolano e ancora una volta non mi è facile distinguere con certezza l’una dall’altra.

Un malinconico quindicenne dalla voce pacata proveniente da un paesino desolato della Calabria, uno di quei paesi del profondo sud anonimi e abbandonati, conosciuto negli studi sull’emigrazione come uno di quei luoghi trasmittenti o da commiato, un villaggio arcanamente simile alla Valle del Sole, insieme ad una madre perennemente in lutto, con la sua andatura dignitosa e mesta, con la quale attraverso anch’io l’Atlantico per raggiungere mio padre, in realtà un estraneo ma che amavo però profondamente. Sin dalla metà del diciannovesimo secolo i progenitori di entrambi mia madre e mio padre avevano attraversato l’oceano in cerca dell’agognata vita migliore. I miei bisnonni erano ritornati in paese giusto in tempo per occupare la tomba costruita da poco, orgogliosamente decombenti, sotto la pietra tombale ad ornamenti Rococo, ricompensa dei loro sacrifici in Canada e dei loro guadagni, cadaveri d’argilla ormai e per sempre parte della propria terra, titolari della topografia sepolcrale del loro paese. Gravati da anni di fatiche e solitudine, avevano affrontato il pesante fardello del lungo viaggio di ritorno via mare, l’unico ed ultimo, per poter spendere gli ultimi momenti della loro vita con i cari da tempo perduti, non più riconoscibili né, in verità, comprensibili gli uni agli altri. Non avevano mai perduto la loro fede, avevano vissuto i loro rituali ed erano ritornati a casa nonostante Dante, molti secoli prima, avesse distrutto in modo persuasivo il mito della valenza regolatoria del ritorno ad Itaca, il canonico viaggio verso casa. Nel Novecento il mio nonno materno aveva scolpito la sua tomba nelle miniere di carbone della British Columbia, mentre il nonno paterno aveva sfidato le vette del monte Revelstoke, era tornato a casa per combattere una guerra priva di senso per poi ritrincerarsi sotto l’ombra rassicurante delle Rocky Mountains, lasciando un neonato nel vecchio, decrepito paese calabro come pegno a testimonianza della sua ultima presenza in quel posto. Avevano entrambi riletto le antiche fiamme vaganti della maledetta bolgia dantesca, avevano negoziato ancora una volta il loro destino con i loro defunti precursori, preparandoci così la strada, antichi profeti del divenire di mio padre e del mio stesso divenire. Questa breve narrazione sull’emigrazione della mia famiglia, che lascia dietro di sé le gesta eroiche e la triste sventura delle donne senza volto, coperte di un manto nero come siluette in perenne lutto, costituisce una parte fondamentale del mio senso di connessione con Lives of the Saints di Ricci.  È l’aspetto che ogni emigrante del sud d’Italia istintivamente richiama alla mente nel momento in cui la storia oltrepassa i suoi confini e li sovrappone alla letteratura. Per me personalmente rappresenta la falsariga del testo di Ricci, la trama sottile che ondeggia attraverso il linguaggio della trilogia colorandone le parole e conferendo loro sostanza e vita, come il tratto duraturo e luminoso dei pigmenti bianchi verso il punto di trasformazione in miracolo degli affreschi del Masaccio. Ma è anche di più. Il racconto di famiglia, la storia non raccontata delle solitudini dell’emigrante costituiscono ciò che sanguifica il nuovo mondo, la nuova vita.  Ruscelli di sangue scorrono attraverso la trilogia di Ricci, dal primordiale morso del serpente nella mangiatoia alla prima morte di Vittorio nella cabina della nave, nel letto con sua madre morta, Cristina, il di lui corpo già putrefatto sul fondale, tra le lenzuola incestuose macchiate di sangue e di peccato, alla seconda morte... in un antro, in una  vasca calda e buia. E poi – Acqua, acqua dappertutto, rimarca Cristina - dall’oceano all’«annegamento» del padre nel laghetto per l’irrigazione, alla vasca/fonte  semibattesimale alla fine della trilogia.  Sangue e acqua, come se il testo stesso fosse scritto da loro, consacrato da loro. Ma è il sangue, in entrambi i sensi, letterale e figurato, il  vascello reale, il crismale che conferisce identità al testo migratorio, conferendogli nel contempo un forte senso di stabilità.  È il sangue lo strumento primitivo che registra la condizione errante dell’umanità, che vi inietta la profezia della redenzione, visto che il linguaggio per riesce solo ad oscurare nella misura in cui rivela, come confida Ricci nell’epilogo della trilogia, un linguaggio sempre a rischio di staccarsi dai margini della pagina. Una redenzione di sangue che le poppe volgerà u’ son le prore, come asserisce il divino poeta.  Le restrizioni della lingua, e particolarmente della lingua bizzarra degli emigrati, sono le espressioni silenti che, come le toccanti assenze musicali tra le note, Ricci magistralmente compone attraverso la trilogia, note leggiadre di una melodia distante che mi lega evocativamente al testo. Questo mormorio testuale costituisce il ritmo oceanico primordiale della Saturnia nel suo intreccio del mito con la storia, riproducendo da prua a poppa il suo flusso narrativo di viaggio sulle righe dell’oceano. Questi silenzi gotici e profondamente distanti sono i veri modi di parlare degli emigranti, eloquenti nel loro codice primitivo, sobri nella loro reale mancanza di articolazioni linguistiche appropriate. Come gli esseri umani a metà di un milione di anni fa di cui parla Ricci, si esprimono senza il supporto di un linguaggio adeguato.  È per molti versi il vagare delle interconnessioni dei miei ricordi.

Ritornando al mio stato di sospensione nel mezzo dell’oceano Atlantico verso la fine di marzo del 1961, sulla mia nave Saturnia, mi trovo inesorabilmente nell’intreccio delle onde che fanno eco al viaggio della mia vita, e dell’ermeneutica propria del testo, senza volerlo, in questo tumulto misterioso, criptico, del passaggio e della trasfigurazione, e da prua a poppa gioco con entrambe le rive, dimenandomi per confinare me stesso nel presente unico momento che ha senso, con entrambe le sponde che rivendicano una parte di me; eppure entrambe risentono del mio stato di sospensione. Così da prua a poppa le afferro, prima l’una poi l’altra. Da un meridiano fenomenologico, nel tempo della nave, se si vuole, la Saturnia è ancora una volta il mio presente stato di consapevolezza, il locus privilegiato donde i ricordi, entrambi italiani e canadesi, sono rievocati da entrambe le sponde, rapidamente organizzati e precipitosamente attribuiti al loro conseguente significato reale o fittizio. Uscendo da me stesso per un istante per imitare il teorico letterario o lo storico d’arte, come San Bartolomeo nella sua morbosa analisi decostruttiva sulla pelle appesa di Michelangelo nel Giudizio Universale, ho la sensazione che è qui che entra decisamente in gioco il concetto di Derrida della scrittura orfana (come la condizione di Vittorio sulla nave) così come le sue pieghe decostruttive di differance, ricordandoci l’incapacità da parte della scrittura di dispiegare in modo corretto le pagine dei ricordi, affidandosi piuttosto alla innata relazione con lo spazio e il tempo. Allora, ripeto, io ritorno ad avere quindici anni, Vittorio otto. A quell’età ero troppo grande per legarmi a lui in amicizia, eppure i nostri passi si incrociarono più di una volta sull’immenso piroscafo. Come in un frammento di sogno, ricordo di averlo una volta guardato a lungo, come se si trovasse dall’altra parte dello specchio di un’antica credenza di famiglia che mia madre aveva lasciato in paese, nella casa abbandonata.  Lo avevo fissato mentre camminava sul ponte con sua madre, una donna incinta dai capelli lunghi e neri e con un portamento in qualche modo ordinario, tipico delle contadine mondane di media cultura, mentre un’ombra sannitica di un’audacia ferocemente combattiva ne misurava il passo deciso.

