DUE LIBRI, UNA PAGINA (67)

Letture di Fabio Brotto

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In un momento tanto critico per le relazioni tra Occidente e mondo islamico qual è quello che stiamo vivendo, in cui si pubblicano in un Paese europeo vignette satiriche su Maometto e a queste nel mondo islamico si risponde con sdegno e anche con azioni violente, la poderosa opera di Hans Küng Islam. Passato presente e futuro (Der Islam, 2004, tra. it. di S. De Maria, G. Giri, S. Gualdi, V. Rossi e L. Santini, Rizzoli, Milano 2005) si presenta come uno sforzo titanico di pacificazione, in un’ottica opposta a quella del Clash of Civilizations.  Per ottenere una condizione di pace, Küng sa che non bastano i buoni sentimenti, di cui in apparenza grondano tutti i mezzi di comunicazione di massa (in Occidente), ma occorre un duro lavoro del concetto. Questo è chiaro nell’epigrafe iniziale.

 

Non c’è pace tra le nazioni

senza pace tra le religioni.

 

Non c’è pace tra le religioni

senza dialogo tra le religioni.

 

Non c’è dialogo tra le religioni

senza una ricerca sui fondamenti delle religioni.

 

Il grande teologo svizzero, uno dei pensatori più liberi della Chiesa Cattolica, attua un suo immenso piano di lavoro teologico-storico, che lo porta a ricostruire in tre straordinari libri le vicende storico-teologiche dei tre monoteismi abramitici.  In fondo, l’impostazione è quella di un Lessing cattolico del terzo millennio, la pietra miliare è Nathan der Weise, come Küng riconosce alle pagine 25-26. Le tre religioni si debbono riconoscere nella loro reciproca dignità, che non impedisce loro di criticarsi vicendevolmente. In questo senso occorre la reciproca conoscenza (che però secondo me non basta affatto, come è dimostrato da infinite guerre e contrasti in cui gli attori si conoscono perfettamente, come gli stessi Sciiti e Sunniti). Islam segue le differenti fasi storiche della religione musulmana con una documentazione scientifica di prim’ordine (83 pagine di note) e individua lucidamente alcuni fondamentali nodi. Uno è quello della necessità di una lettura storico-critica del Corano (la cui natura di Rivelazione l’autore accetta), rifiutata quasi universalmente nel mondo islamico, per una ricerca sui fondamenti dell’Islam analoga a quella che da tempo si è attuata nell’ambito degli altri due monoteismi. Qui Küng, che per il dialogo si batte strenuamente, incontra una pietra d’inciampo che è un colossale macigno.

 

Sarebbe molto utile se gli studiosi islamici iniziassero ad adottare un approccio di tipo storico, ma per un musulmano questo è ancor oggi un reato punibile con la morte, esattamente come lo era l’eterodossia per un cattolico dei tempi dell’Inquisizione o per un prote­stante liberale nella Ginevra di Calvino. Nel 1971 mi trovavo a Kabul (che allora era ancora la tranquilla capitale dell’Afghanistan) e duran­te una lunga discussione notturna fra amici, alla presenza di un pro­fessore musulmano, affermai tra il consenso generale che la parola di­vina del Corano è al tempo stesso anche parola umana, parola del Profeta. Chiesi dunque al mio interlocutore straniero se gli fosse pos­sibile esporre simili considerazioni anche in sede universitaria e la sua risposta fu un esplicito «no»: «In quel caso dovrei espatriare». Fu quel che poi accadde qualche anno più tardi. Mi chiedo attraverso quali canali un musulmano possa ricavare una visione positiva della pro­blematica storica sul Corano. (p. 627)

 

Un altro nodo è il blocco della ricerca filosofica libera, che perdura dai tempi di Averroè, e che si è accompagnato alla deriva legalistica dell’Islam, divenuto anzitutto una religione giuridica, e ad un impedimento alla nascita di una scienza moderna in tutti gli stati islamici.

