CON IL SANGUE
DEGLI ANTICHI
L’ombra del rito nella Border Trilogy di Cormac
McCarthy
(parte prima)
Fabio Brotto
CAVALLI
SELVAGGI
Nella parte iniziale di All the Pretty Horses
(1), il primo romanzo della Border Trilogy di Cormac
McCarthy(2), appare una visione, in apparenza quasi gratuita e slegata
dall’insieme della storia del giovane John Grady Cole, in realtà fondamentale per una interpretazione
del senso complessivo dell’intera trilogia. Le vicende narrate nei tre romanzi
si svolgono negli anni Quaranta del secolo scorso, l’Epilogo è collocato nel
secondo anno del nuovo millennio, ma in ogni tempo e luogo si stende l’ombra
dell’antico rito, che si svela anche
nelle visioni e nei sogni di cui il racconto di McCarthy è trapunto, un rito di
sangue che rimanda alle origini violente dell’umano.
In the evening he saddled his horse
and rode out west from the house. The wind was much abated and it was very cold
and the sun sat blood red and elliptic under the reefs of bloodred cloud before him. He rode where he
would always choose to ride, out where the western fork of the old Comanche road coming down
out of the Kiowa country to the north passed through the westernmost section of
the ranch and you could see the faint trace of it bearing south over the low
prairie that lay between the north and middle forks of the Concho
River. At the hour he’d always choose when the shadows were long and the
ancient road was shaped before him in the rose and canted light like a dream of
the past where the painted ponies and the riders of that lost nation came down
out of the north with their faces chalked and their long hair plaited and each
armed for war which was their life and the women and children and women with
children at their breasts all of them pledged in blood and redeemable in blood
only. When the wind was in the north you could hear them, the horses
and the breath of the horses and the horses’ hooves that were shod in rawhide
and the rattle of lances and the constant drag of the travois poles in the sand
like the passing of some enormous serpent and the young boys naked on wild
horses jaunty as circus riders and hazing wild horses before them and the dogs trotting
with their tongues aloll and foot-slaves following
half naked and sorely burdened and above all the low chant of their traveling song which the riders sang as they rode, nation
and ghost of nation passing in a soft chorale across that mineral waste to
darkness bearing lost to all history and all remembrance like a grail the sum
of their secular and transitory and violent lives. ( p. 5) (…)
He crossed the old trace again and
he must turn the pony up onto the plain and homeward but the warriors would
ride on in that darkness they’d become, rattling past with their stone-age
tools of war in default of all substance and singing softly in
blood and longing south across the plains to Mexico. (p. 6, corsivi miei)
Il sangue, blood, compare fin dall’inizio nell’universo di segni del primo romanzo, in una frase che appare meramente descrittiva, ma è pregna di senso e, per così dire, generativa. (3). “The wind was much abated and it was very cold and the sun sat blood red and elliptic under the reefs of bloodred cloud before him”. Come vedremo, le immagini di sangue legate al sole si connettono al Messico, la terra che nella Trilogy è dialetticamente legata all’al di qua americano in una continua serie di attraversamenti, una terra segnata da un passato di sangue, la terra della civiltà sacrificale per eccellenza, quella degli Aztechi, e terra del Dio Sole. Il sangue ritornerà nella chiusa, come a conclusione di un ciclo. C’è una perfetta simmetria tra l’inizio e la fine di All the Pretty Horses: l’eroe della storia narrata, colui che aveva contemplato il popolo guerriero Comanche scendere lungo il sentiero che lo porta in quella oscurità che esso è divenuto, nel mondo passato, a sua volta, divenuto simile a un’ombra, passa nella terra che si oscura, nella tenebra del mondo futuro. Ma questo non è un mero discorso poetico sul divenire, o una lamentazione della caducità di tutte le cose: è una perfetta sapienza della logica sacrificale, quella per cui all of them sono pledged in blood and redeemable in blood only. Il pegno della vita umana è il sangue, ed essa può essere riscattata solo dal sangue. Le origini dell’umano sono violente, il meccanismo tende a riprodursi all’infinito, e il cerchio ne è l’immagine perfetta (4).
Il vecchio Luis, che come molti vecchi messicani della trilogia appare dotato di una saggezza ancestrale, dice a John Grady che allo stesso modo in cui il curandero prescrive la carne di serpente come cura del suo morso velenoso, così gli uomini pensano che la cura per la guerra sia la guerra (p. 111). Coloro che hanno familiarità col pensiero di René Girard sanno dove collocare questa formulazione (5). Quella strada antica percorsa dalle antiche larve guerriere non è, in realtà, estranea all’eroico protagonista del primo (e coprotagonista del terzo) romanzo della Trilogy. La visione che sta all’inizio del primo romanzo, infatti, presenta un carattere totemico, esattamente come quella dei lupi danzanti all’inizio di The Crossing: come in quest’ultima, l’eroe appare inizialmente quale un eletto, ma la sua elezione, segnata da una identificazione impossibile, non può che portarlo ad un destino di sacrificio, secondo una ferrea necessità che è quella di tutte le tragedie. In McCarthy il sacrificio è lungamente differito – nel caso di Billy, l’eroe del secondo romanzo, in modo particolare – , ma non può non avvenire, se pur mediato simbolicamente. Esso sta lì, in attesa fin dall’inizio. I Comanche sono la cifra dell’antica frontiera, quella che si apriva alla penetrazione dell’eroe civilizzatore (non a caso in Blood Meridian(6) il loro spettrale attacco rappresenta una delle massime demistificazioni possibili – ma nuda e priva di antiretorica – della retorica della Frontiera), che nella narrativa western tradizionale, compreso il cinema western classico, appare come il portatore dei valori dell’Occidente cristiano nelle terre selvagge dell’Ovest. L’elezione di John Grady avviene non a caso alla soglia del passaggio dal Moderno al Post-moderno, alla fine degli anni Quaranta: l’assunzione senza residui del codice western da parte sua, unita al culto del “cuore ardente”, la cui cifra è il cavallo, segna la sua destinazione alla rovina. Poiché quel codice è fuori tempo, e l’eroe non può più avere nella sua rigorosa applicazione uno strumento di vittoria (7).