Avevo fatto un paio di nuove amicizie, più o meno della mia età, uno di loro, Corrado, ancora prima dell’imbarco, nel vecchio albergo buio e indistinto di Napoli dove eravamo arrivati in treno la notte prima della partenza. Era originario di un altro paesino della Calabria, San Luca, e si dirigeva a Port Arthur con sua  madre per raggiungere il padre, operaio di ferrovia, del quale aveva sentito parlare più dai suoi concittadini che dalla sua stessa madre. L’altra era una ragazza di nome Isabella, una signorina lucana, di Valsinni, molto attraente per la sua età, diretta a Kapuskasing, un truce esercizio di pronuncia inglese per noi tre, dove lavorava suo padre, un padre mai conosciuto (il genere troppo comune a tutti del pater noster qui es in canada), se non nel ricordo confuso di una fotografia senza cornice e semistrappata che sua madre conservava semplicemente appuntata, in alto, su una delle pareti fredde e umide della cucina, vicino al Sacro Cuore di Gesù, entrambe le foto illustranti macchie di acqua, come se la pioggia le avesse bagnate, o forse le lacrime, il tipo di segno che spesso faceva gridare al miracolo questa povera gente del sud, in assenza di qualsiasi altro tipo di divertimento che potesse alleviare la loro spiacevole condizione.  Anche Isabella era accompagnata da sua madre, una figura piccola e triste di donna la cui somiglianza all’Addolorata, la madre piena di dolore delle processioni del mio paese, era davvero sorprendente. Noi tre formavamo una sorta di trinità profana, io e Corrado adolescentemente e segretamente desiderosi del sorriso virgineo della nostra sirena Isabella, entrambi disperatamente persi nella dolcezza della sua voce che ci ammaliava con quel saluto singolarmente meridionale di santità velata di erotismo. Viaggiavamo dunque sul mare profondo e aperto dell’Atlantico, ignari del simbolismo strutturale del nostro viaggio, inconsapevoli del nostro viaggiare entro i confini narratologici di un macrotesto, ansiosi di raggiungere con la nostra amata Isabella quello che adesso so per certo essere il leggendario Pier 21 in Halifax ma che per noi allora era solo una riva sconosciuta e distante che, a causa della completa mancanza di conoscenza della lingua inglese, eloquentemente e innocentemente pronunciavamo Ali fucks.

Rileggendo la trilogia di Ricci mi trovo, molto similmente a Vittorio, a riorganizzare i miei cimeli, segni preziosi della mia vita-testo, nel libro dei ricordi, affrontando un pullulare di fantasmi provenienti dal mio passato biculturale. Collocando me stesso sul solarium della mia Saturnia come un evento reale (passato) e immaginario (presente), come se stessi interpretando in limine, sono in grado di isolare i segni del testo come fantasmi personali e di organizzarli in una struttura di mise-en-abyme, in una incessante rotazione recedente che pertanto snoda le sue catene, come in una sorta di dialogo speculare che riflette i frammenti della mia stessa vita.  Attraverso una rilettura di Ricci prendo coscienza dell’essenzialmente imperfetta, sebbene vitale, connessione tra  nave e oceano, tra scrittura e lettura, tra partenza e arrivo. Mi sembrano tutte come delle porte girevoli. Sono qui, corpo e segno, soma e sema, sul vascello della mia stessa pagina, e ancora vago da prua a poppa, da ponente a levante, da un’estremità all’altra, registrando eventi tra due sponde distanti e sconosciute. A volte il pensiero della grande nave che traccia le linee del mio destino da emigrante mi fa sentire un senso di peculiare sconforto, come accade ora, quando la lingua viene meno e sono in piedi, solo, appoggiato alla ringhiera della nave, intento a fissare il vuoto dell’oceano senza fine. Sento e temo perché probabilmente la mia nave non è grande, al contrario è una piccola barca sconvolta da venti di tempesta, che si volge verso il naufragio e l’oblio.  Sento che l’immensa estensione del grande colosso blu, la mia Saturnia, sta per svanire rapidamente come una nave di morte, ridotta alla sua essenza, come la mia anima disciolta nel vortice del proprio dolore, fino al mero, minimalistico cinerario di un’urna antica, come se prua e poppa, nel loro stato di sospensione, si fossero congiunte in una, oscurando con ciò l’autentico margine del linguaggio.  E così nessun sale di ispirazione irrora la mia pelle, in questa oceanica poetica di citazione.  Improvvisamente però onde di evocazioni sepolcrali raggiungono in fretta la mente dopo decadi di silenzio; una grande tomba oceanica apre le sue oscure e voraciche gole inghiottendo il corpo di una madre.  Ora  ricordo tutto vividamente. Corrado era troppo pauroso per esserne testimone, ma io ed Isabella ci svegliammo presto quella chiara e fredda mattina di fine marzo. Ci incontrammo sul quarto di ponte che dava sulla poppa, e mi accolse ancora una volta quel familiare senso di sconforto, che come un’onda cavernosa si scagliava contro di me, mentre il sole si spostava lentamente sul mare immobile.  Avevamo avuto sentore della sepoltura in mare la notte precedente da un marinaio di coperta che avevamo conosciuto e che, sebbene più grande di noi, era stato ench’egli abbagliato dagli occhi luminosi di Isabella, come se la ragazza fosse l’autentica incarnazione della stella maris che lui aveva sempre desiderato vedere in tutti questi anni sul mare.  Io ed Isabella avevamo entrambi paura di assistere al macabro evento. Eppure la curiosità si impadronì di noi. Eravamo curiosi e impauriti, come quando insieme, un paio di giorni prima, stavamo leggendo, poco prima della grande tempesta, una storia magistralmente intessuta su un giovane uomo che con l’età aveva imparato a scoprire se stesso, come se noi stessimo leggendo e scoprendo noi stessi e la forza della narrazione ci avesse semplicemente sospinto, spingendoci dentro al corpo e al sangue stessi del testo. Una sorta di testuale apoteosi  transustanziale del Corpus Christi. Sembrò allora che la luce o la luce dei nostri sensi, come ogni cosa, fosse diventata buia, e da quel giorno non leggemmo più. Ma quella fatidica mattina rimanemmo lì, inosservati, come se non ci fossimo affatto, appoggiati alla ringhiera, appollaiati sulla poppa, anfiteatro lugubre, circondati dall’immensità dell’oceano, le cui onde silenziose erano pronte ad emergere e inghiottire tutti noi, a comando del fato. Tra i frammenti di cose accadute una quarantina di anni fa, ricordo, come in un sogno a lungo sognato e tinto di quel curioso senso di disperazione, la sacca completamente coperta di un corpo che scivola in mare decorato in fretta e miseramente con il tricolore.  Ma come nell’epilogo di un sogno, quando ci si sveglia un attimo prima dell’inevitabile, non riesco a ricordare il tonfo del corpo morto della madre di Vittorio mentre colpisce la superficie delle acque.  Quell’immagine è forse troppo triste, cupa, da poter essere trattenuta nella memoria.  O forse la poppa enorme, alta, della Saturnia con la sua barriera imponente e con il suo parziale baluardo offuscarono entrambi, il suono e lo sguardo.  Forse l’immagine si è dissolta nel testo-vita di santa Cristina il cui corpo, sul punto di colpire le acque, fu visto librarsi sulla superficie del mare come un’ombra, prima di essere condotto in paradiso.