 

A che cosa dobbiamo dunque imputare l’improduttività intellettuale del mondo islamico nell’età moderna? Neanche Bernard Lewis risponde in modo preciso a questa domanda. Anticipando, vorrei rispondere sostanzialmente come segue: non è l’islam in sé a essere colpevole, non lo è neppure un certo paradigma, finché rimane all’interno del proprio tempo; il problema sorge quando un paradigma viene perpetuato («eternato») oltre la sua epoca. In raffronto: il paradigma ulama-sufi per l’islam del medioevo è adeguato tanto quanto lo è quello cattolico romano per il cristianesimo medievale. Ma il persistere, oltre il medioevo, di questo paradigma una volta mutate tutte le condizioni epocali conduce a una discordanza temporale e dunque all’improduttività intellettuale. Ciò vale per chiesa e teologia della Controriforma e dell’antimodernismo (prescindendo dal Barocco), ma anche per l’islam dell’età moderna, il quale rifiuta allo stesso modo una Riforma e un Illuminismo. I paradigmi religiosi possiedono una elevata capacità di resistenza e di sopravvivenza soprattutto nei casi in cui la religione sia fortemente istituzionalizzata, ma la conseguenza può essere l’improduttività intellettuale, nel cristianesimo come nell’islam come verrà mostrato chiaramente nei prossimi paragrafi. (p. 470)

 

Le pagine più teologicamente dialogiche (e audaci) del libro sono quelle in cui, a partire dalla convinzione che Maometto abbia conosciuto un superstite giudeo-cristianesimo arabico, al quale si sarebbe sentito molto vicino, Küng propone ai cristiani una rilettura non metafisico-greca della condizione di figlio di Dio che appartiene a Gesù.Se anche oggi si riconoscesse l’autenticità del significato originario del Rapporto Dio-figlio, allora anche il monoteismo islamico non avrebbe nulla di sostanziale da eccepire” (p. 586). Personalmente, dubito fortemente che le Chiese cristiane possano seguire Küng su questa linea, che le porterebbe a mettere in discussione se stesse e la propria storia in un modo assolutamente radicale. Le istituzioni religiose tutte, come lo stesso teologo dichiara, sono estremamente conservatrici di sé, e, per usare un’espressione cara ad alcuni spiriti alti, curvae in se.

 

Le generazioni più tarde dei seguaci di una religione cercano di ovviare all’emergente crisi di plausibilità della loro fede e delle sue prescrizioni con l’aiuto della speculazione teologica, che consiste nella maggior parte dei casi nella legittimazione teorica della diretta origine divina di tale religione. Che cosa si ottiene in questo modo? Si prendono le distanze dalle altre confessioni e si afferma la propria pretesa assoluta di verità, stimolando un profondo senso di convinzione e favorendo la coesione del gruppo. (p. 615)

 

Pensando alla Chiesa cattolica e alla sua dogmatica una affermazione come la seguente mi appare davvero dirompente: “… la comprensione coranica di Gesù non va più considerata un’eresia musulmana, bensì una cristologia d’impronta cristiano-originaria su suolo arabo!” (p. 596)

E mi pare che le forze in campo che potrebbero schierarsi con  Küng siano davvero minoritarie.

 

Qualunque sia la prospettiva storica nella quale ci poniamo, è evidente che vi sono affinità contenutistiche tra il Corano e la concezione di Cristo delle comunità giudaico-cristiane. Già cent’anni or sono tali affinità furono messe in luce da Adolf von Harnack e Julius Wellshausen; successivamente, sono state individuate anche da Adolf Schlatter, un esegeta protestante di orientamento conservatore nonché dal ricercatore ebreo Hans-Joachim Schoeps. Ovviamente gli esiti delle loro ricerche non sono stati accolti e resi noti né all’interno dell’islam né all’interno della dogmatica cristiana o del dialogo ebraico-cristiano-musulmano. Non solo i teologi musulmani, quindi, ma anche i dogmatici cristiani delle varie confessioni tendono ad ignorare deliberatamente conclusioni poco gradite della ricerca esegetica e storica, mentre coloro che sono impegnati a favorire il dialogo interconfessionale sono spesso sprovvisti di nozioni teologiche, esegetiche e storico-dogmatiche. (pp. 589-590)

 

Un problema, poi, che il libro lascia del tutto aperto è quello del Mercato. La supremazia dell’Occidente, che dal tempo della spedizione napoleonica in Egitto determina sconcerto e risentimento nel mondo islamico, non è solo scientifica, tecnologica, industriale e militare. Essa è legata anche, e in modo essenziale, al mercato libero. E sul Mercato le idee dei teologi, per quanto avanzati come Küng, mi appaiono sempre in qualche modo arretrate, non all’altezza dei tempi. Essi faticano ad accettarlo. Forse perché dire Mercato significa evocare gli Stati Uniti, e questi nella visione di Küng, e della maggioranza dei teologi, sono poco meno del Demonio.