What he loved in horses was what he
loved in men, the blood and the heat of the blood that ran them. All his
reverence and all his fondness and all the leanings of his life were for the ardenthearted and they would always be so and never be
otherwise. (p. 6, corsivi miei)
È notevole il fatto che queste espressioni di amore per la vita di uomini e cavalli scaturiscano nel momento in cui, lungo il vecchio sentiero di guerra indiano, come se fosse “giunto alla fine di qualcosa”, John Grady scorge un vecchio teschio di cavallo e lo prende in mano e lo considera. La vita western, il suo eidolon, si condensa nel cavallo, così come l’eidolon di Billy Parham, la natura, si condenserà nel lupo in The Crossing.
Verso la fine del primo romanzo della trilogia, nel sonno John Grady ha un’altra visione, in cui i cavalli hanno un ruolo determinante. Essi si aggirano tra pietre che evocano vecchie rovine, un luogo in cui “un qualche antico ordinamento del mondo è fallito”, e dove le iscrizioni sulle pietre sono state cancellate dalle intemperie. In McCarthy i petroglifi fanno sempre riferimento a civiltà sacrificali, e qui l’ordine inscritto nel cuore del cavallo, puramente naturale e insieme divino, si oppone all’ordine violento della civiltà umana, in cui l’eterno ritorno dell’identico sacrificale è eterno solo in apparenza, perché in realtà è aperto alle forze del dissolvimento, e ha in sé stesso la causa della propria rovina.
In his sleep he could hear the
horses stepping among the rocks and he could hear them drink from the shallow
pools in the dark where the rocks lay smooth and rectilinear as the stones of ancient
ruins and the water from their muzzles dripped and rang like water
dripping in a well and in his sleep he dreamt of horses and the horses in his
dream moved gravely among the tilted stones like horses come upon an antique
site where some ordering of the world had failed and if anything had
been written on the stones the weathers had taken it away again and the horses
were wary and moved with great circumspection carrying in their blood
as they did the recollection of this and other places where horses once had
been and would be again. Finally what he saw in his dream was that the order in the horse’s heart was more
durable for it was written in a place where no rain could erase it. (p. 280, corsivi miei)
Si potrebbe vedere nel sangue che scorre dentro i cavalli, che li
accompagna nel loro visitare “questo e altri luoghi”, destinato a non essere
sparso, ma a costituire la forza vitale in cui risiede l’anima collettiva della
specie, di cui parla il vecchio Luis (p. 111),
l’antitesi alle iscrizioni svanite, che, se non effettivamente scritte col
sangue dei sacrifici, certo rimandano ad antiche pratiche, sono state comunque scritte col sangue degli antichi.
La dimensione di sacrificio in cui è proiettata la vicenda di John Grady trova il suo primo compimento nella sua identificazione, nella scena finale di All the Pretty Horses, con un toro sacrificale in agonia.
The desert he rode was red and red
the dust he raised, the small dust that powdered the legs of the horse he rode,
the horse he led. In the evening a wind came up and reddened all the sky before
him. There were few cattle in that country because it was barren country indeed
yet he came at evening upon a solitary bull rolling in the dust against the bloodred sunset like an animal in sacrificial torment.
The bloodred dust blew down out of the sun. He touched the horse with his heels
and rode on. He rode with the sun coppering his face and the red wind blowing
out of the west across the evening land and the small desert birds flew chittering among the dry bracken and horse and rider and
horse passed on and their long shadows passed in tandem like the shadow of a
single being. Passed and paled into the darkening land, the world to come. (p.302, corsivi miei)
La figura del passare, all’inizio come alla fine (mi pare notevole la triplice ripetizione di passed in un breve spazio) si associa ad immagini di violenza e sacrificio. Come, del resto, ogni riferimento all’ordine del mondo, un ordine che in McCarthy si manifesta come segnato dalla presenza di qualcosa di maligno, e nello stesso tempo di irresponsabile. “Something imperfect and malformed lodged in the heart of being. A thing smirking deep in the eyes of grace itself like a gorgon in an autumn pool” (p. 71). Come se l’essere, che si dispiega agli occhi degli umani essenzialmente nello splendore della natura, avesse in sé una tabe nascosta. Il narratore non è incantato dalla natura selvaggia, che pure evidentemente ama, come lo è Billy Parham, anima ecologista ante litteram, poiché il narratore sa che in natura vige una dura legge, e i lupi danzanti che affascinano il ragazzino sono in realtà dei predatori determinati. Ma nel mondo c’è qualcosa di più grande della natura stessa, ciò che possiamo intendere come la parte abissale della realtà, quel qualcosa che si annida anche nei cuori degli uomini e li porta a commettere l’uno sull’altro violenza e male.
Una struttura arcaica della narrazione è presente nella Trilogy come la prova dell’eroe. In quanto tale, l’eroe deve superare delle prove. Ciò appartiene allo strato più arcaico della narrazione, risale a fasi orali per noi inattingibili, e si manifesta primamente nell’Epopea di Gilgamesh. Spesso le prove sono legate all’eros, come sbarramenti posti dai genitori della fanciulla che l’eroe desidera. In All the Pretty Horses le prove sono proposte dal padre e dalla vecchia zia di Alejandra, la ragazza di cui John Grady s’innamora. Le prove sono anzitutto due sfide al gioco: agli scacchi da parte della zia, al biliardo da parte del padre. Entrambi questi giochi presentano una dimensione mortuaria rilevante ed una serie di simbolismi che qui non è il caso di rilevare (negli scacchi le figure vengono mangiate, il tavolo da biliardo presenta dei fori in cui le bilie precipitano sparendo), ed in entrambi John Grady viene sconfitto, con una evidente anticipazione della sua generale sconfitta nella lotta per il possesso dell’amata Alejandra. Come in tutte le vere tragedie, poi, John Grady sperimenta un conflitto etico interiore. Da un lato, egli è veridico, e spinto dalla sua natura a dire sempre la verità, dall’altro è legato al codice d’onore western che impone, ad esempio, di accogliere un ragazzino solo, come è l’inaffidabile Jmmy Blevins, e proteggerlo, anche se il suo comportamento è sospetto, e la sua compagnia può essere fonte di guai, e impone anche di mentire per salvarlo. E questa menzogna causa la perdita della ragazza amata, perché suo padre non può fidarsi di uno che mente, e la zia è delusa nelle sue aspettative (perché si proietta nella nipote, e avendo amato da giovane un uomo magnanimo, desidera per la nipote un uomo altrettanto magnanimo: una delle tante declinazioni della mimesi umana).
