Mena Martini e il “Cristallo” della sua vita

 

Due messaggi tra i tanti, estratti dall'intervista che segue: “Se è vero che il futuro del mondo dipende da quello che i bambini diventeranno, la società dovrebbe investire tutte le sue forze nella famiglia” e “Il cancro, con le sue immagini di morte, mi ha resa sorella la morte ed allo stesso tempo mi ha donato un’immensa gratitudine per il miracolo della vita”.

 

           Vancouver B.C.

"Quell’anno con il cancro è stato il più bello della mia vita. Incredibile a raccontarsi e forse ancor più a capire...". Mena Martini ripete a voce alta il suo messaggio, lo vuole comunicare a quanta più gente possibile. Desidera condividere la sua esperienza personale perchè è convinta che "di cancro si guarisce, di cancro si vive". È rientrata a Vancouver dopo un lungo  soggiorno promozionale in Italia, dove il suo romanzo autobiografico "Cristallo" ha suscitato grande interesse. In Canada, mesi prima, aveva vinto l'ambito Premio Bressani per la letteratura. È nata una nuova stella nel firmamento letterario italocanadese, avevo scritto allora dando la notizia a un'agenzia di stampa, e mi ero ripromessa di approfondire i contenuti umani di una vicenda esemplare. Da anni seguivo con ammirazione il percorso di questa donna forte dall'apparenza fragile, condividendone ideali e "utopie", da lei definite modi di salvare l'essere umano. Ma come? Ristabilendo l'equilibrio.“Per me - lei ripete - il cancro al seno è dovuto alla progressiva scomparsa del lato femminile dal mondo. Quello che intendo dire è la perdita di armonia, di empatia, di solidarietà, di collaborazione, di rispetto della natura, insomma di tutte quelle caratteristiche a cui noi donne abbiamo rinunciato per assorbire e incorporare valori maschili ”.

 

La Martini è nata a Vieste, in Puglia, alla vigilia degli anni Cinquanta. A vent'anni era già insegnante. Qualche anno dopo lavorava a Parigi. E poi il salto in Canada, a Vancouver. E da qui a Città del Messico per il lavoro del marito, ingegnere chimico. "Una vita raminga, sempre a metà, ma con due metà grandi come una". Due figli, Chiara di 24 anni che sta per conseguire un Master’s in Counselling Psychology e Cristiano di 27 che sta facendo praticantato presso la Court House di Vancouver e sarà avvocato tra pochi mesi. Scrittura creativa e impegno sociale a parte, alla protagonista di questo colloquio piacciono moltissimo la musica, la poesia, la pittura, la lettura, le amicizie, i viaggi, le lingue, le altre culture. E poi “devo avere un senso della giustizia molto acuto se già in seconda elementare chiedevo alla maestra perché le bambine che non erano brave erano tutte sedute negli ultimi banchi”.

 

Zampieri. Mena Martini tra l'Italia e il Canada. Dalla Puglia a Vancouver e ritorno. Quali le motivazioni del tuo itinerario tra due paesi che sicuramente ammiri e ami?

 

Martini. Da un paese del Gargano che si estende e si allunga pigramente nel mare, con le sue lingue di terra curiose come lucertole al sole, il viaggio oltreoceano verso una terra lontana e misteriosa, e nei racconti di allora avvolta dal gelo. La ragione della partenza fu il lavoro. Avevo lasciato l’Italia già in passato per la Francia, dove mi occupavo, per conto del Ministero degli Affari Esteri, dei corsi di lingua italiana. Essendo appassionata di viaggi – ho sempre avuto dentro questa smania di partire, di andare, di esplorare - appena mi si è presentata l’occasione di un trasferimento l’ho presa al volo, e per un miscuglio di coincidenze mi sono ritrovata a Vancouver, con un ufficio in Consolato ad occuparmi dei corsi d’italiano.

 

Il dualismo si è ripetuto nella tua vita personale: l'impegno di educatrice e la missione materna. Come hai conciliato i due aspetti?

 

I miei mi hanno insegnato a dare sempre il massimo, a impegnarmi per riuscire bene, non c’era una via di mezzo, bisognava ambire alla perfezione. Ho preteso di fare lo stesso con il  lavoro e la famiglia. Fin quando sono stata sola tutto pareva funzionare. Durante gli anni d’insegnamento a Vieste, per esempio, passavo i pomeriggi di libertà, con altri colleghi ugualmente motivati, ad aiutare i bambini che a scuola avevano bisogno di sostegno. Arrivammo perfino ad affittare un piccolo locale dove si faceva doposcuola. Erano gli anni di don Milani e della scuola di Barbiana. Noi seguivamo il suo esempio con entusiasmo. Avevamo dentro un fuoco straordinario: la certezza che si potessero eliminare le ingiustizie dalla società. Si andava presso le famiglie più povere, quelle che i figli li mandavano in campagna a lavorare piuttosto che a scuola, si cercava di convincere i genitori della necessità, dell’importanza di un minimo di istruzione per i loro figli. Poi venne l’epoca del teatro a scuola, con l’obiettivo di contribuire a migliorare, a creare. Utilizzammo il teatro anche per sensibilizzare i viestani ai problemi delle miserie del terzo mondo, alle sofferenze dei lebbrosi, al dolore di una famiglia il cui bambino aveva bisogno di un delicato intervento al cuore. Coinvolgemmo tantissime persone, il bambino venne operato da Christian Barnard, si salvò.