 

Il testo di Küng è apprezzabile perché fa pensare, solleva perplessità e impone riflessioni, come fanno tutti i libri che val la pena leggere. Ad esso si possono perdonare difettucci come sviste nella frettolosa traduzione italiana (quali “strutture familiari e gentilezze—anziché gentilizie) (p. 199) o affermazioni errate (Anwar as-Sadat avrebbe sconfitto Israele nella guerra dello Yom Kippur, secondo Küng, mentre accadde il contrario, ovvero che gli Egiziani, dopo il loro successo iniziale nell’attacco di sorpresa alle linee nemiche, dovettero chiedere urgentemente la fine delle ostilità perché l’audacissima manovra di Sharon sui Laghi Amari aveva portato l’esercito dello stato ebraico in territorio egiziano, e i carri israeliani puntavano sul Cairo) (p. 550).

 

*  *  *  *  *  *  *

 

È un poderoso sforzo del pensiero quello che sviluppa Vito Mancuso nel suo ultimo libro Per amore. Rifondazione della fede (Mondadori, Milano 2005). Il sottotitolo dichiara la natura ambiziosa dell'impresa: rifondare la fede cristiana, un proposito da far tremare le vene e i polsi. Mancuso è una rara (particolarmente in Italia) figura di teologo non appartenente al clero. Non credo che un prete potrebbe essere audace nel pensiero come lui, nella Chiesa ratzingeriana e post-wojtyliana. Diciamolo francamente: la maggior parte dei teologi-preti, anche i migliori come Bruno Forte, scrivono libri dottissimi e noiosissimi, libri che non ti scuotono. Libri che ti saziano di sapere accademico. E come sono prolifici, quanto scrivono! Se un teologo ha la fortuna di morire in età avanzata, le sue opere riempiono scaffali interi. Sono per lo più libri, tuttavia, in cui si può anche apprezzare il lavoro del concetto, la sua laboriosa fatica, il suo scavare profonde gallerie o edificare immense strutture, ma dai quali sembra mancare, a volte, l'ossigeno vitale. Nel libro di Mancuso invece si respira, si vedono i problemi che stanno davanti ai cristiani, si capisce che essi debbono prendere decisioni all'altezza dell'epoca. Mancuso dichiara apertamente i suoi legami: tre sono i maestri novecenteschi da cui trae linfa, Dietrich Bonhoeffer, Pavel Florenskij e Simone Weil. Tra di essi a mio avviso il rapporto più forte ma intrinsecamente più problematico è quello con Simone Weil.

Centrale nell’argomentazione di Mancuso è, infatti, l’idea del bene. Un’idea che definirei platonico-weiliana. Egli afferma che la superiorità del cristia­nesimo sulle altre religioni si fonda sul ruolo assolutamente decisivo che all’interno della dottrina cristiana ha il bene (p. 36). In sostanza, la rifondazione della fede secondo Mancuso può avvenire solo ancorandola all’idea di bene, poiché la fede che nasce dalla grazia perde ogni carattere ar­bitrario se si comprende la natura della grazia come l’evento gratui­to dell’adesione incondizionata al bene in un mondo che, né a livello storico né a livello naturale, conosce in alcun modo la gratuità, ma dove tutto è sempre e solo forza. Il bene, l’idea del bene puro, è ciò che ci muove interiormente a credere in Dio—afferma Mancusoed è ciò che ci fa legittimamente ritenere che il mistero di Dio sommo bene sia stato definitivamente e irreversibilmente svela­to dalle parole e dai gesti di Gesù.(ibidem). Il carattere fondamentale del mondo è il dominio della forza, e questo è anche il carattere della storia. Natura e storia non appaiono realtà essenzialmente differenti. La forza è il segreto dell’essere (p. 50). E se gli umani, come ogni realtà di questo mondo, stanno sotto il dominio della forza, è a motivo del loro essere energia. Quella dell’energia come realtà unificante la sfera materiale e quella spirituale mi pare l’idea più stimolante—e altresì problematica—di questo libro. Essa lascia aperto, tuttavia, il problema della creazione. Come, infatti, dal sommo bene può essere venuto all’essere un mondo in cui il bene propriamente non c’è, se non nella forma della negazione di ciò che è proprio del mondo, ovvero la forza ed il suo uso ai fini della propria affermazione? E infatti anche la violenza, di per sé, secondo Mancuso, non è il male (p. 287) fino a che non si è colta la realtà dell’altro come un Tu (e cioè fino a che non si può corrompere ed annientare il bene in quanto tale). E anche questo punto mi pare problematico. Sempre che si pensi ad una origine del mondo da Dio (cosa che nel libro non è chiara: vedasi, a pag. 230, senza l’uomo Dio non esiste nel piano superficiale dell’essere […] È la fede dell’uomo che pone l’esistenza di Dio).

