ELETTRA BEDON

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Il naso di Apollodoro

Il racconto “Il naso di Apollodoro” è stato pubblicato in Storie di Eglia (narrativa), Montfort & Villeroy, Montréal, 1998 e viene qui riprodotto per gentile autorizzazione dell’autore.

 

D

opo aver camminato per tutto il giorno, a sera i viaggiatori si raccoglievano attorno al fuoco e, uno alla volta, raccontavano una storia. Quando venne il suo turno, don Quijote cominciò:

Al mio paese, quando ero bambino, questa storia si raccontava ancora. Io l’ho udita da mio nonno, e lui giurava di aver conosciuto di persona Rinaldino, prima che questi se ne andasse in città a far fortuna. A differenza degli altri ragazzi del paese – tozzi, le spalle poderose – Rinaldino aveva un personale alto e slanciato. Si sentiva diverso; non avrebbe accettato mai di diventare pecoraio, contadino, o taglialegna come tutti. Appena raggiunta l’adolescenza si congedò dai suoi e partì in direzione della città; lasciate le ultime case del paese camminava con le scarpe sospese per i lacci a una spalla, i piedi imbiancati di polvere.

Era l’inizio dell’estate; i castagni che ricoprivano buona parte delle colline, intorno, erano verdi di foglie, i frutti ancora chiusi.

Dopo un paio d’ore, il rumore di zoccoli di cavalli e un cigolio di ruote avvertirono Rinaldino che stava per avere compagnia. Infatti, a una svolta vide profilarsi davanti a lui un carrozzone che procedeva sobbalzando sul fondo ineguale della strada. Due cani gli corsero incontro latrando, e scondinzolando lo riaccompagnarono al carro che intanto si era fermato. Si trattava di un carrozzone di girovaghi; da cassetta scese un uomo alto e massiccio che si presentò come il dottor Guérison. All’interno del carro era seduta una donna grassa (la mia signora, disse Guérison accennando un inchino con il capo) che guardò il ragazzo con aria corrucciata, senza parlare, continuando a cullare tra le braccia un bambinello addormentato. Rinaldino accettò l’invito a fare un pezzo di strada con loro; spartì il pane e il formaggio che aveva portato da casa e si arrampicò accanto all’uomo quando ripresero ad andare.

Venne a sapere che il sedicente dottore fabbricava e vendeva, di paese in paese, una pozione che – a seconda delle circostanze – era garantita come filtro d’amore, linimento, rimedio contro la calvizie. La presenza del figlioletto e l’incontro con Rinaldino suggerirono al dottore l’idea di spacciarla anche come bevanda ringiovanente, utilizzando il vecchio trucco dell’adolescente che sembra ridiventare un marmocchio.

Rinaldino rimase con loro per alcuni mesi; in quel periodo il dottor Guérison gli insegnò a leggere e a scrivere. Alle soglie della città Rinaldino si separò dal suo maestro, salutò la donna che gli rivolse uno sguardo corrucciato, senza parlare, e si allontanò da solo.

Gli inizi furono duri. Per guadagnare il pane il ragazzo si piegava a qualunque lavoro: faceva lo scaricatore, il galoppino, il tessitore, il falegname, approfittando del fatto che, malgrado il suo aspetto delicato, era forte e robusto, e che l’indole allegra, la battuta pronta, il sorriso franco, lo rendevano bene accetto dovunque. Dopo un paio d’anni entrò come apprendista nella bottega di uno speziale e lì, poco alla volta, si rese conto (e gli altri con lui) di una qualità che lo rendeva unico: possedeva un olfatto eccezionale.

Dosando i componenti di un preparato medicinale indovinava le quantità dall’intensità dell’odore. Non aveva bisogno di etichette per riconoscere una sostanza e, annusando un profumo, non sbagliava mai nell’indicarne le componenti. Non solo: la sua capacità di cogliere le più sottili sfumature gli permetteva di trovare nuovi accostamenti, di tentare nuove mescolanze, di suggerire nuove variazioni.

Lo speziale all’inizio gli lasciava solo compiti marginali, ma quando si accorse che i profumi preparati dall’apprendista venivano richiesti da un sempre maggior numero di persone, e che il nome della sua bottega stava diventando sinonimo di raffinatezza e di qualità, lo prese come socio e gli permise di sposare sua figlia (una cosina graziosa e delicata di cui il giovane si era innamorato a prima vista). Rinaldino poteva dirsi arrivato: aveva raggiunto una posizione invidiabile.

