Intervista a Melania Mazzucco

 

di Elettra Bedon e Licia Canton

 

Melania Mazzucco nasce a Roma nel 1966. Scrive narrativa, e anche per il cinema, per il teatro e per la radio. Ama viaggiare; il suo lavoro di scrittrice la porta spesso a passare lunghi periodi all’estero. I suoi lavori sono stati pubblicati in 21 lingue.

 

Nel 1996 pubblica il primo romanzo, Il bacio della Medusa, e – due anni dopo – il secondo, La camera di Baltus. Nel 2000 appare Lei così amata, nel 2003 Vita, e nel 2005 Un giorno perfetto.

Vita vince il Premio Strega del 2003, ed è segnalato dal Publisher’s Weekly come uno dei 10 migliori romanzi del 2005.

 

Nel 2007 Melania Mazzucco ha partecipato alla nona edizione del Festival Blue Metropolis a Montreal, dove ha presentato Elle, tant aimée (2006).

 

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Licia Canton: Ci può dare un'idea di una sua giornata tipica?

Melania Mazzucco: Non sono una persona molto abitudinaria. E non ho un rapporto da impiegata con i libri che scrivo. Cioè non ho un orario di lavoro fisso, né riti né manie particolari. Nei periodi in cui sto scrivendo, posso lavorare moltissime ore al computer, quasi senza accorgermene. Ma magari per un anno intero mi dedico alla fase di documentazione, lavoro in archivio o in biblioteca, e non scrivo nemmeno una riga. Oppure parto per un lungo viaggio, per ricaricare le batterie, e dimenticarmi per un po’ dei libri, dei romanzi, dei personaggi…

 

LC: Secondo Melania Mazzucco, cos'è la cosa più bella nello scrivere?

MM: La cosa bella è proprio scrivere. Stare davanti allo schermo, e far esistere qualcosa che non c’è. Una casa che non esiste da nessuna altra parte, un personaggio morto da secoli, un paese che non hai mai visto, un mondo intero solamente immaginato…

 

LC: Quali sono le sue frustrazioni e difficoltà nello scrivere?

MM: La scrittura appartiene per me al principio del piacere, dunque la frustrazione è respinta dal suo orizzonte. Le difficoltà sono invece molte. Trovare il cuore di una storia e dover sacrificare decine di pagine o personaggi ben riusciti che però non c’entrano. Azzeccare il tono giusto di una scena. Il tempo verbale di un racconto, la prospettiva, il lessico appropriato. Ogni volta bisogna ricominciare tutto daccapo.

 

LC: Ci può descrivere il posto dove scrive?

MM: Il mio studio, a casa mia, con la radio accesa e il telefono staccato. È una stanza quadrata, con due grandi finestre che inquadrano una magnolia, il parcheggio della metropolitana e una collina su cui c’è una villa del Cinquecento. Mi piace questa commistione: la natura, la modernità, il passato. Roma è questo. Scrivo solo a Roma. Penso che la mia scrittura rifletta questa commistione. Natura, modernità e passato sono sempre presenti nei miei romanzi.

 

LC: Quale dei suoi scritti (romanzi o articoli) ha per lei un significato più intenso? Perché?

MM: Il primo e l’ultimo, sicuramente. “Il bacio della Medusa”, che ho pubblicato nel 1996 e recentemente ristampato con Rizzoli, è il mio romanzo più lirico e appassionato, ha un ritmo lento e trascinante – come un grande fiume in piena. I due personaggi femminili, Norma e Medusa, restano fra i miei preferiti. “Un giorno perfetto”, del 2005, è un po’ il contrario, un romanzo incalzante, grezzo, convulso, veloce. La sfida per me era trasformare in romanzo un episodio che avrebbe potuto essere solo un caso di cronaca nera su un giornale. Sono ovviamente molto grata anche a “Vita”, che mi ha dato una grande notorietà e che per molti milioni di italiani, che sono emigrati all’estero in varie epoche del Novecento, ha significato ritrovare con orgoglio la loro propria storia. 

 

LC: "Un giorno perfetto" ci illustra la Roma di chi ci vive, cioè una prospettiva diversa di chi ci si ferma poco. Quale era l'obbiettivo nello scrivere "Un giorno perfetto"? Cosa ha ispirato questo romanzo?