Non superate le prove dell’amore, l’eroe deve
poi affrontare quella della morte, la discesa agli inferi. Essa è rappresentata
dalla reclusione nel carcere di Saltillo, un luogo in
cui la condizione umana maschile è riportata al suo esordio violento. Qui John Grady avrà la rivelazione
che in Messico “Evil is a true thing … It goes about on its own legs.” (194-195).
The
prison was no more than a small walled village and within it occurred a
constant seethe of barter and exchange in everything from radios
and blankets down to matches and buttons and shoenails
and within this bartering ran a constant struggle for status and position.
Underpinning all of it like the fiscal standard in commercial societies lay
a
bedrock of depravity and violence
where in an egalitarian absolute every man was judged by a single standard
and that was his readiness to kill. (182,
corsivi miei)
Il carcere di Saltillo è qui chiaramente definito come un mondo che riproduce l’essenza del grande mondo al di fuori. Certo, tutto vi è semplificato, ma si tratta di un microcosmo in cui vigono le leggi elementari e originarie, che la crescita della civilizzazione non ha abolito ma solo reso più complesse. Il carcere di Saltillo è un universo chiuso retto da una ferrea legge, secondo la quale è stabilita una assoluta eguaglianza di principio: vige uno scambio globale, e nello stesso tempo si ha la possibilità di determinare una gerarchia, che non si regge sulle capacità di scambio di beni, ma sull’abilità nello scambiare colpi (di coltello). Null’altro che la prontezza ad uccidere fonda lo status del singolo. Come in Blood Meridian, anche qui il sistema di scambio non è antitetico alla violenza, ma collaterale ad essa. Nel carcere messicano in cui John Grady e suo cugino realizzano la loro discesa agli inferi, gli uomini sono in una perfetta condizione di reciprocità, e il mercato può procurare anche ciò che serve allo scontro fisico, il cuchillo senza il quale uno non può essere cuchillero, cioè uomo in grado di uccidere un altro uomo a coltellate. Ancora una volta vediamo che la relazione fra violenza e segno è ambigua: anche la violenza si serve di segni, che la preannunciano e talvolta la scatenano. Nello stesso tempo la violenza, cieca dal suo interno, vista da fuori è a sua volta assumibile a segno. E nemmeno nel carcere, tuttavia, essa appare totalmente sregolata e allo stesso tempo coinvolgente tutti: tutti vi possono accedere, certo, ma in momenti assegnati, e in luoghi determinati. Una comunità mimeticamente dissolta in modo totale e senza residui, un caos assoluto storicamente realizzato, non rientrano nell’ambito dell’esperienza. Il caos assoluto è un concetto limite della ragione, e della teoria girardiana anche. Come concetto limite è, tuttavia, irrinunciabile.
In una delle ultime scene della sua vicenda in All the Pretty Horses, John Grady spara ad una cerbiatta. Il suo non è un gesto gratuito, deve mangiare per sopravvivere. Il suo è dunque il gesto di una creatura che deve uccidere un’altra creatura per nutrirsi, un gesto naturale, innocente secondo la legge della natura. E tuttavia ogni uccisione operata da un umano, proprio perché egli è un essere umano, contiene in sé l’elemento simbolico. Qualsiasi uccisione operata da un umano è di per sé inserita entro un universo di segni, è un segno che richiama altri segni (8). Il pensiero di John Grady va al capitano messicano, che forse è morto, e non senza sua responsabilità, a Blevins, della cui morte il capitano è responsabile, ad Alejandra, l’oggetto del suo desiderio amoroso, la cui assolutezza romantica doveva esigere il suo sacrificio di eroe, e che a sua volta doveva necessariamente essere sacrificata alla legge dell’onore.
When reached her she lay in her blood in the
grass and he knelt with the rifle and put his hand on her neck and she looked
at him and her eyes were warm and wet and there was no fear in them and then
she died. He sat watching her for a long time. He thought about the captain and
he wondered if he were alive and he thought about Blevins.
He thought about Alejandra and he remembered her the
first time he ever saw her passing along the ciénaga
road in the evening with the horse still wet from her riding it in the lake and
he remembered the birds and the cattle standing in the grass and the horses on
the mesa. The sky was dark and a cold wind ran through the bajada
and in the dying light a cold blue cast had turned the doe’s eyes to but one
thing more of things she lay among in that darkening landscape. Grass and blood. Blood and stone.
Stone and the dark medallions that the first flat drops of ram caused upon
them. He remembered Alejandra and the sadness he’d
first seen in the slope of her shoulders which he’d presumed to understand and
of which he knew nothing and he felt a loneliness he’d not known since he was a
child and he felt wholly alien to the world although he loved it still. He
thought that in the beauty of the world were hid a secret. He thought the world’s
heart beat at some terrible cost and that the world’s pain and its
beauty moved in a relationship of diverging equity and that in this headlong
deficit the blood of multitudes might ultimately be exacted for the
vision of a single flower. (p. 282,
corsivi miei)
Si osservi l’associazione tra la pietra e il sangue. Nella conclusione
di questo brano non possiamo non percepire la presenza della visione
sacrificale che potremmo chiamare originaria.
In essa il mondo nel suo complesso è un gigantesco
meccanismo sacrificale, in cui la vita dell’insieme ha un costo altissimo. E
qui si intravede lo sfondo messicano della narrazione di McCarthy, poiché è propriamente la
visione religiosa azteca quella che più rigorosamente di ogni altra ha portato
a coerenza il tema del sacrificio come sostegno dell’ordine divino del mondo (9).
Ma mentre per la tradizione sacrificale i conti
tornano sempre (anche se, come sappiamo, ad un certo punto proprio per gli
Aztechi essi non tornarono più, e il loro meccanismo collassò
già prima dell’intervento di Cortés), agli occhi di John Grady si prospetta una
situazione squilibrata, un vero e proprio orrore, in cui il prezzo della
bellezza di un fiore è rappresentato dal sangue delle moltitudini (10). John Grady, fallimentare eroe
postmillenniale, sta in parte al di qua e in parte al di là
della logica sacrificale: essa lo stritola, e anche se lui non vi
acconsente con un atto di responsabilità, ne è trascinato come da una forza
insondabile e ineluttabile..
