IL SACRO, LA VIOLENZA E LA LETTERATURA

Ciclo di conferenze

III

Violenza arcaica e capro espiatorio in Jean Giono, Cormac McCarthy e altri narratori

Fabio Brotto

brottof@libero.it

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Il mio intervento è diviso in due parti. Nella prima presenterò alcune idee di fondo, richiamando concetti già fissati negli incontri precedenti, mentre nella seconda delineerò gli aspetti antropologici per me più interessanti, come emergono dall'opera letteraria di tre scrittori, di cui due sono viventi.

"Non ha segno, la violenza, ma è. E' il mondo senza ragione, l'individuo chiuso in un suo scopo tetro e impenetrabile. Impenetrabile anche perché disperato, naturalmente. Sull'individuo convinto che scopo unico della vita è realizzare se stesso a qualunque costo, manifestare in qualunque modo il suo essere qui, in questo mondo, e che non c'è altro, la ragione non ha nessuna presa. Quel che egli vuole è la soddisfazione della sua brama. Ora, questa è la convinzione fondamentale che la società moderna, con le idee in essa prevalenti e il modo di vivere che essa impone, ha istillato negli individui, il solo assoluto che essa sia stata capace di esprimere: il diritto di ognuno alla soddisfazione totale, il possesso da parte di ognuno della ragione per diritto naturale, l'espressione di sé come scopo ultimo della vita. La demenza, la violenza e l'avvilimento in mezzo a cui viviamo hanno la loro origine morale in questo principio che non è né di sinistra né di destra, né d'avanguardia né di retroguardia, e al quale nessuna società, nessuna forma di cultura o di vita spirituale possono alla lunga resistere. Tuttavia, assurdo com'è, oggi come oggi esso impera. Continuerà a imperare ancora per molto, perché la malignità della sua natura è ancora ben lontana dall'essere esaurita... Ma non ha verità. E, non avendo verità, merita soltanto ironia da una parte, pietà dall'altra."

Questo bel passo di Nicola Chiaromonte, che ho preso da II tarlo della coscienza (edito da il Mulino) pone, nella sua densità, una serie di problemi. Del resto, vedremo che ciò che dice si può applicare alla condizione esistenziale di molti personaggi dei libri di cui ci occuperemo. Da queste righe che ho letto apprendiamo anzitutto che la violenza, nel suo puro darsi, è estranea al mondo del segno. E noi infatti abbiamo visto come nell'ipotesi gansiana il segno nasca proprio nel momento del rischio di un'esplosione totale della violenza, dando luogo al suo differimento. Essa è il mondo senza ragione, ed è contrassegnata dalla chiusura dell'individuo, laddove la ragione è dialogica e trasparente. Lo scopo individuale è impenetrabile agli altri proprio nel momento in cui tutti gli individui sentono come un assoluto non negoziabile il proprio singolare diritto all'espressione di sé. Quello che scrive Chiaromonte, tuttavia, pone un difficile problema: quello della definizione della violenza, se essa sia un'espressione storica, il cui concetto muta nel tempo fino al punto di diventare assolutamente relativo, dando luogo anche a tipi di violenza - al limite neppure confrontabili tra loro (da quella economica a quella culturale, da quella sessuale a quella sportiva, a quella sulla natura, ecc. ecc.) - o se essa presenti uno sfondo originario, primordiale, una modalità di manifestazione arcaica. A Gans, tempo fa, avevo obiettato, in merito alla sua scena originaria, che "The males of the other species don't kilI, or rarely kill each other. Therefore we have to hypotesize about the originary scene a condition in which proto-humanity was involved in a terrifying degree of violence. Such a violence had not to be purely 'animal, to ignite the process of deferral through the sign. What created humanity was then a violence always already human? How can we avoid a sort of "petitio principii"? Mi pare, infatti, che presupporre un iper-mimetismo nell'essere pre-umano sia uno spostare indietro il problema. Cosa spiega una tale aggressività nei maschi della specie pre-umana da cui l'uomo è uscito, che la differenziano così radicalmente dagli altri animali? Del resto violenza è già una categoria dell'umano, i leoni non sono violenti. Ed anche il desiderio, riconosce Gans, è una caratteristica specifica dell'uomo, che lo sottrae alla sfera del mero appetito. Se desiderio e violenza sono legati e sono già in sé umani, non possono essere i motori della scena originaria da cui nascerebbe l'umano come differimento della violenza e linguaggio. Gans mi ha risposto così: The notion of a potential general violence corresponds to the higher level of mimesis that we may postulate as present among humans, have been shown to engage in "triangular" situations, so the originarv hypothesis merely proposes that at some point the tension provoked in the group by mimetic desire is so great that it can only be discharged efficiently by a sign, whether or not followed by a "scapegoating" act as in Girard. "Violence" is not an absolute but a relative categorv that provokes the crea tion of a new means for deferring it. Dove risulta evidente che per lo studioso californiano quella di violenza è una categoria relativa, anche quando si parla di ominidi. E noi aggiungiamo che lo è a tal punto, oggi, che perfino la sua espressione più terrificante per noi, cioè quella del terrorismo, è relativa. La stessa qualificazione di terroristico viene attribuita ad un atto solitamente da chi lo subisce, non dagli autori. A maggior ragione il termine violenza è espressione che proviene non da chi la compie, ma da chi la subisce. E il confine della violenza è quello con la forza. Poche questioni mi appaiono così problematiche come quella del confine tra la forza e la violenza. Simone Weil, nel suo scritto del 1939-41 sull'Iliade, (L'Iliade poema della forza, in La Grecia e le intuizioni precristiane, Borla 1999) non distingue tra i due termini, ma ci comunica qualcosa che secondo me è fondamentale, e ci consente, se vogliamo, quella distinzione. Scrive dunque Simone Weil:

"Il vero eroe, il vero argomento, il centro dell'Iliade, è la forza. La forza adoperata dagli uomini, la forza che piega gli uomini, la forza dinanzi alla quale si ritrae la carne degli uomini. L'anima umana vi appare continuamente modificata dai suoi rapporti con la forza: travolta, accecata dalla forza di cui crede disporre, si curva sotto l'imperio della forza che subisce. Chi aveva sognato che la forza, grazie al progresso, appartenesse ormai al passato, ha voluto vedere in questo poema un documento; chi sa discernere la forza, oggi come un tempo, al centro di ogni storia umana, vi trova il più bello, il più puro degli specchi.

La forza è ciò che rende chiunque le sia sottomesso una cosa. Quando sia esercitata fino in fondo, essa fa dell'uomo una cosa nel senso più letterale della parola, poiché lo trasforma in un cadavere. C'era qualcuno, e un attimo dopo non c'è nessuno."

A mio parere, occorre distinguere due declinazioni della forza. La forza-violenza, mi pare di poter dire, è potenza impiegata per umiliare e reificare degli esseri umani, ed è quella di cui parla qui la Weil, laddove la forza-forza è potenza impiegata per aprire spazi di vita ad altri esseri umani, o a se stessi, impedendo l'umiliazione e la reificazione. Questo come concetto, ma i fenomeni umani sono spesso intricatissimi, e diventa difficile discernere i due aspetti della potenza. Di questo, più che la filosofia, che tende a lavorare sul concetto e non sul fenomeno, può dar conto la narrativa, che dispiega il fenomeno davanti agli occhi di chi vuol vedere, mediante la sua rappresentazione. La violenza nel mondo antico è trasparente nell'Iliade e nell'Eneide, ed è terrificante. Nei libri dei filosofi non la troveremo, perché il filosofo distoglie il suo e il nostro sguardo così dall'altare sacrificale come dalla Gorgone. Anche perché il filosofo ama le realtà che si prestano alla distinzione, alla separazione dei contrari cristallizzati nella luce del concetto, mentre la violenza, che sfugge al concetto, ci offre più volti nello stesso momento. In essa terrore ed ebbrezza possono coincidere, e anche, se vogliamo guardare a fondo, il terrore e la felicità. Vorrei rimandare, a questo proposito, alle pagine 43-45 della monumentale opera di R.B. Onians Le origini dei pensiero europeo, edita da Adelphi, in cui dell'omerica karme, l'ardore guerriero, si dice che "in origine doveva significare qualcosa come 'gioia"', mentre il sanscrito rana, il cui significato primario è "gioia, piacere" denota in molti contesti la battaglia. Se torniamo ora un momento al brano di Chiaromonte che abbiamo letto, ove la violenza sembra sortire dai melanconici abissi di un cuore nichilista dostoevskiano, dobbiamo concludere che Chiaromonte parla di una violenza tipicamente occidentale moderna, a carattere fondamentalmente autodistruttivo. E però questa, anche oggi, è solo una delle forme della violenza.