 

Eri impegnata, motivata e... non ancora sposata. E poi? quali i tuoi suggerimenti alle madri che lavorano fuori casa?

 

Poi, poi mi sono sposata, sono nati i bambini, sono cominciati i sentimenti di inadeguatezza. Non potendo dare il massimo di me stessa né ai figli né al lavoro, ero convinta che ambedue le realtà rimanessero mutilate. Mentre ero a casa pensavo a quello che stavo togliendo alla professione, mentre ero in ufficio mi tornava in mente il viso di mio figlio che avevo lasciato in lacrime nelle braccia della bambinaia. Sono una cattiva madre, pensavo, perché ho messo al mondo dei figli se poi non posso occuparmene? Eppure si continua a ripetere che il lavoro più importante del mondo è quello di crescere i figli. Perché allora non viene retribuito più di tutti gli altri lavori? La madre viene invece penalizzata. In certi casi non è nemmeno assunta se aspetta un bambino. Se è vero che il futuro del mondo dipende da quello che i bambini diventeranno, la società dovrebbe investire tutte le sue forze nella famiglia.

 

Quali rischi corre oggi la famiglia tradizionale, che cosa vorresti vedere nel futuro dei tuoi figli?

 

Credo che la famiglia stia scomparendo. È come se ne fosse rimasto un involucro privo di contenuto, sottoposto a continue forze centrifughe. Una volta c’era la madre in casa a fare da nucleo. Da lei e intorno a lei si creava la famiglia. Oggi la madre deve lavorare fuori di casa, per necessità in moltissimi casi, perché con un solo stipendio non si sopravvive più. Il bambino viene sistemato in asili nido o con una bambinaia, talvolta con la nonna. Come può una madre, dopo una giornata lavorativa, occuparsi di fare la spesa, cucinare, accudire ai figli, alla casa, al marito e a quant’altro la vita le presenta? Certo, esistono anche le supermadri, quelle che all’apparenza riescono a conciliare il tutto, ma a prezzo di quale vita

Sogno una società in cui la donna segua la sua vocazione e si realizzi in essa il più possibile, ma che, quando decida di mettere al mondo un bambino, abbia la possibilità di rimanere a casa e prendersi cura del figlio fino a che questi non compia almeno 3 anni, continuando per tutto il tempo, s’intende, a percepire lo stesso stipendio di quando lavorava fuori casa. Continuo a sognare una società che riaccolga nel mondo lavorativo la madre che si è occupata per anni dei figli, che la reinserisca nella sua professione con corsi di aggiornamento, che la riassorba dopo averla sorretta e protetta, dandole il meglio, ricavandone il meglio.

 

La tua drammatica esperienza di giovane donna malata di cancro al seno, la tua esemplare battaglia per vincere la sfida ricorrendo a cure alternative, la fedele vicinanza di tuo marito, la serenità che siete stati capaci di infondere ai figlioli: come vedi tutto ciò oggi guardando per un attimo indietro?

 

Quell’anno con il cancro è stato il più bello della mia vita. Incredibile a raccontarsi e forse ancor più a capire, ma essere vicina alla morte ha reso tutto più soffice, radioso, incomparabile. Ogni giorno acquistava un valore straordinario perché quello poteva essere il mio ultimo Natale, il mio ultimo nascondere per i bambini nel giardino le piccole uova di cioccolata che la lepre di Pasqua avrebbe portato, il mio ultimo nuotare nel mare di Vieste, il mio ultimo rivedere la madre al paese, il mio ultimo abbracciare mio marito...  era questo ‘ultimo’ che rendeva ogni momento unico, irripetibile, eterno nel suo significato. Stringevo la mano di mio figlio mentre camminavamo insieme sotto le foglie d’autunno e pensavo, è così bello, così dolce stare con lui ora, in questo attimo, domani non vale nulla, domani non esiste, siamo qui ora, e il resto non conta più. C’era il presente, solo quello, vissuto con intensità totale.