È da notare come nella parte finale del romanzo compaiano
nuovamente gli indiani, ma in un rapporto singolarmente rovesciato rispetto a
quello in cui si ponevano nella prima visione di John
Grady, che
abbiamo riportato all’inizio: qui non sono loro a passare fantasmaticamente
davanti allo sguardo del protagonista, ma è quest’ultimo che passa e svanisce
davanti al loro sguardo indifferente. I miserandi residui delle grandi tribù
del passato, alle soglie del proprio definitivo scomparire come forma di vita
umana indipendente dalla modernità, vedono passare nel nulla l’eroe
postmillenniale che ha compreso come l’ordine del mondo non abbia
in cura per nulla “… i vecchi o i giovani o i ricchi o i poveri o i bianchi o i
colorati o lui o lei. Per nulla le loro lotte o i loro nomi. Per nulla i vivi o
i morti” (p. 301).
In four
days’ riding he crossed
the
John Grady ha
ucciso un uomo in duello nell’inferno del carcere di Saltillo,
ed è destinato a ucciderne un altro per vendetta nel
terzo romanzo della trilogia, e a morire in seguito alle ferite riportate in
quest’ultimo scontro. Legato alla ideologia western
classica, dell’eroe buono e giustiziere, John Grady coglie l’orrore dell’ordinamento sacrificale del
mondo, ma è totalmente incapace di fuoriuscirne, anche perché, non a caso, è
altrettanto prigioniero di una visione romantico-passionale dell’amore. Quella
visione che intende l’eros come una potenza irresistibile e irresponsabile, che
è essenzialmente mimetica, e che accetta a priori come necessario il legame con
thanatos, con la rivalità e il conflitto.
OLTRE IL CONFINE
I. L’OMBRA DEL LUPO
Anche il secondo romanzo della Trilogy presenta una evidente simmetria tra l’inizio e la fine, con un’inversione analoga a quella che nel primo concerne il rapporto tra John Grady e gli indiani, e che qui investe quello di Billy Parham con i lupi e i cani, ovvero con la natura. Tanto il lupo appare nobile, libero e divino nella prima parte del romanzo, ed è amato da Billy come emblema di tutto ciò che vale, tanto il cane, dopo essere stato segno di sventura (il cane di casa cui l’indiano criminale ha tagliato le corde vocali) alla fine compare in figura di derelitto e viene rifiutato e scacciato, non senza senso di colpa del protagonista. Nella prima grande scena di The Crossing, in uno scenario notturno gelido e incantato, Billy ragazzino assiste alla caccia dei lupi, che inseguono antilopi nella pianura alla luce della luna (sono sette, un numero significativo), e poi li vede danzare, creature altre (… “they seemed of another world entire” – p. 4). I lupi, gli animali più importanti di tutta la storia dell’uomo, la specie rivale, quella da cui la scimmia cacciatrice ha derivato simboli e strategie, l’altro per eccellenza, in cui l’umano stesso talvolta può mutarsi, il supremo cacciatore, il cui grido notturno fa rabbrividire gli uomini e gli amici che sono il suo dono, i cani… (11) I lupi rivelano a Billy qualcosa che egli non capisce, che cercherà di comprendere per tutta la vita. Questa rivelazione è anzitutto un abbaglio: Billy intende che la natura in quanto tale sia una cosa buona, e che quindi più si è vicini ad essa più si partecipi del bene. Ne consegue che gli uomini apparentemente più vicini alla natura, gli indiani, per questo erede della teoria del buon selvaggio ed ecologista in anticipo non possano che essere figure positive, di cui ci si può fidare.
I lupi sono portatori di una conoscenza, o meglio di un modo di conoscere la realtà. “He could feel the presence of their knowing that was electric in the air” (p. 4). Questo modo di conoscere è del lupo e solo del lupo. Ma che cosa è realmente il lupo? Tutta la prima parte del romanzo tratta di questo, ovvero di un tema di cui non si può pensare uno più arcaico. E più legato al tema della violenza, se si tengono presenti i significati che il lupo ha assunto nel corso della storia delle culture umane. Esso è anzitutto il cacciatore e l’uccisore(12). Eppure, nel mondo moderno la sua identità non è più chiaramente percepita, poiché non solo la sua presenza reale nel mondo sta svanendo, ma gli umani non sanno più cogliere l’essere del lupo, e nemmeno sanno più identificarlo. Lo vedono, e lo scambiano con un cane, come accadrà spesso alla lupa che Billy porterà con sé attraverso le contrade del Messico, per riportarla alle montagne della sua origine. I messicani che la vedono la scambiano con un perro.
Billy e suo padre, allevatori di bestiame allo stato brado, si trovano a dover dare la caccia ad una lupa scesa dalle montagne del Messico, che fa strage nella mandria. Cercano di catturarla con le trappole, ma l’animale è molto astuto. Devono quindi ricorrere ai consigli di grandi esperti cacciatori. Nella baracca di un sapiente cacciatore di lupi, mr. Echols, nella quale in assenza del padrone Billy e suo padre sono introdotti dal vecchio Sanders, in alcuni recipienti si trovano interiora di lupo. Qui gli umani sono visti dalla parte dei loro antichi antagonisti e modelli, che stanno ormai per svanire dal mondo, non meno irrevocabilmente delle forme di vita umana di cui i pochi indiani superstiti sono pallido vestigio. La terribilità della specie umana, la sua spaventosa aggressività e potenza distruttiva, risalta in modo particolare vista con lo sguardo di un lupo religioso, un essere inserito nella realtà del mondo, che è in Dio.
The inward parts of the beast who dreams of
man and has so dreamt in running dreams a hundred thousand years and more.