La sua felicità non poteva essere maggiore: la moglie lo adorava, i piaceri del letto e della tavola erano accentuati e sottolineati dalle sue capacità olfattive; la bottega dello speziale, morto suo suocero, era diventata un grande laboratorio dove molti assistenti si contendevano il privilegio di lavorare sotto le sue direttive. Il suo nome era diventato molto noto; oltre a essere conosciuto come fabbricante di profumi diventò l’esperto più richiesto ogni volta che si trattava di riconoscere un odore, per quanto leggero fosse. Era come se nel suo cervello ci fosse una mappa estremamente dettagliata, e ogni volta che i suoi recettori nasali vibravano, un nome venisse messo in evidenza. Partecipò a congressi, fu invitato a convegni, ottenne pubblici riconoscimenti. La sua ricchezza aumentava con la sua fama, ma …

Perché c’è un ‘ma’ : a mano a mano che cresceva il suo conto in banca cresceva anche il suo naso. Dapprincipio non ci badò molto. Ho messo su peso, diceva, e anche il mio naso si è ingrossato. Ci scherzava. Quando qualcuno lo complimentava per una sua nuova creazione rispondeva: Eh! Io ho naso!

Poi si accorse di spiare il suo viso allo specchio. Il naso sembrava lievitare: oggi un piccolo rigonfiamento a lato di una narice, domani un accenno di gobba, poi un’escrescenza sulla punta … giorno dopo giorno l’appendice in mezzo al suo viso assomigliava sempre meno a un naso e sempre più a una ‘cosa’ dotata di vita propria, spugnosa e informe, che si dilatava, si protendeva, guadagnava spazio. Non abituato alle nuove dimensioni del suo naso Rinaldino diventò goffo, incerto nel muoversi. Il suo respiro divenne rumoroso. Uno sternuto faceva infrangere i vetri delle finestre, persino un sospiro creava correnti d’aria. Cominciò a essere ossessionato dall’idea che ogni specie di insetti, risucchiati attraverso le cavità nasali, arrivassero ad annidarglisi nel cervello.

Gli amici, che per un po’ avevano fatto finta di non accorgersi di quello che stava succedendo, a uno a uno disertarono la sua casa. Il suo aiuto non fu più richiesto; non fu più invitato in alcun luogo. La moglie rimase per lungo tempo dalla sua parte; con indomita tenerezza lo confortava, assicurandolo che certo si trattava di malattia passeggera. Ma Rinaldino si accorse presto che qualcosa non andava; lei, che all’inizio si schermiva di fronte ai suoi approcci tenendolo a bada con la solita scusa (stasera no, caro, ho mal di testa), divenne poi apertamente ostile e, piangendo istericamente, tornò da sua madre.

Rinaldino non si arrese subito. Per lungo tempo si sforzò di comportarsi come se niente fosse accaduto, negando l’evidenza; poi un giorno decise di intervenire attivamente. Chiamò a consulto i medici più famosi, ma niente da fare : la ‘cosa’ cresceva. Venne il giorno in cui, per non sbilanciarsi, dovette camminare con le mani a coppa davanti al viso, per sostenere il naso. Fece venire maghi ed esorcisti; accettò di partecipare a riti terrificanti, ridicoli, umilianti: ma la ‘cosa’ continuava a crescere. Divenne grande come la sua testa; più grande. Una massa di cartilagine, tremula e imponente, un insieme slabbrato, senza confini precisi, pendulo. Rinaldino dovette far costruire un alto carrello imbottito, e camminava appoggiandoci il naso. Una volta che aveva dimenticato di agganciarsi dei pesi alle caviglie un colpo di vento improvviso gli sollevò il corpo (smunto, emaciato: era un tale problema mangiare!) e il naso sul carrello scivolò sulla strada portandosi dietro Rinaldino come appendice.

In seguito accadde la cosa più orribile: a mano a mano che aumentava la massa del naso diminuiva l’odorato. Il gusto ne risentì, e Rinaldino mangiò sempre meno. Perché sforzarsi tanto per ingoiare cibi che gli sembravano tutti uguali? Un po’ alla volta smise anche di andare al laboratorio dove aveva continuato a recarsi con fatica.

Era rimasta a provvedere a lui una vecchia domestica mezzo cieca che non sembrava far caso al suo aspetto. Rinaldino, una volta così sensibile al più lieve sentore di sudore, che non avrebbe sopportato di indossare biancheria non odorosa di fresco e di pulito, si era ridotto in una camera dove troneggiava un letto sfatto, tra lenzuola stazzonate, incapace del tutto di sentire l’odore di chiuso e di disfacimento intorno a lui. Passava le giornate sdraiato sul letto, la schiena sostenuta da cuscini. Girava il viso da una parte, e il naso appoggiava sulle coperte, riempiva tutto lo spazio, debordava sul pavimento. Raggiungeva la parete e si ammonticchiava contro di essa, schiacciato dalla porta quando la domestica entrava con il vassoio del pranzo e poi di nuovo esteso – gommoso e ripugnante ammasso – i pori larghi come crateri, i capillari come sentieri tortuosi. Torcendo gli occhi dalla parte opposta Rinaldino guardava fuori dalla finestra; si rivedeva, fanciullo, correre per i prati, rimpiangeva la libertà di cui aveva goduto, l’agilità dei movimenti.