Nella Storia delle credenze e idee religiose di Mircea Eliade leggiamo un passo su cui vale la pena di soffermarsi: ... "OdinoWotan è un dio della guerra, dato che, come scrive Dumézil, " nell'ideologia e nella pratica dei Germani, la guerra ha pervaso e colorato ogni cosa " (...), ma nelle società tradizionali, e soprattutto presso gli antichi Germani, la guerra costituisce un rituale giustificato da una teologia. C'è anzitutto l'assimilazione del combattimento militare al sacrificio, poiché tanto il vincitore quanto la vittima apportano al dio un'offerta cruenta, trasformando così la morte eroica in un'esperienza religiosa privilegiata; in secondo luogo, la natura estatica della morte accosta il guerriero al poeta ispirato, come anche allo sciamano, al profeta e al saggio visionario. Proprio grazie a questa esaltazione della guerra, dell'estasi e della morte, Odino-Wotan acquista il suo carattere specifico.

Il nome Wotan deriva dal termine wut (lett. 'furore'); si tratta dell'esperienza specifica ai giovani guerrieri, che tramutava la loro umanità con un accesso di furia aggressiva e terrificante e li rendeva simili ai carnivori eccitati. Secondo l'Yngiinga Saga (cap.VI), i compagni di Odino "andavano senza corazza, selvaggi come cani o lupi, mordevano i loro scudi ed erano forti come orsi e tori. Massacravano gli uomini, e contro di loro non valeva né fuoco né acciaio. Questo veniva chiamato il furore dei bersekir (lett. i guerrieri con la pelle, serkr, d'orso "); erano anche noti sotto il nome di ulfhedhnar, 'uomini dalla pelle di lupo'.

Si diveniva berserkr in seguito a un combattimento iniziatico. Così presso i Catti, scrive Tacito (Germania, 31), il postulante non si tagliava barba, né capelli prima di aver ucciso un nemico; presso i Taifali il giovane doveva abbattere un cinghiale o un orso, e presso gli Eruli doveva combattere senz'armi. Attraverso queste prove il postulante acquistava la natura di una belva; diventava un guerriero temibile nella misura in cui si comportava come un carnivoro. " Ora, qui possiamo vedere uno degli aspetti paradossali della violenza umana. Essa è dissoluzione, scatenamento del caos, fuoriuscita - ek-stasis - dall'ordine umano del segno, non ha segno, come dice Chiaromonte. Ma, nello stesso tempo, è proprio la sua contemplazione da parte di chi non è immediatamente coinvolto in essa a generare segni. Dall'originaria emissione del primo segno, che la differisce, secondo Gans: al racconto che ne comunica gli effetti, che la descrive nel suo dilagare, nel suo, infine, essere fermata da una violenza contraria; al discorso che la prevede, che pone dinanzi agli ascoltatori i mezzi che possono differirla, od opporsi con violenza simmetrica; alla poesia che la celebra iscrivendola entro un orizzonte di segni che ne occulta il carattere orrendo facendo prevalere l'aspetto fascinoso dello splendore eroico. E nella rete dei segni che avvolge la violenza umana, da sempre, in Occidente, la violenza individuale e solitaria trova nell'orso il suo emblema, mentre quella, culturalmente assai più produttiva in quanto collettiva, di gruppo, si vede riflessa nel branco dei lupi. Ed allora, se ciò che cerchiamo non possiamo trovarlo nei libri dei filosofi, lo cercheremo nei narratori, che appunto dal tempo di Omero mostrano ciò che, se vogliamo, possiamo vedere.

I volti della violenza arcaica mi sembrano tre: lo scatenamento del furore guerriero, il terrore affascinato davanti a questo stesso scatenamento, il linciaggio di un capro espiatorio Tra i narratori del Novecento in cui la violenza appare nella sua forma arcaica e primaria ne ho scelto tre, Jean Giono, Cormac McCarthy e Sven Delblanc. Sono di diversa statura: Giono e McCarthy sono grandi, Delblanc è un onesto scrittore. Nelle considerazioni che ora faremo sopra alcuni romanzi degli autori che ho indicato dovremo tener presenti gli elementi che ho messo in rilievo, e naturalmente anche quello che è emerso nelle precedenti conferenze.