MM: La maggior parte degli abitanti di questo pianeta pensa a Roma solo in relazione al suo passato. Ma Roma non è Babilonia, cioè una capitale antica che poi è stata abbandonata al deserto.  È una città viva e moderna, con tutti i problemi, ma anche gli stimoli, di una metropoli contemporanea. E in più col fascino di essere una città cerniera fra i paesi del sud del mondo (cui per tanti versi assomiglia) e i paesi dell’occidente e del nord (cui forse non assomiglia, ma al cui orizzonte culturale invece appartiene). L’idea che sta dietro a “Un giorno perfetto” è proprio questa: raccontare la città al di là del mito, così com’è nel XXI secolo, vissuta quotidianamente da un gruppo di personaggi che appartengono a due famiglie: bambini, ragazzine, uomini e donne di oggi.

 

LC: Qual è il risultato che vorrebbe ottenere con i suoi romanzi a livello letterario, a livello umano? E con "Un giorno perfetto",  in particolare?

MM: Credo che il progetto di ogni scrittore di narrativa sia di scrivere un romanzo che gli piacerebbe leggere. E che resti dentro di lui anche molto tempo dopo averlo letto: cioè che non evapori subito, ma lasci sensazioni, parole, personaggi, emozioni. Nel caso di “Un giorno perfetto”, mi piacerebbe che vi si riconoscessero l’Italia e gli italiani di oggi: ciò che pensano, ciò che sognano, come vivono, parlano, amano. Perché i personaggi potrebbero essere i nostri vicini di casa, i nostri compagni di scuola o di lavoro: gente comune che talvolta non abbiamo il tempo di conoscere. E invece ognuno di loro è un mondo, e ha una storia che vale la pena raccontare.

 

LC: Quale scrittore o scrittrice preferisce leggere? Quale l'ha ispirata?

MM: Sono sempre stata una lettrice onnivora e curiosa – e ho sempre letto un po’ di tutto, dai classici greci ai lirici cinesi, dai manuali di astronomia ai romanzi di fantascienza, dalla saggistica storica ai libri di viaggio (mi piacciono moltissimo i libri sulle esplorazioni). Perciò tutti i libri che ho amato – di qualunque epoca, lingua e paese - hanno lasciato qualche seme dentro di me. Per dire, da “Solaris” di Stanislaw Lem a “Memoria del Fuoco” di Galeano, dai romanzi di Stendhal e Goncarov a quelli di Mann o Vargas Llosa .  

 

LC: Quale donna ha avuto una grande influenza su Melania Mazzucco? Quale uomo?

MM: Quando ero studentessa, ammiravo molto le regine. Una delle mie preferite era Zenobia di Palmyra (oggi in Siria). Vedova di un re, si mise a capo della rivolta contro l’impero romano, e riuscì a trasformare la sua città – un’oasi nel deserto – in una delle più ricche del Medio Oriente. (Poi perse la guerra, e morì prigioniera a Roma). Altre due donne straordinarie sono Santa Melania, vissuta nel IV secolo dopo Cristo, una ricchissima proprietaria terriera che, militante di un cristianesimo evangelico intransigente, donò tutti i suoi beni (possedeva mezza Italia) ai poveri, liberò migliaia di schiavi, emigrò in Palestina e visse in una cella, su una collina di Gerusalemme. Infine la più grande filosofa dell’antichità, Ipazia di Alessandria. Pagana, matematica e scienziata, ha pagato con la vita (fu assassinata da fanatici aizzati contro di lei dal vescovo) la sua libertà di pensiero. Fra gli uomini, nominerò solo Socrate. Tutto ciò che ha detto, pensato e insegnato è ancora oggi una ricchezza dell’umanità.

 

LC: Ci può dare un'idea di dove e come è cresciuta?

MM: Sono nata e cresciuta a Roma, in un quartiere residenziale a me contemporaneo, che è sorto disordinatamente negli anni Sessanta. All’epoca, mi appariva lontano dal centro, una periferia moderna, fatta di case, condomini, asfalto. Oggi, è quasi in centro città. Il centro del mio mondo era perciò la mia casa – e ho scoperto Roma, la Roma classica, solo dopo i vent’anni. Ho avuto la fortuna di crescere in una famiglia dinamica e stimolante, perché mio padre era uno scrittore e un uomo di teatro, quindi per casa nostra passavano attori, sceneggiatori, registi, intellettuali. Negli anni Settanta, da bambina, ho frequentato i teatri alternativi nei quali mio padre preparava i suoi spettacoli, quindi ho respirato l’atmosfera del palcoscenico, e ho anche lavorato nella buca del suggeritore. La magia del teatro mi affascina ancora.