Dreams of that malignant lesser god come pale and naked and alien to slaughter
all his clan and kin and rout them from their house. A
god insatiable whom no ceding could appease nor any measure of blood. The jars
stood webbed in dust and the light among them made of the little room with its
chemic glass a strange basilica dedicated to a practice as soon to be extinct
among the trades of men as the beast to whom it owed
its being. (p. 17)
L’esperienza dell’antro misterioso di mr. Echols precede di poco l’incontro con un vecchio messicano malato e relegato nel suo letto, don Arnulfo (che tra l’altro ha un nome di antica origine germanica in cui compare il lupo, wulf). Con costui Billy sostiene uno dei grandi colloqui che scandiscono questo romanzo, e nei quali il ragazzo parla poco e ascolta molto, perché i suoi interlocutori di volta in volta appaiono dotati di una sapienza che egli può solo accogliere, non è in grado di confutare. Come molti dialoghi della Trilogy, anche questo contiene molti frammenti in spagnolo, lingua che consente a McCarthy un effetto di straniamento: è lingua altra, la lingua del Messico, la lingua degli eredi di coloro che conobbero i riti dei Mexica, coloro che noi chiamiamo Aztechi: una lingua che ha in sé la forza di una vicinanza al passato arcaico. Il vecchio Arnulfo dal suo letto di morte tiene a Billy un vero e proprio discorso, che ha come oggetto la natura del lupo e la sua relazione con l’uomo, e il rapporto dei due esseri con Dio. Il senso profondo del discorso è, come sempre nei momenti cruciali dei romanzi di McCarthy, metafisico-religioso.
El señor Sanders me dice que el señor
Echols es medio lobo el mismo. Me dice que
él conoce lo que sabe el lobo antes de que lo sepa el lobo. But the old
man said that no man knew what the wolf knew. (p.45)
Torna qui il tema della conoscenza del lupo, che abbiamo trovato all’inizio di The Crossing. Il vecchio Arnulfo, che alla fine del colloquio con Billy si proclamerà ignorante di ogni
cosa ed eretico, sostiene che il lupo è inconoscibile
dall’uomo, ma a sua volta dotato di una conoscenza superiore. Il lupo che le
trappole catturano e che gli uomini uccidono, dice, non è che
denti e pelliccia, ma il lupo in sé, il lupo noumenico, il lupo in quel che
propriamente esso è, el lobo proprio, non può essere conosciuto
dagli umani. Si noti come torni la sensazione di elettricità,
legata alla conoscenza del lupo nella scena dell’inizio.
The sun was low in the west and the shape of the light from the window lay
suspended across the room wall to wall. As if something
electric had been cored out of that space. Finally the old man repeated
his words. El lobo es una cosa incognoscible, he said. Lo que se tiene en
la trampa no es mas que dientes
y forro. El lobo propio no se puede
conocer. Lobo o lo que sabe el
lobo. Tan como preguntar lo que
saben las piedras. Los arboles. El mundo. (ibidem)
Si potrebbe intravedere un atteggiamento kantiano,
in questo vecchio che si va spegnendo, ma in realtà la sua è
piuttosto una visione mistica: una mistica arcaica in cui il mondo è un tutto,
e questo tutto è divino, e questa divinità si manifesta in stretto legame col
sangue. Il lupo è cacciatore. E sa che cosa significhi
realmente essere cacciatore. Ma dunque lo sa anche Arnulfo, che protesta di non sapere nulla, ed è uomo.
Secondo Arnulfo, gli uomini pensano che il sangue
versato non abbia conseguenze, ma il lupo ne sa di più.
Es cazador,
el lobo, he said. Cazador. Me entiendes?
The boy didnt
know if he understood or not. The old man went on to say that the hunter was a
different thing than men supposed. He said that men believe the blood of the
slain to be no consequence but that the wolf knows better. He said that he wolf
is a being of great order and that it knows what men do not: that there is no
order in the world save that which death has put there. (ibidem)
Ciò che il lupo sa, e gli umani non sanno, secondo
il vecchio messicano è questo: che l’ordine del mondo
dipende solo dalla morte. Ma in che senso questa è una conoscenza del lupo, di
quell’essere che in quanto lobo propio gli uomini non possono
conoscere? Evidentemente questa non è licologia, ma antropologia mitologica, in cui il lupo è una
cifra dell’umano, come è sempre stato. L’idea che
l’ordine sia legato alla morte, infatti, è l’idea
sacrificale. Gli uomini, che bevono il sangue di Dio,
tuttavia non comprendono la gravità di quello che fanno, e la verità del mondo
sfugge loro. Ma a che uomini pensa il vecchio? Associa
forse tutte le civiltà nella sua condanna? E donde gli
viene il suo sapere? Egli non accenna ad alcuna tradizione, parla come se le
sue idee fossero un puro frutto della sua mente. Conclude
che, come un fiocco di neve nella mano, il vero lupo svanisce nel momento in
cui lo si cattura.
Finally he said that if men drink
the blood of God yet they do not understand the seriousness of what they do. He
said that men wish to be serious but they do not understand how to be so.
Between their acts and their ceremonies lies the world and in this world the
storms blow and the trees twist in the wind and all the animals that God has
made go to and fro yet this world men do not see. They see the acts of their
own hands or they see that which they name and call out to one another but the
world between is invisible to them.
You want to catch this wolf, the old
man said. Maybe you want the skin so you can get some money. Maybe you can buy
some boots or something like that. You can do that. But where is the wolf? The
wolf is like the copo de nieve.
(pp. 45-46)
Eppure, secondo Arnulfo, Billy avrebbe una possibilità di ottenere ciò che cerca,
qualora trovasse il luogo in cui gli atti di Dio e quelli degli uomini sono
indistinguibili, sono una sola realtà.
He said that the boy should find
that place where acts of God and those of man are of a piece. Where they cannot be distinguished.
Y qué clase de lugar
es éste? the boy
said.
Lugares donde el fierro ya está
en la tierra, the old man said. Lugares donde
ha quemado el fuego.
Y cómo se encuentra?
The old man said that it was not a
question of finding such a place but rather of knowing it when it presented
itself. He said that it was at such places that God sits and conspires in the
destruction of that which he has been at such pains to create.