Ricordo un pomeriggio in un piccolo parco. Ero seduta su un parapetto e guardavo una betulla nei raggi del sole rosso del tramonto. Le foglie erano filigrana rigata da venature d’oro, sottilissime nel dondolio del vento. Una si lasciò andare e la raccolsi da terra  per sentirla con le dita leggerissime. Ecco, pensavo, questa è la morte, un perdere la materia per diventare trasparenza dello spirito, purezza totale, bellezza estrema. Forse anch’io diventerò così quando starò morendo...forse non devo aver paura della morte. Il cancro, con le sue immagini di morte, mi ha resa sorella la morte e allo stesso tempo mi ha donato un’immensa gratitudine per il miracolo della vita.

 

Di tutto ciò parli in profondità, con pagine di splendida scrittura e di rara sensibilità poetica, nel tuo romanzo autobiografico “Cristallo” (*). Quale messaggio vorresti comunicare anche a chi non ha letto la tua storia?

 

Di non aver paura del cancro perché anche la malattia è una forma di vita, è un campanello d’allarme, un richiamo al risveglio e a un atteggiamento diverso verso la vita. Ci impongono la paura del cancro, il terrore invade al solo sentirne pronunciar la parola, che ritorna tuttavia sempre più spesso nella nostra esistenza – perché tutti abbiamo un amico, un familiare ammalato di cancro – ma la parola rimane solo urlata nelle viscere, come un rimbombo devastante nei miliardi di cellule del corpo. Perché questa omertà verso qualcosa che è dentro di noi, che si è stabilita là in quell’angolo del nostro corpo, questo qualcosa che anche noi abbiamo contribuito a far nascere? Sono convinta che ogni malattia sia psicosomatica e pare d’altronde che ci sia un lasso di tempo di circa due anni tra l’apparire delle prime cellule tumorali e l’esplodere del tumore, due anni di estrema importanza perché se la vita che si conduce è costellata da stress, disarmonia, rabbia e frustrazione, allora le difese immunitarie si indeboliscono, la forza di reagire diminuisce, e ci si abbandona al destino come un relitto nell’acqua stagnante.

Se ci convinciamo invece che il cancro non è una punizione, ma forse un messaggio divino per allontanarci dalle alghe melmose di un’esistenza infelice e distruttiva, allora sicuramente troveremo in noi il modo e le ragioni per ritornare alla guarigione ed alla vita. I familiari e gli amici sono importantissimi in questa circostanza, perché con il loro atteggiamento possono contribuire alle condizioni della persona ammalata. Devono essere i primi a credere nella guarigione, ad esserne completamente convinti, perché di cancro si guarisce, di cancro si vive. E se si muore, si muore di cancro come di tutto, di un incidente aereo, di diabete, di infarto, di povertà, di violenza, di guerra, di solitudine, di vita persa e infelice.

 

Il tuo rapporto con la natura, la tua religiosità, la fede profonda nella vita: puoi farmene una sintesi?

 

Una mattina, all’alba, ero su una nave  che indugiava vicino ai ghiacciai. Silenzio totale, e il galleggiare di minuscoli icebergs che una corrente leggera e trasparente cullava e poi lasciava andare. A un tratto apparvero raggi di luce sottilissima da un sole nascosto ancora dalle nuvole, e cristalli brillanti sul ghiaccio, tra ciuffi d’erba sfuggiti alla neve. Uno spettacolo di un’estasi assoluta, di un misticismo totale, e dentro di me voglia di piangere, di gridare, di danzare, di ringraziare con tutto il corpo questo essere potente, questa divinità universale, questa perfezione cosmica che riempiva di sé la purezza del momento. Il divino era palpabile, era lì con noi. E allora, forse, non importa il nome, che sia Dio, Allah, energia assoluta, respiro divino... se esiste nel mondo una tale bellezza sovrumana deve essere anche in noi, in questo piccolo essere che bistrattiamo. Il senso del vivere consiste nel ritrovare questa purezza dentro di noi, nello scoprire Dio negli occhi dell’altro, nella goccia di pioggia che si sofferma sul finestrino appannato, nel bucaneve fragilissimo che spunta tra le zolle di terra a gennaio, nella voce del vento, nella magia e nel mistero che è la vita. 

 

(*) Mena Martini, CRISTALLO, Edizioni Noubs, Via Ovidio 25, Chieti

 

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* Il testo, in parte ridotto, di questa intervista è stato pubblicato con il titolo "La poesia della vita" sul numero 10/2007 dell'edizione italiana per l'estero del Messaggero di sant'Antonio, e viene qui interamente riprodotto per gentile  autorizzazione.

 

Anna M. Zampieri Pan, giornalista freelance con oltre 50 anni di attività nel campo della comunicazione, è nata a Vicenza e si è trasferita all'inizio degli anni Ottanta in Canada, dove fino al 1990 ha anche diretto il settimanale della British Columbia L'Eco d'Italia. Vive appena fuori Vancouver, in un villaggio di pescatori.

 

 

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