Similmente a Vittorio, avevo dovuto leggere le narrazioni esortative e rivestite di colore delle Massime eterne e del codice Vite dei Santi (entrambi i tomi debitamente canonizzati dagli imprimatur e nihil obstat dell’epoca che aggiungevano valore e significato).  Da bambino, nel mio vecchio paese, la mia vita quotidiana era vissuta nell’aureola di un realismo magico di stampo meridionale, una sorta di confusione crepuscolare dove santi e peccatori si mescolavano, spesso giocando una vivace partita a scopa o a briscola, e dove madonne e serpenti condividevano lo stesso terrirorio. Come Vittorio, che ascolta i devoti portatori della sua Valle del Sole che sperano che la Vergine Maria  non rimanga incinta, altrimenti loro devono portare un peso in più, anch’io ho udito storie sulla velata annunciazione del mio omonimo Gabriele, e che forse la sua sia stata ancor di più la visitazione di un amante.  Non potevo immaginare, da bambino negli anni cinquanta, che secoli prima, nel tardo Quattrocento, sotto l’autentica generosità di un nobile celebre ed edonistico, letture comunemente dannose come queste venivano in realtà rappresentate nei monasteri e in altri spazi di cifratura cattolica per meglio educare e perciò ridirigere la gioventù italiana di allora tra le braccia di Madre Chiesa.  L’eresia e l’ortodossia si mescolavano nei nostri paesi e nessuno batteva ciglio. Dopotutto noi italiani avevamo innalzato l’arte ad un grado supremo attraverso la mera sintesi di Cristianesimo e paganesimo.  Proprio come Vittorio, sono cresciuto in un villaggio perso nel tempo, dove i pomeriggi d’estate foschi, sonnolenti, cadenzati ritmicamente dal suono delle cicale, spesso cedevano ad un’indolente preghiera contaminata da tentazioni viscidamente devianti. Un paese in cui preti e prostitute spesso guidavano le processioni della festa dell’Immacolata Concezione, una reintroduzione ambulante della sacra rappresentazione medievale, un miscuglio curioso di spettacolo profano e primitivismo religioso dove ognuno era allo stesso momento spettatore e attore e dove ognuno istintivamente catturava, come in un’iconografia bizantina, la valenza allegorica di ognuno, mentre ogni partecipante a turno dispiegava una particolare tipologia, una maschera tragicomica il cui canovaccio segreto, il cui rituale gesticolare, invocavano connessioni superstiziose con la Mater clementissima.  E così, mentre l’elevata Immacolata, Virgo prudentissima, benediceva noi tutti poveri figli banditi di Eva dal suo trono sollevato ed instabile, e mentre l’impura in basso batteva con umili preghiere e salmi, autentica apoteosi della diffusa Santa Maria Maddalena, il curato buono e virtuoso si impegnava a bagnare tutti noi con il suo aspersorio, con le sue contorsioni corporee curiosamente manierate, come a voler espiare i molti demoni, reali e immaginari, che affliggevano il paese.  Come nelle pagine del testo di Ricci, sono cresciuto in un paese in cui l’ossequiosa osservanza di riti di superstizione pagana era tanto importante quanto l’ortodossia religiosa, e dove la novena della Madonna entro le pareti spesse e affrescate della nostra Chiesa Madre gotico meridionale, serviva anche da luogo di incontro per riunioni clandestine, boccacciane e per conclavi devotamente diffamatori.  Eppure, entro queste rappresentazioni pagane del Cattolicesimo meridionale, dove gli occhi del male, i colori dei serpenti e i sermoni savonaroliani drammatizzati e personalizzati di orde di padri Nicola – ognuno a loro modo avanzi di costumi oraziani liberatori del delectare et monere – sono tanto persuasivi quanto l’ultima intercessione della Vergine, e dove la corretta decodificazione dei vari segni della vita è una necessità assoluta, lì ancora si trova un’oasi di un passato pastorale, un locus amenus dove l’anima cerca la sua consolazione.  È l’ode all’età dell’oro dell’anima che Vittorio canta inconsciamente sulla poppa deserta al calare della notte, un codice icario, una allegria sensuale che nel suo ritornello capriccioso del vola vola, perso com’è sullo sfondo di un cielo vago profondo bluastro, immerso nel mare, è irrevocabilmente destinato, anch’esso, alla discesa al fondo dell’oceano.