Y por eso soy hereje, he said. Por eso y nada mas. (p. 47)
Poiché v’è da dire che l’intera Trilogy è una delle più complesse
ricerche di Dio rappresentate in forma di narrazione, e questa ricerca è
strettamente, ma dialetticamente, intrecciata col tema dell’arcaico
sacrificale. Le posizioni che vengono di volta in volta
espresse dall’uno e dall’altro dei vari parlanti, che siano contenute in brevi
parole o in lunghi discorsi, non sono mai l’esposizione completa e definitiva
del pensiero di McCarthy, che risulta invece dall’insieme delle vicende e dei
punti di vista. È significativo che l’esistenza di Dio
sia data per scontata dalla stragrande maggioranza dei personaggi, e dal
narratore, e solo sia in questione la sua natura, ed il suo rapporto col mondo
e cogli umani. Arnulfo dice che esiste un luogo (anzi
sono una pluralità) in cui le azioni di Dio e quelle degli uomini non si
distinguono. Ma alla domanda del ragazzo che chiede quale
genere di luogo sia, il vecchio risponde che non sono luoghi che si trovano, ma
che si presentano, e che vanno riconosciuti quando si presentano. Dunque non sono luoghi geografici, ma situazioni. E l’evocazione del ferro e del fuoco rimanda alla potenza
distruttiva degli umani. E questo Dio che sta in
siffatti luoghi di distruzione e attua la distruzione di ciò che con tanta
fatica ha creato è davvero inquietante. Ma non si può
dire che non abbia nulla a che fare con la Bibbia. Del resto, non si può
dimenticare che Billy è di famiglia ebrea, come
mostra il richiamo al Sabbath di
pagina 34. Il Dio oscuro e inquietante, compromesso con la violenza, che
è spesso presente nella Trilogy appartiene alla
tradizione ebraico-cristiana. Solo dall’interno di
questa tradizione, infatti, emerge la piena consapevolezza della natura
violenta del sacro, e della sua tendenza a ripresentarsi continuamente
attraverso una serie infinita di metamorfosi, anche negli ambienti culturali
che si pensano immuni ad esso e addirittura totalmente
estranei ad una prospettiva religiosa. In realtà, il luogo dove le azioni di
Dio e quelle dell’uomo non si distinguono è quello della scena originaria, in
cui l’umano si stacca dall’animale mediante l’evento della rappresentazione,
che, differendo ciò che poi sarà compreso come violenza, fa emergere il segno
umano dal mondo dei segnali animali, e imponendosi come forza superiore che
allontana dal conflitto, si pone come trascendente e divino. Il divino e
l’umano nascono insieme, sono da sempre insieme (13): McCarthy mostra
narrativamente questa verità originaria che l’antropologia generativa declina in termini teorici. Arnulfo non è però consapevole di
questa verità, egli si trova in una posizione di radicale isolamento:
incompreso da coloro che gli stanno intorno, sa di cogliere solo una parte
della verità, ed è per questo che si dice eretico: Y por eso soy hereje, he said. Por eso y nada mas.
Billy è andato da Arnulfo per
averne un suggerimento pratico per catturare il lupo che insidia le sue vacche,
ma ne ha ottenuto un discorso metafisico. La donna che lo accudisce gli
racconta che anche il prete non viene più a trovare il vecchio, perché è un brujo (uno
stregone). È uno che è convinto di saperne più di Dio, un peccatore di orgoglio satanico. La donna invita Billy a pensare
come sia terribile morire senza Dio, essere un rifiutato da Dio. La donna,
tuttavia, di questo vecchio ha cura ugualmente, benché sia un abbandonato da
tutti, anche da Dio, benché non sia neppure un suo parente (è solo uno zio
della moglie morta del suo marito morto).
“Who else would
take this man? You see? No one cares” (p. 48). Le parole della donna acquistano un sapore
profetico quando lei dice a Billy di pensarci, che
questa stessa cosa potrebbe capitare a lui. “Yes mam”, le risponde Billy. La
risposta alla preoccupazione materna della donna, che sa che cosa sia la cura
di un derelitto assoluto, abbandonato
anche da Dio, anticipa la conclusione della vicenda di Billy,
nelle ultime pagine di Cities of the Plain.
Il prendersi cura è la risposta al male del mondo. È evidente come per la donna
questo suo atteggiamento sia la fede. Mentre Billy si allontana, lei
grida “La fe …La fe es todo”(p. 49).
Le parole del vecchio Arnulfo
non sono state senza conseguenze per Billy, che è
ossessionato dalla natura del lupo. Egli si sforza di vedere il mondo come lo
vede il lupo, e si chiede se il sapore del sangue che il lupo avverte sia
differente dal sapore del sangue che scorre nelle sue vene.
He lay awake a
long time thinking about the wolf. He tried to see the world the wolf
saw. He tried to think about it running in the mountains at night. He wondered
if the wolf were so unknowable as the old man said. He
wondered at the world it smelled or what it tasted. He wondered had the living
blood with which it slaked its throat a different taste to the thick iron
tincture of his own. Or to the blood of God. In the
morning he was out before daylight saddling the horse in the cold dark of the
barn. He rode out the gate before his father was even up and he never saw him
again. (pp. 51 -52).
Billy infine riuscirà a catturare la lupa, ma invece di
sopprimerla deciderà di riportarla alle sue montagne, nel Messico oltre il
confine. Questa intenzione ecologista,
che scaturisce da una visione del mondo naturale come in sé buono e perfetto,
porta Billy ad una peripezia
che si conclude nell’arena in cui la lupa viene utilizzata da un gruppo di messicani
come strumento di allenamento per i cani in una serie di feroci scontri. Ad un
certo punto Billy le spara per non farla soffrire, e
si porta via il suo cadavere. I lupicini di
cui è gravida muoiono nel corpo freddo della madre. E Billy può finalmente assaggiare il sangue di lupo, di cui
si bagna, e può sentire come non abbia un sapore
differente dal suo (p. 125). Facendo del lupo che insidia le mandrie una
prossima madre, una tremenda cacciatrice e guerriera,
una she-warrior
dentro cui stanno sorgendo alla vita delle tenere
creature che inesorabilmente morranno, McCarthy ottiene un vertiginoso effetto
di spiazzamento del lettore. La grande
arte ha infatti il potere di far cogliere la realtà come insieme
elementare e complessa. Nello stesso tempo, come Gans
ha chiarito, la grande arte ha la capacità di superare
il risentimento in tutte le sue proiezioni, laddove l’arte popolare di massa
del risentimento si nutre, esaltandolo (14). La storia di Billy
e della lupa, nella sua tragicità, non genera alcun risentimento né intra né extratestuale: Billy non
odia i messicani che gli uccidono l’animale, il lettore comprende che ciò che
avviene è inscritto nell’ordine del mondo: è questo nel suo complesso ad essere
estremamente problematico.