Non mi soffermerò a lungo sul romanzo di Sven Delblanc (1931-) La notte di Gerusalemme (1983, edito in Italia da Iperborea). Delblanc è un autore fecondo ma non particolarmente profondo né geniale per quel che concerne gli aspetti specificamente letterari. Tuttavia proprio per questo mi sembra interessante che emerga anche in lui la sapienza del capro espiatorio. E' per questo che ce ne occupiamo, nonostante la mia repulsione per gli scrittori di medio livello che si cimentano nella forma del romanzo storico con personaggi cruciali della storia e della religione, quali Gesù, Giuda ecc., come in Italia ha fatto anche di recente Sebastiano Vassalli. La storia di Delblanc - si tratta di un breve romanzo di appena 127 pagine - è ambientata presso le mura di Gerusalemme, mentre la città è assediata dai Romani di Tito, nel 70 d.C. Il Vangelo non è qui chiamato in causa direttamente, ma se ne denuncia il fallimento. C'è un'eclisse di sole, che il narratore (la storia si presenta come una lettera scritta da un filosofo greco al servizio di Tito, Filemone di Megara) aveva previsto e che getta le superstiziose truppe romane nell'angoscia. La situazione è molto girardiana: l'eclisse rappresenta uno sconvolgimento dell'ordine naturale-sociale, e la minaccia del caos esige una vittima, un capro espiatorio, il cui linciaggio unanime restaurerà l'ordine naturale ed umano. Lo si troverà nel vecchio Eleasar, che fu seguace di Gesù, ma che ora ha perso la fede. Sarà crocifisso come il maestro, e come lui pronuncerà parole che nessuno comprende, ma che ci appaiono essere di totale disperazione. Probabilmente, Delblanc ha presente quel fatidico testo di Jean Paul (Discorso del Cristo morto, il quale, dall'alto dell'edificio del mondo, proclama che non vi è Dio alcuno) in cui si manifesta l'immane vuoto e insensatezza del mondo senza Dio. Eleasar racconta a Tito di aver visto Dio. "Ma questa visione non mi aiutava a recuperare la fede. Dio è: è vero, è così immensamente più grande del Dio di Israele. E' troppo grande per poter vedere e capire i nostri bisogni terrestri. Siamo un granellino di polvere nel suo occhio, niente di più, un granellino che si illumina, quasi per caso, nel raggio solare del tempo che trascorre, ma che non esiste per lui e per il suo eterno presente. E quelli che chiamiamo i suoi profeti sono nostre creazioni, fatte per essere acclamate da noi e crocifisse da noi, per essere innalzate e umiliate, mentre il creatore eterno è ed è soltanto". Qui, direbbe Gans, è all'opera il risentimento per il sottrarsi dell'oggetto centrale, o direbbe un cristiano, il risentimento che nasce dal constatare che Dio non ci salva nel modo che noi vorremmo.