Guardando attraverso la circolare perfezione del mio oblò, del portello della cabina della mia nave, sopra le incommensurabili profondità di onde perenni, apparentemente silenziose, scorgo momemti di epifanie auto-referenziali, lessemi testuali e personali che indicano il desiderato porto metaforico per le navi di emigrati sospinte dalla tempesta di memorie metaletterarie. Ma il testo saturniano è un reliquiario di memorie, una galleggiante nave-vita felliniana che non raggiungerà mai la riva, che si nutre e si contiene in se stessa così com’è, come una mappa mundi medievale il cui mistico corpo crocifisso raggiunge il baratro, la barriera stessa della nave, oltre la quale il pellegrino emigrante rischia un naufragio letterale e allegorico, come quasi fece Vittorio nella furia della tempesta, le onde alte mostruosamente minaccianti di divorare la sua stessa anima. La mia Saturnia porta, insieme alla sua dignità e alla miseria umana, il sogno fosforescente di miti sacrali e cicliche valanghe di riti sacri, riti di passaggio subliminali. Nel crepuscolo di un giorno di sangue e acqua, strumenti metonimici e classici di antiche iscrizioni, essa porta ancora i restanti frammenti della mia memoria, cimeli sommersi di iridescenti riflessi. Un testo, en clair, come la vita stessa, rimane pur sempre una disequazione con una promessa di infinite soluzioni, lo sciogliersi di un nodo che non era mai stato stretto. E mentre i ricordi diventano ancora più frammentari, quasi inattendibili, la topografia del paese si ridisegna ancora, questa volta da una topografia di onomastica, una poetica di allusioni e tropi verbali che cercano di fornire un contatto più controllabile con la realtà passata.  Il paese dei parenti e degli amici di Cristina, Di Lucci, Luciano, zia Lucia (tutti indicatori di luce come evidenziato dalle qualità tonali dei loro nomi) fu un tempo capace di fornire modi interpretativi di una realtà percepita che aiutò a dare forma alla fantasia di Vittorio.  Ma col primo ritorno in paese, come col mio, il protagonista trova, e ne rimane costernato, che entrambi la lingua e il paesaggio sono cambiati talmente tanto che non si può più confermare la verità stabilita. E i portatori di lume di un’oscura età non possono più confermare le realtà vissute o immaginarie di un tempo passato. Lo stesso Fabrizio, l’amico fidato della giovinezza di Vittorio, un postino con una inclinazione per le conoscenze arcane, il portatore stesso della parola scritta, non può confermare quella verità, fabbricando invece per Vittorio una restituzione articolata di eventi passati come se venissero letti da un libro diverso. Un assurdo gioco sulla millenaria infanzia del linguaggio e l’indelebile linguaggio dell’infanzia, con la conseguente inabilità da parte di questo strumento volgare e povero di comunicazione di interpretare la realtà. La trama onirica della lingua nella trilogia, e specialmente il discorso metalinguistico sulle sue limitazioni in quanto alla corretta decodificazione del passato in Where She Has Gone offre una palinodia sottilmente velata, una ricorrente ritrattazione che è, secondo me, un supremo esempio delle coeve affinità tra lo stato dell’emigrante e lo stato del linguaggio che per sua natura è errante, migrante. Mentre questo motivo è antico forse quanto la prima iscrizione sulla sabbia o sulle pareti di qualche caverna, è chiaramente un motivo privilegiato nella cultura contemporanea canadese.  E ciò non dovrebbe sorprenderci, visto l’innato atteggiamento multiculturale e multilinguistico. Ma le correnti ondulanti di Ricci su questa sovrapposizione del linguaggio e sui suoi elementi strutturali sono così particolarmente armoniosi che, a mio avviso, non possono certo essere ignorati.  La trilogia è di per sé un trittico che aprendosi e chiudendosi in se stesso rivela esattamente nella misura in cui oscura.  A questo punto, per ragioni di brevità, possono essere richiamati solo due momenti chiave autoreferenziali,  momenti che io stesso ricordo dal mio primo ritorno in paese. Uno riguarda la convinzione che nel paese, quando Vittorio vi abitava, non ci fosse elettricità, che non ci fosse luce o ce ne fosse comunque poca; l’altro riguarda la sua sorpresa nel vedere una fotografia di se stesso con la madre scattata il mattino della sua partenza. Il lettore ricorda con Vittorio che quel mattino pieno di vento pioveva molto e che Di Lucci intendeva, infatti, scattare una foto dei due, per ricordo, disse. Eppure, non fu scattata alcuna foto nella rigida economia narrativa del ricordo e non vi è alcun segno, reale o finto, di pioggia nella fotografia, o almeno nessun segno che il lettore, d’accordo con Vittorio, possa decodificare correttamente, diversamente dalle lacrime miracolose, reali o immaginarie, che somigliavano a gocce di pioggia sui ritratti grossolanamente appuntati ai muri dei sacri cuori, madonne e santi nei paesi del meridione d’Italia. Eppure le ripercussioni di questa piovosa assenza si prolungheranno fino alla fine della trilogia, in quell’ultimo lucente bagliore della luna e i falò, dove la voce d’autore del Ricci si sente più intensamente e intimamente, dove si ha la sensazione dell’assenza di quegli spazi che popolano le architetture dipinte di Della Francesca.  Forse lo stesso Di Lucci, quel maldestro uomo di luce, sarebbe stato capace di fare un po’ di luce in merito, sebbene se ne possa dubitare, avendo testimoniato l’atto-memoria performativo da parte di entrambi zia Lucia e Luciano.

Forse la luce non proviene dalle cose ricordate o dimenticate ma semplicemente dal loro improvviso esserci, come ricorda Marta, apparentemente grossolana e ottusa, che misteriosamente evoca la donna dal volto mezzo coperto rivestito di nero di Giotto, e che bruscamente contempla la fotografia nella credenza che non mostra alcun segno di pioggia. Come evidenzia il formalista russo Bakhtin, l’attività estetica non è nient’altro che un atto di auto-espressione, un eterno istante di auto-rivelazione. Mentre guardo verso ovest, oltre la ringhiera della prua, il sole è appena tramontato, ma oltre la poppa il buio invadente sta per avvolgere la nave come le pieghe gotiche di un mantello scuro che nasconde il corpo del monaco benedettino sul pannello di legno senese. La notte calerà presto sulla mia Saturnia.  Come le mani esperte di un restauratore consumato, la notte presto cancellerà i graffi e la spellatura della vernice intorno alle sue gigantesche lettere bianche sulla enorme fiancata.  Ma prima che una nuova alba irrompa, rompendo i lacci della morte con la sua luce orientale iridescente, i cimeli della mia memoria seguiranno ancora di nascosto la nave che va alla deriva trasportando antichi fantasmi di un marinaio adolescente.  Un de profundis sacro, ancora timorosamente oscuro e arcano come quando lo recitavo sull’altare da ragazzo nelle messe funebri del mio paese, con Padre Petrone severamente attento alla mia pronuncia del latino, come se il requiem aeternam del povero defunto dipendesse interamente da essa, pervade adesso con il suo inscrutabile canto litanico entrambi la nave e l’immenso oceano come una nebbia fitta scura che avvolge l’ultima reliquia della mia mente, una preziosa rima ancora esistente. Come un cruciverbista, un fabbricatore di chiodi di parole eternamente in fuga, incapaci di trovare una nicchia stabile, cerco di afferrare questa reliquia elusiva per la intensità originaria della sua immagine spettrale, per recuperarla dai tentacoli mortali del buio, come se in essa fossero contenute le ultime vestigia di una finale parola crociata,  qualche elemento unico e finale che come una pergamena oracolare meglio dirige e controlla la mia connessione a Life of the Saints di Ricci, anzi alla sua intera trilogia, guidandomi in modo sicuro verso un significato del testo privilegiante. Ma come la lira di Vittorio, l’iconica moneta rotolata nell’oceano alla fine del libro, questo frammento salvifico della mia memoria da emigrante, questo antiquum documentum, anch’esso, si avvolge nel buio senza speranza prima di inclinarsi fatalmente verso lo steccato della mia Saturnia precipitando infine nel mare immobile.

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Narrami un sogno, raccontami la tua vita, Isabella poteva aver chiesto, come nell’epilogo di un viaggio, dalla piega chiaroscura del suo passato lucano, come se non decadi ma secoli di ricordi frammentari siano improvvisamente divenuti liquescenti entro i confini di una singola pagina, forse di una singola frase. Ed io avrei voluto dirle, come un inizio che è in sé una fine, che un giorno le scrissi una lettera ad un indirizzo in Kapuskasing, quasi illeggibile sul frammento irregolare di carta intestata sul quale l’avevo scarabocchiato – e che porta lo spettro scolorito di parte della poppa di una nave che lascia una scia - ancora venerato come le reliquie di un santo, l’illusione materiale di un sogno immateriale.  Ma come un boomerang, il sinuoso debole snodarsi di un serpente, nell’arco di pochi giorni la lettera fece ritorno, la busta mai aperta, con su scritto in cifre, misteriosamente: indirizzo sconosciuto.  Proprio così, come l’ultimo frammento vitale del libro dei ricordi, come il corpo di Cristina che scivola negli abissi senza rumore, non visto, proprio così Isabella svanì dalla mia vita-testo.  La voce di Isabella, la divina voce della mia sirena, non è più udibile attraverso i frammenti della mia memoria, e neppure quella di Corrado, né di Vittorio, sebbene il loro silenzio immobile echeggi ancora il mio, la loro danza spettrale a bordo della Saturnia, alla stesso tempo romanzata e reale, alimenta ancora la mia immaginazione. Ciò che ora sento chiaramente, come il finale risveglio da un sogno acrodolce di girevoli pieghe di pagine che bruciano, è la voce autorevole di Nino Ricci che stavolta severamente mi ricorda i gravi rischi che sto correndo sull’alto e aperto mare dell’Atlantico, nel mezzo dell’immenso oceano emigratorio, con tutte le sue metonimiche filiazioni, a bordo del piccolo vascello del mio intelletto.  Farei bene ad ascoltare la sua voce perchè, esperto artigiano della parola, insieme mi diletta e mi ammonisce, insieme offre salvezza e profetizza il naufragio nelle parole immortali di un altro errante testuario e supremo narratore del pericoloso viaggio dell’anima letteraria:

 

O voi che siete in piccioletta barca,

desiderosi di ascoltar, seguiti

dietro al mio legno che cantando varca,

 

tornate a riveder li vostri liti:

non vi mettete in pelago, ché forse,

perdendo me, rimarreste smarriti

 

(Paradiso 2,i-vi)

 

(Tradotto da Anna Ciardullo Villapiana)

 

Gabriel Niccoli ha conseguito un PhD in Letterature Comparate presso l’Università della British Columbia.  Dopo aver insegnato all’Università di Victoria e a quella di Washington è attualmente Professore Ordinario in Italianistica presso l’Università Cattolica di Waterloo e in Anglistica e Francesistica nei programmi post lauream dell’Università di Waterloo.  Si occupa maggiormente di letteratura comparata e delle scrittrici del Rinascimento.  Ha anche curato un volume di racconti di emigrati italiani in Canada.

 

* Ristampato dalla The New Quarterly: Canadian Writers & Writing, Numero 93, "The Writer Abroad," inverno 2005, (c) Gabriel Niccoli.

 

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Between two strange and distant shores:

Fragments of personal connectedness to Nino Ricci’s

Lives of the Saints trilogy*

 

By Gabriel Niccoli

 

Gabriel Niccoli, PhD in Comparative Literatures and professor of Italian and French Studies at St. Jerome’s University and the University of Waterloo, was one of the readers at the several events The New Quarterly staged as part of Waterloo Region’s One Book, One Community celebration of Nino Ricci’s Lives of the Saints. He framed his reading with a testimonial to the authenticity of the world the novel evokes, the world of Niccoli’s own childhood and adolescence. In the elegant essay that follows, he traces the convergent lines of critical insight, memory, and the imagination.

                                                            —Kim Jernigan, editor, The New Quarterly

 

 

If this brief account of my own personal connectedness to Nino Ricci’s Lives of the Saints, indeed to his entire migratory trilogy, has to have a beginning, a sort of mysterious rubrical incipit whose seemingly immutable features inscribe significance and identity both to the text and to this privileged reader, then that beginning, which is in itself an end, occurs on a misty cold day toward the end of March in the year 1961, on the high open seas of the Atlantic. I was only fifteen when I broached the crossing of the mythical seas, at once real and imagined now through the fragments of my memory, an oceanic journey replete with all its metonymic filiations, like an ancestral palimpsest whose ritualized shadings beckon spirits of old to preserve and recall some long lost oracular code. Yet, this classically anointed immigrant journey remains for me the liquid compass, the one undulating marker that best controls my reading, both of Ricci’s text and of my own life-text, guiding my very ship Saturnia, at once real and imagined, to what appears to me a distant and strange, yet friendly, shore; to a seemingly stable, reassuring, and enduring significance.

I was trained to conform to the notion that valid, scientific critical theory must always take rigorous steps to reaffirm the purely rhetorical construct of a literary text, a text governed by its own set of internal laws which seem in turn almost engendered to exclude literature’s relationship to the world, spinning as they do on their own textual and intertextual underpinnings. But in this case no critic am I; rather, a criticaster at best, a devout dilettante whose discursive double reading greatly reduces the technical/literary weaving of the various strands of significance of the text, and whose consequent gothicism disproves some of postmodernism’s founding axioms. Broaching Ricci’s text then not as a literary critic but as an engaged non-textuary, as a reader, that is, whose basic premises and digressions are but fragmented relics of his own personal migratory memory, I am licensed to take Lives of the Saints out of its inter-referential discourse, out of the sphere of multiple meanings suggested by its constant allusions to other currents, traditions, and works in order to make it speak to me, thus placing it in the wake of my own life-text, as Nabokov’s memory, as Claudel’s conversion, or as Dante’s self-serving hermeneutics in his Vita Nuova. A sort of naïf reading, as it were, with no skepticism or vigilance on my part; a re-reading, if you like, of lived and imagined reality with no theoretical or practical application outside of its own construct. Vittorio’s voice echoes mine, his sombre silences articulate mine, as in an uncanny twist of fate we are both crossing the Atlantic at exactly the same time in recorded history, on the same ship Saturnia, and it is difficult for me to say which part is real, which imagined.

My connectedness to Lives of the Saints begins then, quite canonically, in medias res or, wishing to map it, in the middle of the great immigrant ocean, as mentioned. A middle liquefying locus which stages the unstable state of suspension that at once connects and disconnects, illumines and obscures both shores, of adolescence and maturity. I cross the ocean on my Saturnian vessel, and it occurs to me, now as I wester, that I am merely following in the footsteps of previous generations of immigrant mariners, remapping their journey’s fate and pasting it unto mine. My seafaring vessel, as I wade through the dense murky waters of a fragmented memory, is the great immigrant ship that pulled anchor under the drooping eye of that ancient somniloquent giant Vesuvius, carrying with it its usual human cargo of unfulfilled dreams and renewed hopes, of ancient blue and brown immigrant trunks filled with fine white linen, and of cheap blotted black and white photographs of the loved ones left ashore, each blot or smear as if initiating sorrowful lapses of memory. Immigrant memories that, like a will, become operative the moment the ship of one’s life sets sail, as if the harbourless vessel were somehow henceforth destined to navigate solely on an ocean of oblivion. Propelled by the unruly winds of a disjointed memory and by the aura of a solemnly forlorn meaning that perhaps only ships can ascribe to an immigrant’s life, my large seafaring vessel is etching the deep, also carrying aboard, as stated, a little boy some seven years younger than me, and whose name is Vittorio Innocente. Art and life, history and fiction mingle and, again, it is not easy for me to say with any certainty which is which.