La conclusione della prima parte di The Crossing
si presta perfettamente ad una analisi stilistica,
poiché presenta, a nostro avviso, un concentrato delle caratteristiche
fondamentali della prosa lirica del
McCarthy maggiore, in cui, tra l’altro, è impossibile discernere immediatamente
la prospettiva del narratore da quella del personaggio, e in cui più che di
discorso indiretto libero occorrerebbe parlare di discorso panenteista. La prosa maccartiana è infatti, a nostro
avviso, essenzialmente teologica. È proprio il concetto del Dio totalità,
onnipresente, in tutti gli aspetti della vita e della morte e della sofferenza,
a fornire un punto di vista che può spostarsi continuamente e nello stesso
tempo apparire stabile, onnicomprensivo e onnisciente: ma non secondo il
modello della trascendenza ebraico-cristiana. Questo
Dio che è in tutti gli aspetti del reale è in McCarthy
in problematico rapporto con il Dio sconosciuto, totalmente trascendente ed
enigmatico: sono due dèi? È lo stesso Dio? In altre parole,
McCarthy si pone il problema eterno della giustificazione del male nel mondo in
faccia a Dio, che è tutt’uno col problema dell’essenza di Dio. Quello di
McCarthy, declinato narrativamente a suo modo, è il
problema di Giobbe. McCarthy pone il lettore di fronte ad una difficile sfida:
districare il manifestarsi del Dio trascendente all’interno di una schiacciante
polimorfa e insieme unitaria immanenza, che si dà anch’essa come divina. La
conclusione della prima parte di The Crossing ci mostra Billy e il
narratore (e il lettore) celebranti la visione metafisica del lupo come chiave
per la penetrazione dell’essenza di tutte le cose. Come dire: comprendi
l’essenza del lupo e comprenderai quella del mondo.
He squatted over the wolf and touched her fur. He touched the cold and perfect teeth. The eye turned to the fire gave back no light and he closed it with his thumb and sat by her and put his hand upon her bloodied forehead and closed his own eyes that he could see her running in the mountains, running in the starlight where the grass was wet and the sun’s coming as yet had not undone the rich matrix of creatures passed in the night before her. Deer and hare and dove and groundvole all richly empaneled on the air for her delight, all nations of the possible world ordained by God of which she was one among and not separate from. Where she ran the cries of the coyotes clapped shut as if a door had closed upon them and all was fear and marvel. (p. 127)
Sono perfetti i denti della lupa. Questa
perfezione è forse irrelata alla funzione che i denti di un lupo devono
svolgere? No, e la funzione è addentare, uccidere, fare a pezzi. Il lupo è
l’essere che ha insegnato agli umani lo sparagmós. Qui sta il motivo della fascinazione
che l’uomo avverte nei confronti dei carnivori, soprattutto di quelli che
cacciano in branco. Billy non ha provato attrazione
irresistibile per le antilopi cacciate, ma per i lupi cacciatori. La sapienza
dell’erbivoro è poca cosa in confronto a quella del carnivoro. Il mondo
ordinato da Dio è un mondo in cui tutti gli esseri adempiono la loro funzione,
in cui la lupa non è separata dalla sua nazione
e la sua nazione non è separata dalle altre, ma costituiscono un tutto di
straordinaria ricchezza e bellezza. Il piacere, delight, della lupa, che le deriva dagli odori delle creature di cui è cacciatrice, è legato al terrore che esse provano di lei. E anche il terrore sparso dai lupi è parte della bellezza
del mondo ordinato da Dio. Insieme terribile e di grande
bellezza. È questo un mondo splendido e tremendum, i coyote che tacciono dove corre la lupa
segnalano la sua pericolosità: quanto è bello che tutto sia fear and marvel!
He
took up her stiff head out of the leaves and held it or he reached to hold what
cannot be held, what already ran among the mountains at once terrible and of a
great beauty, like flowers that feed on flesh. What blood and bone are made of
but can themselves not make on any altar nor by any
wound of war. What we may well believe has power to cut and shape and hollow
out the dark form of the world surely if wind can, if rain can. But which
cannot be held never be held and is no flower but is swift and a huntress and
the wind itself is in terror of it and the world cannot lose it. (ibidem)
Sacerdote di un ultimo addio a questa lupa (e forse a tutti i lupi del mondo bello ordinato da Dio), Billy comprende la verità delle parole di Arnulfo. Ciò che è lupo cannot be held, non può essere trattenuto. Sacerdote di un ultimo addio, comprende l’inefficacia di ogni rito quando si è giunti nel punto in cui l’altare e il campo di battaglia non hanno più in sé alcuna capacità di rigenerazione: “What blood and bone are made of but can themselves not make on any altar nor by any wound of war”. Questo punto è il momento storico attuale, in cui i due volti del sacro, che per tutto il percorso storico degli umani si sono sempre riverberati nel sacerdotale e nel guerriero, hanno perduto la loro maschera, e il ruolo della violenza appare demistificato e posto a nudo dall’estremo compiersi della rivelazione ebraico-cristiana.
NOTE
1) Trad. it. Cavalli selvaggi, Einaudi, Torino
2) Everyman’s Library, Alfred Knopf,
3) Interessante potrebbe rivelarsi, in questo senso, la lettura del saggio di Mieke Bal Descrizioni, costruzione di mondi e tempo della narrazione, contenuto nel secondo volume della grande opera collettiva einaudiana Il romanzo, Le forme (Torino 2002), a pag. 189.
4) V’è da dire che percezione del divenire e sacrificio presentano un legame originario. Gli umani hanno un terrore ancestrale del mutamento, e tendono a scongiurarlo in tutti i modi. Il sogno di ogni religione è l’entrata nel mondo senza tempo di Dio. L’immortalità si ottiene strappandosi alla catena delle mutazioni indotte dal tempo. Scrive René Girard ne La violenza e il sacro (Adelphi, Milano 1980): “Accogliere il cambiamento è sempre socchiudere la porta dietro la quale s’aggirano la violenza e il caos. (…) Ogni volta che sono minacciate dal divenire, le società primitive cercano di incanalare la sua forza turbinosa entro i limiti sanzionati dall’ordine culturale” (p. 370). Il modo fondamentale è il sacrificio. Sacrificio che può collocarsi, ad un certo punto dello sviluppo spirituale, ad un livello non puramente fisico, come dimostra, tra gli altri, Mircea Eliade nel suo libro del 1954 Lo Yoga, immortalità e libertà (Sansoni, Firenze 1982), a pag. 336: “Se si vuole arrivare a comprendere questi ‘misteri’, bisogna elevarsi ad un altro modo di essere e , per arrivarci, è necessario ‘morire’ a questa vita e ‘sacrificare’ la personalità scaturita dalla temporalità e creata dalla storia”.