 

Gli uomini, come ogni altra parte della natura, sono energia. Ogni essere umano, come ogni altro ente dell’universo, è un centro di energia. E come tale, attrae o viene attratto a seconda che incontri un centro di energia a lui più o meno superiore. Forza ed energia sono strettamente correlate. Dovunque, chi è più forte attrae chi è più debole, chi è più debole viene attratto da chi è più forte. Un’energia di pari intensità dà luogo a un equilibrio delle forze (con­dizione necessaria per la nascita dell’amicizia e dell’amore durevole).

La legge di gravità, che è la legge fondamentale del mondo fisico in quanto «chiave che spiega l’espansione dell’universo», ha un’in­fluenza assolutamente decisiva anche sugli uomini e sul loro com­portamento. Così come muove i pianeti e le stelle, la legge dell’attra­zione gravitazionale struttura pressoché tutti i rapporti umani, dalla politica alla famiglia, dall’economia alle amicizie. Il sistema solare è un’immagine coerente della situazione umana nella quale pure vi sono stelle, pianeti, satelliti. Già in un gruppo di bambini. Prendete alcuni bambini a caso e lasciateli insieme per una o due ore. Presto vedrete la formazione di un sistema, un piccolo sistema solare, fatto di una stella che attrae a sé i pianeti, alcuni dei quali, a loro volta, avranno anche i loro satelliti. Se capita che di stelle della medesima massa ve ne sia più di una, il sistema si spacca. (p. 45)

 

Ogni filosofia che non parli dell’essere come forza è falsa, afferma Mancuso (p. 55). Condivido queste parole. Tuttavia, penso che un’attrazione e una forza nei termini in cui ne parla Mancuso restino ancora semplici astrazioni, e presentino un aspetto per così dire eccessivamente meccanico se non vengono declinate in termini di mimesi, che in questo libro affascinante è la grande assente (anche se compare fuggevolmente, con un paio di citazioni di Girard). Ugualmente, mi sembra di capire (vedi pag. 81) che Mancuso pensi alla nascita del religioso come precedente le forme di organizzazione sociale degli umani, come adorazione della forza naturale cui seguirebbe l’adorazione della forza sociale. Impostazione che va rovesciata. L’uomo è sociale in quanto tale, e la prima esperienza della forza è quella della forza dell’altro uomo.

 

L’errore sta nella teologia della creazione e nella conseguente teologia della storia che vi si lega. L’errore sta nella nozione di governo e nel concetto di un mondo totalmente sottoposto a un Signore onnipotente, un mondo senza libertà, che tale governo suppone. È alla luce della concezione di un mondo totalmente subordinato e gover­nato, che il disordine del mondo viene necessariamente letto come colpa. Ecco il punto: se «governo divino = ordine,» allora «disordine = colpa». Il disordine del mondo, che appare inequivocabile agli oc­chi, contraddice l’ordine postulato dall’infallibile governo divino, e quindi viene necessariamente interpretato non solo come male og­gettivo ma più radicalmente come colpa. Il male è pensato come tra­sgressione dell’ordine. (p. 118)

 

Ma l’esistenza di un ordine dell’universo (al di là del disordine apparente) è il presupposto di ogni metafisica. E, in effetti, uno dei problemi più difficili per il pensiero religioso è quello del rendere conto della sofferenza e della violenza  legate all’essere nel mondo. Sofferenza che appare già nel mondo animale, e forse ancor prima in quello vegetale. Mi pare difficile osservare la dentatura di uno squalo, di un coccodrillo o di una tigre e rendere lode al Creatore dal punto di vista della preda. Da ciò l’arduo tema della Caduta della Creazione, e la tentazione del dualismo manicheo di cui Simone Weil sentiva fortissimamente il fascino.

 

23 febbraio 2006

 

DUE LIBRI, UNA PAGINA

 

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