A soft-spoken, fifteen-year old melancholian from a desolate village in Calabria, in the deep south, one of those faceless villages known as sending towns in immigration studies, a village eerily similar to Valle del Sole, along with my perennially black vested mother, quasi funereal in her dignified gait, I cross the Atlantic in order to join my father, a stranger really but one whom I loved dearly. Since the middle of the nineteenth century both my father’s and mother’s ancestors had crossed this very ocean in search of a much sung better life. My great grandparents had returned to the village just in time to inhabit their freshly minted graves, proudly decumbent under the ornately Rococo tombstones their Canadian sacrificial earnings had provided, clay cadavers forever now part of the landscape’s titular topography and the village’s sepulchral tropography. Laden with years of toil and solitude, they had braved the burdens of the long return oceanic voyage, their sole and final one, in order to spend their last waking hours with their long lost darling ones, no longer recognizable, nor indeed comprehensible to each other. They had kept their faith, had lived their rituals, and had returned home, even though centuries earlier Dante had persuasively debunked the regulating valence of the return to Ithaca, the canonical homebound voyage. In the twentieth century my maternal grandfather had carved his grave within the coal mines of British Columbia, while my paternal one had challenged the peaks of Mt. Revelstoke, had returned home to fight a meaningless war, and had then quickly retrenched under the reassuring shadows of the Rocky Mountains, leaving a new baby in the old decrepit Italian village as a token and testimonial of his final presence there. They had both re-read the ancient flame that burned in the maledict trenches of Dante’s malebolge, had negotiated with their dead and had prepared the way, ancient prophets of my father’s and my own becoming. This bit of immigrant family narrative, which leaves behind the heroic deeds and the plaintive plight of the faceless women in black left behind, is a fundamental part of my sense of connectedness to Ricci’s Lives of the Saints. It is the part that any immigrant from the Italian south instinctively recalls the moment history oversteps its bounds, overlapping with literature. It is for me personally the falsariga of Ricci’s text, the subtle fabric that weaves through the trilogy’s language, colouring the words and giving them sustenance and life, like the enduring and enlightening trait of white pigment to the transformative point in Masaccio’s frescoed miracle. But it is also more. The family narrative, the untold tale of immigrant solitudes, is the sanguification of the new world, of a new life. Abundant streams of blood flow through Ricci’s trilogy, from the snake’s primeval bite in the stable to Vittorio’s first death in the ship’s cabin, in bed with his dead mother Cristina, his corpse already wasting away on the ocean floor, through the bloodied incestual linen, to his second death… in a cave, in a warm dark pool. And then water…water everywhere—Acqua, acqua, dappertutto, notes Cristina—from the ocean to the father’s “drowning” in the irrigation pond, to the quasi baptismal tub/fount at the end of the trilogy. Blood and water, as if the very text were written with them, consecrated by them. But it is blood, both in its literal and figurative sense, the true vessel, the chrismatory that ascribes identity to the migratory text, that gives it a sense of stability. It is blood the primitive tool that writes down the errant condition of humanity, that injects in it a prophecy of redemption, as language per se can only obscure as much as it reveals, as Ricci confides in the trilogy’s epilogue, always at risk of falling off the margins of the page. A bloody redemption that will turn the sterns to where the prows are now, le poppe volgerà u’ son le prore, as the divine poet asserts. The limitations of language, and of a strange immigrant language especially, are the silent utterances which, like the poignant musical absences between notes, Ricci masterfully plays on throughout the trilogy, distant melodic grace-notes that keep me evocatively connected to the text. These textual murmurs compose Saturnia’s primordial oceanic rhythm as it interweaves myth with history, engraving from stem to stern its flowing narrative of journey into the ocean. These gothic and deep distant silences are the immigrant’s true speech acts, eloquent in their primitive code, articulate in their very lack of proper articulation. Like Ricci’s half-humans of a million years ago, they speak without proper speech. And so it is with the stray interconnectedness of my memories.

Returning to my state of suspension in the middle of the Atlantic in late March of 1961, on my ship Saturnia, I find myself inexorably woven in the echoing ripples of my life’s journey, and of the text’s own hermeneutics, without wanting to, in this mysterious cryptic whirlwind of transference and transfiguration, and from stem to stern I play with both shores, struggling to confine myself to the unique self-present moment of meaning, both shores claiming a part of me; yet, both resenting my suspended state. Thus from stem to stern I reach them, first one, then the other. From a phenomenological meridian, on ship’s time, as it were, the Saturnia is once again my present state of awareness, the privileging locus whence memories, both Italian and Canadian, are recalled from both shores, hurriedly organized and hastily attributed to their real or fictive sequential meaning. Coming out of myself for an instant in order to mimic the literary theorist or art historian, as Saint Bartholomew in his morbidly deconstructive treatment of Michelangelo’s hanging skin in the last judgment, I sense that it is here that Derrida’s notions of writing as orphan (as Vittorio’s state on the ship), as well as his deconstructive folds of differance, come forcefully into play, reminding us of writing’s inability properly to unfold memory’s pages, relying instead on its innate relationship with space, and time. And so I am fifteen again, Vittorio eight. At that age I was really too old to befriend him, though our paths on the great immigrant ship had once or twice crossed. As in a fragment of a dream, I recall once gazing at him, as on the other side of an ancient family credenza mirror my mother had left behind in the old abandoned house in the village, as he walked on the promenade deck with his mother, a dark, long haired pregnant woman who carried herself with a certain nondescript pride, typical of the southern half-literate peasant mondaine, a Samnitic umbrage of fiercely heroic readiness measuring her stride.

  I had made a couple of new friends more or less my age, one of them, Corrado, even before we embarked, at the old indistinct albergo in Naples where we had arrived by train the night before our departure. He was from another Calabrian village called San Luca, and was going to Port Arthur with his mother to join his railroad gang father whom he had heard about more from his town folks than from his own mother. The other was a girl named Isabella, a precociously nubile Lucanian signorina from Valsinni whose destination was Kapuskasing, a forbidding exercise in English pronunciation for the three of us then, where her father worked, a father she had never seen (the all too common sort of pater noster qui es in canada), except in the blur of an unframed and half-ripped photograph her mother kept pinned inornately high on the cold and damp kitchen wall, next to the sacro cuore, the sacred heart of Jesus, both pictures showing darkly staining blotches of water on them, as if rain had sipped through them, or perhaps tears, the type of sign that often made those poor people of the south cry miracle, in the absence of any other type of entertainment that could alleviate their sorry plight. Isabella, too, was accompanied by her mother, a small dolorous looking figure of a woman whose resemblance to the Addolorata, the sorrowful mother of my town’s processions, was indeed startling. The three of us formed a sort of unholy trinity, as it were, Corrado and I pubescently and clandestinely lusting after the virginal laughter of our siren Isabella, both hopelessly lost in the sweetness of her voice beckoning us with that singularly southern salutation of veiled eroticized saintliness. And so we journeyed, on the high open seas of the Atlantic, unaware of the structural symbolism of our voyage, unaware of our journeying within the narratological confines of a macrotext, waiting to reach with our beloved Isabella what I now know to be the mythologized Pier 21 in Halifax, but what was for us then a distant and strange shore which we, in our complete lack of English, very fluently and quite innocently pronounced Ali fucks.