 

LC: Come vede il suo ruolo di donna scrittrice?

MM: Come vedo il ruolo di uno scrittore. Stabilire con il lettore una sorta di patto, diventare la compagna di viaggio di migliaia di persone che non conoscerò mai, non annoiarlo ma non compiacerlo, portarlo in luoghi e tempi vicini e lontani, divertirlo o commuoverlo, talvolta farlo riflettere ma senza fargli la morale, in genere: arricchire la sua conoscenza del mondo e degli uomini. Credo che questo sia tutto ciò che si può chiedere a uno scrittore – e a una scrittrice. 

 

LC: Melania Mazzucco si considera scrittrice femminista?

MM: Non penso di essere una scrittrice femminista, perché il femminismo, almeno in Italia, è stato un movimento culturale ben delineato nel tempo – diciamo dal 1968 al 1981, che è stato l’anno della vittoria del referendum sull’aborto, una rivoluzione del costume che deve molto al movimento e che ne ha segnato l’apogeo. A questo movimento non ho partecipato per ovvie ragioni anagrafiche, essendo all’epoca una bambina. Ho però una forte coscienza della differenza, e, per quanto posso, diffondo e divulgo, studio e lavoro sull’attività delle donne scrittrici o artiste del passato, consapevole della necessità che le donne artiste riescano a diventare ‘tradizione’. Non un caso letterario né un gruppo omogeneo da antologizzare come se fosse una riserva di caccia, ma voci importanti, talvolta decisive della nostra cultura, e troppo presto dimenticate o emarginate.

 

LC: Che cosa considera sua migliore realizzazione come donna? Come scrittrice?

MM: Come scrittrice, scrivere una storia che significhi qualcosa per la vita di chi legge, in cui si riconosce, si ritrova, si rivela. Come donna, che chi mi sta accanto sia felice di dividere il viaggio della vita con me.

 

LC: Che consigli darebbe a giovani che hanno la passione di scrivere e che vorrebbero farlo come

professione?

MM: L’unica cosa che posso dire è non cercare di seguire le mode letterarie del momento. Sono estremamente effimere, e spesso durano meno del tempo impiegato da uno scrittore a terminare un libro. Poi di non lasciarsi scoraggiare dai rifiuti che inevitabilmente ci saranno, e di fare tesoro anche degli insuccessi. Aiutano a maturare, a capire chi siamo e cosa davvero vogliamo raccontare.

Infine di ricordare che scrivere è una professione diversa da tutte le altre. Sei un imprenditore, ma non hai niente da vendere. Sei un attore, ma non hai un testo da recitare. Tutto ciò che hai da offrire è te stesso. Ti si chiede una grande disciplina interiore, una certa saggezza per superare il successo o l’insuccesso, la capacità di padroneggiare la solitudine e la folla, un equilibrio impossibile fra narcisismo e follia, il coraggio di esporti e di accettare l’idea che chi ti legge è come se ti vedesse nudo.

 

LC: Che rapporto o legame ha con il Canada? Con gli italiani in Canada?

MM: Il Canada è stato il primo paese americano che ho visitato, con la mia famiglia, nel 1986. A quel tempo facemmo un viaggio coast to coast, da Vancouver a Toronto. Per un’europea fu un impatto sconvolgente: la scoperta di città senza un centro (post-moderne), la rivelazione dello spazio vuoto (non abitato dall’uomo), di catene di montagne deserte, di pianure sconfinate. Credo che un’eco di quell’esperienza sia riaffiorata molti anni dopo, mentre scrivevo “Vita”. Sono poi tornata a Toronto, nel 2005. Ho trovato affascinante la trasformazione del paese, la convivenza di centinaia di etnie e popoli diversi, un’immigrazione impressionante. Qualcosa di simile, benché in forme e quantità diverse, sta accadendo anche in Italia: il Canada è come un grande esperimento, mi è sembrato un paese giovane e stimolante, e per questo vi ritorno volentieri. Devo anche dire che David Cronenberg e Atom Egoyan sono fra i miei registi preferiti. Purtroppo non ho rapporti con gli italiani in Canada. So che c’è una vasta comunità di minturnesi – immigrati dallo stesso paese di mio nonno. Spero che qualcuno di loro venga al Festival, per scambiarci storie ed esperienze.

 

 

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