5) Secondo Girard, gli umani da sempre hanno concepito come unica cura
della violenza generalizzata, cui la loro specie è incline, e che minaccia di
dissolvimento le società umane, una dose di violenza socialmente controllata e
ordinata.
6) Trad. it. Meridiano
di Sangue, Einaudi, Torino 1996, pp. 55-58.
Vedasi anche Fabio Brotto, Una prospettiva antropologica per la letteratura, Working Papers Antonio Canova, Treviso 2002, pp. 64-67. Lo stesso
scritto è accessibile nel Web:
http://www.bibliosofia.net/files/VIOLENZA_ARCAICA.htm .
Su Blood Meridian si può leggere in questo sito il brillante scritto
di Dan Moos Lacking the Article Itself: Representation and History in Cormac McCarthy's Blood Meridian:
http://www.bibliosofia.net/files/Dan_Moos__Representation_and_History_in_Blood_Meridian.htm
7)
Si veda l’analisi di Christian Kiefer The Morality of
Blood: Examining the Moral
Code of The Crossing,
riportata in questo stesso sito: http://www.bibliosofia.net/files/Kiefer__The_Morality_of_Blood.htm
8) “While human violence is rooted in the patterns of aggression among
primates, humans transform aggression through reflective self-consciousness
which uses symbols to justify violence” afferma Leo
D. Lefebure nel suo libro Revelation, the Religions, and Violence (Orbis
Books, New York 2000, p. 13).
9) L’ideologia sacrificale azteca è mirabilmente esposta nel libro di Geoffrey W. Conrad e Arthur A. Demarest Religion and Empire, Cambridge University Press, Cambridge 1984.
10) Nel
suo eccellente Fra Dioniso e Cristo
(Pitagora, Bologna 2001), Giuseppe Fornari mette in
luce il rapporto tra violenza e percezione del bello, fondamentale nella
cultura greca: “Tutto ciò che ha a che
fare con il mimetismo per i Greci è kalós, bello, concetto che rende
mimeticamente ambiguo il loro concetto di bene, agathós, ambiguità da cui nemmeno
Platone poteva essere esente. Lo stesso Platone resterà in sostanza un isolato
proprio per aver criticato, e cercato di utilizzare, l’immorale desiderabilità
del kalós, così evidentemente eccitante per i suoi connazionali negli agoni sportivi, nei
rapporti amorosi, nelle tenzoni verbali e politiche, negli scontri guerreschi. Kalós è tutto ciò che è dotato di charis, termine sulla cui sinistra
ambiguità ormai non è il caso di insistere. I Greci non riusciranno a resistere
alla charis del labirinto, delle parate
militari, delle armature eleganti e spaventose sotto cui
si ammazzavano. È questa la Grecia lucida, appassionata, feroce che ci
restituisce Tucidide, e di cui Nietzsche
si innamorerà seguito dalla cultura europea, la Grecia
che Calasso ci ha restituito nelle brillanti
ricostruzioni de Le nozze di Cadmo
e Armonia. Ogni volta al labirinto delle battaglie seguiva il labirinto di
viscere dei campi cosparsi di morti e feriti, ma i Greci erano incuranti di
leggervi un significato, troppo impegnati a innalzare
trofei o a meditare rivincite. Meglio la morte del resto — avrebbero potuto
dire — che i controlli bigotti della politeia platonica”. (p. 432)
11) Un’interessante
presentazione narrativa del fascino del lupo in relazione a
ritorni neopagani in Occidente è quella di Hella Haasse, La pianista e
i lupi (Fenrir,
2000, trad. it. L. Figurelli, Iperborea, Milano 2003).
12) La
straordinarietà della nostra specie è questa: non siamo stati geneticamente
programmati per essere lupi, ma l’origine dell’umano sta
proprio nella improvvisa mutazione di una pacifica comunità di primati in
un’orda di lupi. Sono i
proto umani maschi che si trasformano in lupi cacciatori (e assassini).
Qui si colloca la scena originaria di Eric Gans. Come scrive Walter Burkert
“Che esperienza dovette essere, quando al parente dello scimpanzé riuscì di
impadronirsi della forza del nemico mortale, il
leopardo, di infilarsi nella maschera del lupo, di diventare cacciatore da
animale cacciato! Però il successo portava in sé il
suo pericolo. La più antica tecnica creò uno strumento di morte: già con la
lancia di legno e con l’amigdala vennero date in mano
all’uomo armi di una pericolosità, alla quale non si era provveduto nel
programma dei suoi istinti. I germi della inibizione a
uccidere, che sono presenti, persero la loro efficacia non appena fu possibile
l’uccisione a distanza; anzi essi dovettero, almeno negli individui di sesso
maschile, venire addirittura soppressi con atti educativi a favore della
caccia; altrettanto facile, anzi ancor più facile è uccidere un uomo che non un
veloce animale. Il cortocircuito del cannibalismo si è quindi continuamente
ripresentato a partire dalle età più remote. L’autodistruzione dell’uomo a opera dell’uomo fu pertanto sin dall’inizio
un pericolo costante” (Homo necans, 1972, trad. it. F. Bertolini, Boringhieri, Torino 1981).
13) Il divino in quanto percepito dagli umani, specifichiamo
noi, che non ci ritroviamo senza residui metafisici all’interno della posizione
gansiana. È noto che la prospettiva di Eric Gans
è immanentistica: la trascendenza che egli concepisce
è solo quella del segno. Egli è convinto della validità della rivelazione ebraico-cristiana, letta però con categorie puramente
antropologiche. “The
anthropological truth of the central biblical texts of
revelation can only be understood today in the context of a theory of the
revelatory scene that avoids recourse to supernatural beings or forces” (Science and Faith, Rowman
& Littlefield, Savage, Maryland 1990).
14) Eric Gans ha spesso trattato
questo tema. Si può vedere l’ultima delle sue Chronicles sull’argomento,
tradotta in italiano in questo sito, http://www.bibliosofia.net/files/Estetica_alta_e_bassa.htm .