In re-reading Ricci’s trilogy I find myself, very much like Vittorio, reorganizing my cimelia, treasured markers of my life-text, in the book of my memory, confronting swarms of ghosts from my bicultural past. By locating myself on the solarium of my Saturnia as a real (past) and fictional (present) event, as if I were glossing in limine, I am able to isolate textual signals as personal phantoms and arrange them in mise-en-abyme structures, in an endlessly receding rotation, hence loosening their shackles, as in some sort of specular dialogue, mirroring fragments of my own life. As I re-read Ricci I become thus aware of the essentially flawed, yet vital, connection between ship and ocean, between writing and reading, and between leaving and arriving. They all seem to me like revolving doors. So here I am, body and sign, soma and sema, upon the vessel of my own page, and again from stem to stern I wander from west to east, from one margin to the other, recording events between two distant and strange shores. Yet, at times the thought of my great oceanic ship tracing the lines of the immigrant’s fate fills me with a peculiar sense of despair, as it does now, when language fails me and I stand alone at the ship’s rail, gazing out over endless sea. And I sense and fear that perhaps no great ship is mine; rather, a little bark buffeted by stormy winds, heading for shipwreck and oblivion, the immense length of the great blue hulk which was my Saturnia rapidly vanishing like a ship of death, reduced, like my soul melting away in the vortex of its distress, to the mere minimalistic cinerary inseity of an ancient urn, as if stem and stern had connived to be one in one. No salt of inspiration sprays against my skin, in this oceanic poetics of citation. Suddenly though, waves of sepulchral imagery rush to mind like a mind’s month over decades of silence, an oceanic great tomb opening up its dark voracious mouth, swallowing a mother’s corpse. Yes, of course, I remember it vividly now. Corrado was too faint-hearted to witness it, but Isabella and I awoke early that clear cold morning in late March. We met on the quarter-deck, overlooking the stern, and that familiar sense of despair rushed like a cavernous wave toward me again as the sun was just edging above a still sea. We had heard about the burial at sea the evening before from a deckhand we had befriended and who, though older, had also been dazzled by Isabella’s blazing eyes, as if she were the very incarnation of the ghostly stella maris he had always longed to see all these years at sea. Isabella and I were both afraid to view the macabre event. Yet, curiosity overtook us. Curious and afraid we were, as when together we were reading a couple of days earlier, during the great storm, a masterfully crafted story about a young man’s self-discovery and coming of age, as if we were reading and discovering ourselves, and the narrative force just carried us along, pulling us into the very body and blood of the text. A sort of textual Corpus Christi transubstantiative apotheosis. Then everything seemed to have gone black, either the light or the light of our senses, and that day we read no more. But that fateful morning we stood there, unnoticed, as if we were not there at all, leaning on the rails, perched above the stern funerary amphitheatre, surrounded by the immensity of the ocean, ready to swallow all of us at fate’s command. Amidst the fragments of things that happened some forty odd years ago, I do recall, as in a long dreamt dream forever tinged with that curious sense of despair, the canvas sack of a body poorly and hastily emblazoned with the tricolore sliding out to sea. But as in the epilogue of a dream, when the dreamer awakens just before the inevitable, I cannot recall the dead splash of Vittorio’s mother’s body striking the ocean’s surface. Perhaps that image is too darkly grim to recall. Or maybe the Saturnia’s massive, high stern, with its imposing taffrail and partial bulwark, effaced both sight and sound. Perhaps the image has dissolved into the life-text of Santa Cristina whose body, about to strike the water, was seen hovering above the surface of the sea like a shade, before being led up into the heavens.

  Similarly to Vittorio, I had had to read the exhortatory and colour-plated narratives of the Eternal Maxims and of the codex Lives of the Saints (both tomes duly canonized by the meaning-producing imprimaturs and nihil obstats of an earlier age) as a child, in my old village, and my everyday life was lived in a halo of a southern brand of magic realism, a kind of crepuscular daze where saints and sinners mingled, often playing a spirited card game of scopa or briscola, and where Madonnas and snakes did share a common ground. Like Vittorio, listening to his Valle del Sole’s devout processional bearers’ hopes that the Virgin Mary had better not get pregnant, else they wouldn’t be able to carry the extra weight, so did I hear stories of my namesake Gabriel’s veiled annunciation being perhaps more of a lover’s visitation. Little did I know as a child in the Fifties that centuries earlier, in the late Quattrocento, under the very munificence of a popular and hedonistic lord, popularly maleficent readings such as these were actually staged in monasteries and other Catholic-coded spaces in order better to educate and thus redirect the Italian youth of the day back into the arms of Mother Church. Heresy and orthodoxy mixed in our villages, and nobody blinked an eye. After all, we Italians had brought art to a supreme degree through the mere synthesis of paganism and Christianity. Just like Vittorio, I grew up in a village lost in time, where hazy somnolent summer afternoons, rhythmically cadenced to the cicada’s songs, often yielded to an indolent prayer tainted by viscidly twisting temptations. A village where priest and prostitute often headed the procession of the festa della Immacolata Concezione, the feast of the Immaculate Conception, an ambulant reenactment of a medieval sacra rappresentazione, a curious mix of profane spectacle and religious primitivism where everybody was at once both spectator and actor, and where everyone instinctively captured, as in Byzantine iconography, the allegorical valence of each, each participant in turn playing a particular typology, a tragicomic mask whose secret canovaccio, whose ritual gesturing invoked superstitious linkages to the Mater clementissima. And so as the exalted Immaculate One, Virgo prudentissima, blessed us all poor banished children of Eve from her raised unstable throne, and the maculate one trod in humble prayer and song, veritable apotheosis of the popularized Mary Magdalene, the good and virtuous curate busied himself in sprinkling all of us with his aspergillum, his bodily contortions  curiously mannered, as if to expiate the many demons, real and imagined, that afflicted the town. As in the pages of Ricci’s text, I grew up in a village where the obsequious observance of pagan superstitious rites was as important as religious orthodoxy, and where la Madonna’a novena within the thick-frescoed walls of our southern Gothic Chiesa Madre, our mother church, served also as a gathering for Boccaccian clandestine rendezvous and piously calumnious conclaves. Yet, within this pagan pageantry of southern Roman Catholicism where the evil eye, the colours of the snakes, and the dramatized and personalized Savonarolan sermons of hordes of Father Nicola’s—all in their way remnants of Horatian liberating modes of delectare et monere —are as potent as the Virgin’s latest intercession, and where the proper decoding of the various signposts of life is an absolute necessity, there still lies an oasis of pastoral yore, a locus amoenus where the soul seeks its solace. It is the beckoning of the sending shore. It is the ode to the soul’s golden age that Vittorio unconsciously sings on the deserted stern as night falls, an Icarian-coded sensual playfulness that in its whimsical vola vola flight, lost as it is against a vague deep bluish backdrop of sky immersed in the sea, is irrevocably bound, it too, to descend to the bottom of the ocean.