Un giorno in cui era più depresso del solito, Ah, darei qualunque cosa per poter tornare quello di prima, sospirò a mezza voce. A questo punto entrò in scena Apollodoro.

Don Quijote fece una pausa. I suoi compagni lo avevano ascoltato attentamente, chi attizzando il fuoco, chi ricaricando la pipa. Qualcuno mise altra legna: la notte si annunciava fresca.

Di diavoli, come ben sapete, ce n’è di tante categorie, riprese don Quijote. Da Lucifero, il capintesta, a quelli di prima classe, di seconda, e poi giù giù fino a quelli di infimo ordine. Persino sulla terra è invalsa l’espressione ‘povero diavolo’ per qualificare qualcuno che è un niente da tutti i punti di vista. Be’, Apollodoro era proprio uno di questi. In fondo, quello che gli si chiedeva era di fare dispettucci , di creare un po’ di confusione, di intorbidire le acque: ma niente gli riusciva. Ormai passava in ozio la maggior parte del suo tempo, e soltanto qualche diavolessa compassionevole gli affidava di tanto in tanto qualche incarico (quando il risultato non importava assolutamente a nessuno).

Sotto forma di lucertola se ne stava a prendere il sole sotto la finestra di Rinaldino quando sentì la sua invocazione. Non credeva alle proprie orecchie: proprio lui aveva trovato un uomo disposto a fare un patto con il diavolo!

È la mia grande occasione, si disse, riprendendo l’apparenza usuale e precipitandosi nella stanza. Rinaldino lo guardò sconcertato: qualche ragnatela pendeva dal costume rosso e uno dei corni era un po’ spuntato, ma non c’era dubbio, si trattava certamente di un diavolo. Ah, ci siamo!, si disse. È il momento del patto. Ma che cosa chiedere? Decise che poteva fare a meno della moglie, poteva persino adattarsi a convivere con quel naso mostruoso: a una sola cosa non poteva rinunciare. Rivoglio il mio olfatto prodigioso!, disse.

Apollodoro gonfiò il petto d’orgoglio; benché fosse fuori esercizio, il suo potere rimaneva intatto, e poteva concedere a quell’uomo qualunque cosa. Sia!, disse. Questo è un lavoro da diavolo di prima classe, pensava. Lucifero in persona gli avrebbe fatto i complimenti …

Che cosa vuoi in cambio?, domandò Rinaldino.

Preso alla sprovvista Apollodoro dimenticò la contropartita che si richiedeva di solito nei patti con il diavolo, e chiese ciò che lo aveva colpito di più quando si era trovato di fronte a Rinaldino. Voglio il tuo naso!, rispose.

Un riso improvviso serpeggiò tra gli ascoltatori. L’interesse con cui tutti avevano seguito il racconto di don Quijote si era frammentato; i viaggiatori si scambiavano commenti, battute spiritose. Ah, questa poi!, esclamò uno. Ma era veramente sciocco, quell’Apollodoro!, commentò un altro. E come è finita la storia?, domandò un terzo.

Per Rinaldino è finita nel modo migliore, riprese don Quijote. Liberato dell’appendice enorme riconquistò la moglie e il gusto di vivere. Il suo olfatto sembrava divenuto ancora più sensibile. Forse per la forzata astinenza precedente, il piacere che gli veniva dall’annusare gli effluvi che giungevano dalle cucine, dall’abbandonarsi a riconoscere a occhi chiusi il corpo della moglie, dal mescolare goccia a goccia preziosi profumatissimi estratti, non era mai stato così completo. Quanto ad Apollodoro …si racconta che ritornò all’inferno trascinandosi dietro quella montagna di naso. Lo offerse a Lucifero, cercando di dare a intendere che avesse chissà quali virtù nascoste. Ma Lucifero lo guardò freddamente. Che me ne faccio di un naso?, domandò. Riprenditelo. Alzò appena una mano e il naso si spiaccicò in mezzo alla faccia di Apollodoro.

Da quel giorno il povero diavolo non riuscì più a mimetizzarsi; qualunque forma assumesse (ragno, specchio magico, pipistrello) quel grande naso che non poteva nascondere in nessun modo lo tradiva, e persino i bambini ridevano di lui.

La legna si era consumata e non rimanevano che le braci. Aiutandosi con un bastone don Quijote le ricoprì di cenere prima di avvolgersi nel mantello e di stendersi a dormire. Uno alla volta i suoi compagni lo imitarono.

Domani, con il primo sole, si sarebbero rimessi in cammino. E, a sera, qualcuno avrebbe raccontato un’altra storia.

 

 

 

1 gennaio 2007

 

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