DUE LIBRI, UNA PAGINA (75)

Letture di Fabio Brotto

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Una narrazione essenziale ed intensa nelle 137 pagine del romanzo di Amanda Sthers Gli ultimi due ebrei di Kabul (Chicken Street, 2005, trad. it. di F. Bruno, Ponte alle Grazie, Milano 2006). La storia è lineare e terribile: un fotografo americano, in Afghanistan per un servizio su quel Paese intriso dell’islam dei Talebani, ha sconsideratamente un’avventura con una giovanissima ragazza del luogo, che rimane incinta. Lui torna in America senza sapere di ciò, e  un vecchio ebreo (uno dei due ultimi rimasti a Kabul) prende a cuore la fanciulla, tanto da rischiare la vita per salvarla. Vanamente: essendo lei sorella di un aspirante imam, la sua sorte è segnata. La ragazza è analfabeta, l’ebreo scrive per lei una lettera al fotografo, lettera che finisce nelle mani della di lui moglie, e questa a sua volta cade in una disperata sofferenza che la deprime e la stritola. Dunque, da un lato una leggerezza di un occidentale superficiale e distratto che porta due donne diversissime, viventi in condizioni diametralmente opposte, alla distruzione, dall’altro un rapporto dialettico tra due ebrei portati dai marosi della storia su quell’ultima spiaggia di un Paese destinato ad essere dominato, anche dopo la fine del regime talebano, da un islam rigoroso e spietato. La voce narrante del libro è quella di Simon, l’ebreo ciabattino, la cui storia si intreccia con quella di Alfred l’ebreo scrivano. Simon, l’ultimo definitivo, non ha spazio che per delle domande che sanno di non avere una risposta.

Nel penultimo shabbath di Alfred, siamo andati a spasso tra i quartieri bombardati e i cimiteri che costellavano la città. Volevamo vedere Kabul, al di là della sinagoga e di Chicken Street. Calzavamo dei cappelli; gli zucchetti avrebbero suscitato un pericoloso interesse. Era un sabato freddo ma soleggiato. Rispettavamo la tradizione dello shabbath e né lui né io lavoravamo quel giorno.

Avevamo salutato il barbiere con un cenno.

Cosa ci facevamo, lì? Da cosa c'era da scappare in que­sto vasto mondo? Era quello il posto che avevamo sogna­to? Non era nemmeno un paese semplice. Era un paese pieno di storie, pieno di dimenticati e di leggende. Un paese di uomini duri e di urla. Era una spirale, un'eterna babele. Un paese da distruggere ma che non smetteva di sopravvivere, di rinascere. Un fiore che si ostinava a spun­tare da sotto un sasso.

Cose ci facevamo, zoppiconi su un sentiero che non portava in nessun posto? Perché continuare a rispettare le nostre tradizioni? Per quali occhi?

Se non ci fosse stato Alfred, mi sarei ricordato che ero ebreo? Si è davvero praticanti in sé e per sé? Si crede in Dio quando si è soli? (p. 104)

 

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Vito Mancuso, Il dolore innocente, Mondadori, Milano 2002. Di Mancuso, la voce più libera e stimolante della teologia italiana odierna, avevo già letto Per amore (http://www.bibliosofia.net/files/DUE_LIBRI_67.htm). Risalendo di poco nel tempo, si trova questo testo, che si muove a partire dallo scandalo sollevato dal dolore delle creature umane innocenti, che nascono con malformazioni ed handicap, in condizioni che sembrano rendere problematica la stessa umanità della loro vita. Il pensiero religioso per millenni ha visto nell’handicap un stretta correlazione con la colpa (solitamente dei genitori). Nello stesso Cristianesimo è presente questa tendenza, o quella, ugualmente poco soddisfacente per il pensiero, di affermare il mistero dell’azione divina, per cui l’handicappato finisce per essere inteso come un mero strumento per la manifestazione di una problematica azione salvifica. Mancuso rigetta tutte le modalità tradizionali di trattamento teologico del problema, affermando la radicale assenza di Dio dalla natura, e quindi anche dal concepimento e dalla nascita di creature destinate ad una vita crepuscolare e alla sofferenza. Nello stesso tempo, Mancuso sostiene che l’essenza di Dio è l’amore, e ultimamente tra lo spirituale e il corporeo non vi è una differenza assoluta, entrambi essendo manifestazioni dell’energia. Amando chi nemmeno è in grado di avvertire l’amore, dunque, l’essere umano partecipa della natura divina. Qui già si vede il problema della creazione e del rapporto tra Dio e mondo che apparirà con la massima forza in Per amore. Tra le molte pagine interessanti, vi sono quelle che affrontano il rapporto tra fede e sapere.

 

A ben vedere la fede positiva, che cioè assume per vero un positum, qualcosa di posto, e non ha alcun dubbio al ri­guardo e si comporta come se fosse sapere, non è neppure fede, è ideologia. La fede suppone sempre, e impone sem­pre, l'oscurità. L'espressione «il sapere della fede», se si assume sapere secondo l'accezione comune, è una contra­dictio in terminis, un sasso di legno, una curva dritta: se c'è sapere scompare eo ipso la fede; perché ci sia fede, vera fe­de, lo sfondo deve essere e permanere tenebroso; se si co­mincia a vedere, la fede scompare. Ma come giustificare allora la teologia? Non è anch'essa sapere, non è il sapere della fede? Sì lo è, ma è il sapere di chi sta nelle tenebre, è consapevolezza di essere nell'oscurità e di anelare alla lu­ce, è pensiero critico, negativo, è sapientia noctis. E atten­zione: l'oscurità qui non è «la notte in cui tutte le vacche sono nere», perché a suo modo un buio totale è pur tutta­via sicuro, facile da maneggiare. L'oscurità in cui siamo avvolti è invece permeata e attraversata da lampi di luce, da squarci luminosi: per questo la vita è difficile, perché è impossibile fermarsi, fermare il pensiero su qualcosa di solido e di vero per sempre, fosse pure il buio totale. L'oscurità vera è la contraddizione, l'impossibilità di sapere se è giorno o notte, se prevale più il bene o più il male, se vince la vita o la morte. La dialettica è il sale della vita, e il sale brucia le nostre ferite aperte, i nostri desideri, le no­stre speranze. Non sappiamo nulla, e quando sembra che ci accontentiamo di questo non sapere, ecco risorgere, portate come dal vento, le speranze o le illusioni che il ve­ro ci sia, il bello sia riconosciuto, il buono prevalga. E su questo qualcuno ci scommette la vita, ci vive sul serio, e agisce come se questo solo esistesse; sono uomini e donne nobili, come appartenenti a un altro mondo, il mondo ve­ro e giusto come deve essere, se c'è Dio. Ma se da loro, la cui vita risplende, nascono pensieri e sistemi con pretesa universale, questi sono immancabilmente destinati ad an­dare alla rovina, a sfracellarsi sugli scogli della storia. Naufraghi, rari nantes in gurgite vasto, ecco quello che sia­mo. La vita placa la nostra sete cospargendoci del suo sale la gola. (pp. 169-170)

 

14 agosto 2006

 

 

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