As I look through the circular perfection of my oblò, of the porthole in my ship’s cabin, above the fathomless depths of seemingly hushed unending waves, I see moments of self-referential epiphanies, textual and personal lexemes pointing to a desired metaphorical harbour for the storm-tossed immigrant ship of meta-literary memories. But the Saturnian text is a reliquary of memories, a floating Fellinian life-ship that will never touch shore, self-nourishing and self-contained as it is, like a medieval mappa mundi whose crucifixual mystical body reaches the precipice, the ship’s very rails, beyond which the immigrant pilgrim risks literal and allegorical shipwreck, as Vittorio almost did in the fury of the tempest, the tall waves monstrously menacing to devour his very soul. My Saturnia carries, along with its human dignity and misery, the phosphorescent dream of sacral myths and the cyclical stream of sacred rites, subliminal rites of passage. At the twilight of a day of blood and water, classic metonymic tools of primitive inscription, it carries still the remaining fragments of my memory, sunken relics of iridescent reflections. A text, en clair, as life itself, remains an inequation with a promise of infinite solutions, the untying of a knot that was never too tight. As memories become even more fragmented, almost unreliable, the village’s topography is mapped again, this time by the tropography of onomastics, a poetics of allusion and verbal tropes that attempts to provide a more verifiable contact with past reality. Cristina’s village relatives and friends, Di Lucci, Luciano, zia Lucia (all markers of light as evidenced by the tonal qualities of their names) were once able to provide interpretative modes of perceived reality that helped to shape Vittorio’s imagination. But upon his first return to the village, as with mine, the protagonist finds to his dismay that both language and landscape have changed to the point where they can no longer confirm the established truth. And the lamp carriers of a dark age can no longer confirm the lived or imagined reality of a time past. Fabrizio himself, Vittorio’s boyhood trusted friend, a postman with a penchant for arcane knowledge and the very carrier of the written word, cannot confirm that truth, fabricating instead for Vittorio an articulate rendering of past events as if it were read from a different book. The oneiric texture of language in the trilogy, and especially the metalinguistic discourse on its limitations to decode properly one’s past in Where she has gone, offer a thinly veiled palinode or revolving retraction which is, in my view, a supremely artistic example of the coetaneous affinities between the immigrant state and the state of language which is by its very nature errant, immigrant. While this motif is perhaps as ancient as the first inscription in some cave, it is clearly a privileged one in contemporary Canadian narrative. And not surprisingly, given our innately multicultural stance. But Ricci’s undulating ripples of this overlay of language and structural elements are in my view particularly harmonious, and cannot be ignored. The trilogy itself is a triptych which, opening unto and folding into itself, does truly reveal as much as it obscures. Two self-referential key moments only, for the sake of brevity, might be recalled here, moments that I myself recollect from my first return to the village. One is the conviction that there was no electricity, no light, or at least very little of it in the village when Vittorio lived there; the other, his surprise at seeing a photograph of himself with his mother taken the morning of his departure. We all remember with Vittorio that it had been raining heavily that windy morning and that Di Lucci had intended, in fact, to take a photograph of the two, per ricordo, for memory’s sake, as he had said. Yet, no picture is taken in the strict economy of memory’s narrative, and there is, in fact or fiction, no sign of rain in the photograph, at least none that the reader, along with Vittorio, can properly decode, unlike the imagined miraculous tears that resembled raindrops on the rudely wall-pinned portraits of sacred hearts, madonnas, and saints in the villages of southern Italy. Yet, the repercussions of this absence extend to the very end of the trilogy, in that glossing final glow where Ricci’s authorial voice is felt most poignantly and intimately, the feeling one has of the spatial absences that populate Della Francesca’s painted architecure. Perhaps Di Lucci himself, that bumbling man of light, would have been able to shed some light on the matter, although, having witnessed the performative memory-acts from both Aunt Lucia and Luciano, one rather doubts it.

Perhaps light comes not from things remembered or forgotten but simply from their suddenly being there, as the seemingly uncouth and slow-witted Marta, uncannily reminiscent of Giotto’s black-clad, half-faced woman, curtly contemplates with respect to the photograph in the kitchen curio cabinet that shows no sign of rain. As the Russian formalist Bakhtin points out, aesthetic activity is perhaps nothing more than an act of self-expression, an eternal instant of self-revelation. And as I look west, beyond the stem’s rails, the sun is only just setting. But beyond the stern the encroaching dark is about to envelop the ship, like the gothic folds of a darkly coloured cloak concealing the Benedictine body on the Sienese wood panel. Night will soon fall on my Saturnia. Like the expert hand of a consummate restorer, night will soon erase the cracked and peeling paint around its yard-high white letters on its huge flank. But before a new dawn breaks, breaking the snare of death with its iridescent eastern light, my memory’s relics will still haunt the ship, drifting ancient wraiths of an adolescent mariner. A numinous de profundis, still fearfully obscure and arcane as when I recited it as an altar boy in my village’s funeral masses, Father Petrone sternly attentive to my proper Latin pronunciation as if the poor dead one’s requiem aeternam depended wholly on it, permeates now with its inscrutable litaneutical chant both the ship and the endless ocean like the dense dark fog that envelops my mind’s last relic, a final fragment, a precious extant rhyme. Like a cruciverbalist, a nailer of words perpetually in fugue as if unable to find a stable niche, I try to seize this elusive relic by the primal intensity of its spectral image, to retrieve it from the deathly tentacles of the dark, as if in it were contained the last vestiges of a final crossword puzzle, some single ultimate factor that like an oracular scroll controls my connectedness to Ricci’s Lives of the Saints, indeed, to his entire trilogy, safely guiding me to a privileging significance of the text. But like Vittorio’s iconic one lira coin rolling into the ocean at book’s end, this saving fragment of my immigrant memory, this antiquum documentum, it too, reels hopelessly in the dark before tilting fatally toward the rails of my Saturnia, finally tumbling out into a dead sea.

 

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Narrami un sogno, raccontami la tua vita, tell me a dream, tell me about your life, Isabella might have asked, as in the epilogue of a journey, from the Lucanian chiaroscurant folds of her past, as if not decades but centuries of fragmented memories had suddenly turned liquescent within the confines of a single page, perhaps a single sentence. And I would have told her, as a beginning which is in itself an end, that I once wrote her a letter, to an almost illegible address in Kapuskasing, the irregular fragment of letterhead paper on which it had been scribbled—bearing the faded phantasm of part of a ship’s stern etching a line—still venerated like a saint’s relic, the material illusion of an immaterial dream. But like a boomerang, the sinuous limbless recoiling of a snake, within the time arch of a few days the letter had returned to me, its envelope never opened and bearing the cryptically-coded inscription: address unknown. Just like that, like the last vital fragment of memory’s book, like Cristina’s body sliding off into the abyss without a sound, unseen, just like that, Isabella had vanished from my life-text. Isabella’s voice, my saintly siren’s voice, is no longer audible now through the fragments of my memory, nor is Corrado’s, nor indeed Vittorio’s, though their still silences still echo mine, their spectral dancing aboard the Saturnia, at once fictional and real, still fuelling my imagination. What I do hear now clearly, as if finally awakening from a bittersweet dream of encircling folds of burning pages, is Nino Ricci’s authorial voice, this time sternly reminding me of the grave risks I’m taking on the high open seas of the Atlantic, in the midst of that great immigrant ocean, with all its metonymic filiations, aboard the little vessel of my intellect. I had best heed his voice for he is, yet again skilled craftsman of the word, at once delighting and admonishing me, at once offering salvation and prophesying shipwreck in the immortal words of another errant textuary and supreme narrator of the literary soul’s perilous journey:

 

            Ye weary mariners in your little barks,

            Rowed by desire to heed my ship’s own course

That weaves its luscious song into the deep,

Turn back to sense your shores yet once again,

And do not sail onto my open seas,

Lest, losing sight of me, you lose your senses.

 

                        (Paradiso 2, i-vi; transl. and ital. mine)

 

 

Gabriel Niccoli holds a PhD in Comparative Literature from the University of British Columbia.  He is Professor in Italian Studies at St. Jerome’s University and in the graduate programs of English and French literatures at the University of Waterloo.  He has published extensively on Italian and French Renaissance literature and on women’s writing.  He has also edited a volume on Italian Canadian immigration stories.

 

*Reprinted from The New Quarterly: Canadian Writers & Writing, Number 93, "The Writer Abroad," winter 2005 (c) Gabriel Niccoli.

 

 

LETTERATURA CANADESE 2

 

LETTERATURA CANADESE

 

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