Mi soffermerò brevemente sui due più famosi romanzi di Jean Giono (1895-1970), L'ussaro sul tetto (1951), e Una pazza felicità (1957), editi in Italia da Guanda e TEADUE, dedicando maggiore spazio ad altre due opere. Nel primo dei due testi che ho nominato il protagonista Angelo compare sulla scena della narrazione durante l'imperversare di un'epidemia di colera. Ormai sappiamo, alla luce della teoria antropologica girardiana, quale sia la valenza delle epidemie rispetto alle strutture comunitarie. La Provenza del romanzo (in questa, che è la regione in cui ha vissuto sempre, Giono ambienta tutte le sue storie) è descritta nella classica situazione dei luoghi in cui imperversa una peste. Angelo giunge nella città di Manosque che si trova nello stress da pestilenza, e vi giunge pericolosamente, da straniero (è italiano). Il popolo della città si è convinto che il colera sia provocato da agenti del governo che avvelenano le fontane. Angelo, accaldato, tuffa le mani in una fontana, e subito viene individuato come un avvelenatore: "Ha gettato del veleno nella fontana degli Observantins. E' un complotto per far perire il popolo. E' uno straniero. Ha degli stivali da milord" (114-115). E la folla si dispone immediatamente al linciaggio. Ecco qua in poche parole condensata la sapienza del capro espiatorio, posseduta fra gli altri da Manzoni, pienamente dispiegata nella teoria di Girard. Vi troviamo la pura accidentalità dell'individuazione della vittima. Per accidens Angelo viene scorto mentre sta tuffando le mani nella fontana. I sacchetti di veleno non ci sono in realtà, ma devono esserci stati, secondo la folla. Esiste un complotto che ha come fine l'annientamento della comunità: la malattia che infuria ne è la prova inconfutabile. E non mancano i segni vittimari: Angelo è straniero e si differenzia per l'eleganza dei suoi stivali. Anche qui vediamo che la violenza umana ha bisogno del segno nello stesso momento in cui lo nega. La violenza in sé, potremmo anche dire a questo punto, è totalmente indicibile, come la morte che ne scaturisce, ma su di essa si costruisce il mondo trascendente del segno, che la assume sia che se ne voglia rendere complice, sia che voglia smascherarla. E sia chiaro che lo smascheramento non può essere quello della violenza in sé, sempre inattingibile dal logos, ma quello del discorso complice. Il baldanzoso Angelo, nella sua perpetua disponibilità all'azione cavalleresca e alla battaglia, non è un portatore diretto di una qualsiasi demistificazione della retorica della violenza. Egli è invece, in qualche modo, un tardivo portatore di un vitalismo guerriero, che disprezza i malvagi linciatori di capri espiatori, perché sono in qualche modo brutti, sono vigliacchi perché si fanno forza del numero, mentre lui è bello e forte da solo, come un eroe greco, ma appare del tutto al di qua di una scelta etica responsabile, così come la può intendere un uomo contemporaneo. Il che non significa che quello di Angelo non sia un personaggio novecentesco. Infatti si libra sul vuoto, non ha alcun fondamento solido, e la sua audacia di fronte alla morte nasconde un sostanziale disprezzo della vita. La pazza felicità è quella dello stesso Angelo, il cui ardore guerriero si può esprimere nel fervore della prima guerra di indipendenza italiana. Alle battaglie come all'antica festa crudele. Crudele sì, ma pur sempre festa, come ben seppe lo stesso Tolstoj, e come vediamo anche in colui che tentò, fallendo necessariamente, di scrivere un poema eroico e cristiano. Bello in sì bella vista anco è l'orrore / e di mezzo la tema esce il diletto. / Né men le trombe orribili e canore / sono agli orecchi lieto e fero oggetto. Sono i primi versi della trentesima ottava del canto ventesimo della Gerusalemme liberata, che esprimono le sensazioni determinate dalla visione dello schieramento nemico che sta per cozzare contro quello dei crociati. E' il fascinoso orrore che promana dalla schiera contro cui ci si accinge a combattere. Forse lo provano, oggi, anche gli antagonisti che si stanno per scagliare contro lo schieramento dei poliziotti, e viceversa, o forse no.

Giono è straordinario nel dipingere la natura, come, con stile abissalmente diverso, lo è pure McCarthy, che condivide con lui la fuga dalla pazza folla, e la porta all'estremo. Le pagine migliori di Giono, peraltro numerosissime, sono quelle che ritraggono singoli uomini o piccoli gruppi in uno scenario naturale. Questo ci avvicina, in qualche modo, al modello della scena originaria. Quattro casolari isolati (i Masi Bianchi) e una piccola comunità di agricoltori, su cui incombe la collina: lo scenario del romanzo Collina, che rivelò le qualità di scrittore di Giono, (1929, pubblicato in Italia nel 1998 da Guanda) è piccolo e insieme grandioso, non solo per lo straordinario linguaggio, di strepitosa ricchezza, che è proprio dell'autore provenzale, ma per il potente senso di rivelazione sacrificale che si impone al lettore non ottuso.

C'è un vecchio ottantenne che giace in fin di vita (Janet) per molti giorni nel suo letto, in una sorta di delirio lucido e malvagio, da cui traspare un fortissimo risentimento nei confronti del piccolo gruppo umano che lo circonda. Una volta ancora: l'odio non nasce dalla non-conoscenza reciproca, benedette creature! Il fatto di conoscersi non impedisce, né ha mai impedito, dai tempi di Abele e Caino il non riconoscimento all'altro del suo diritto di esistere. In Collina l'odio è il risentimento del malato verso i sani.

"Che cosa ti abbiamo fatto?"

"Ve ne state sempre lì davanti ai miei occhi, con le gambe che si muovono, con le braccia come rami, con le pance piene; non vi è nemmeno passato per la testa di darmi un po' della vostra vita. Un briciolo, non ne chiedevo molta, giusto per caricare la pipa e andarmi a sedere sotto l'albero" (p.71).

Lui, il padre della comunità, appare, anche agli occhi degli altri, come dotato di un'arcana sapienza. "Lui sa, davvero, e tutto ciò che era oscuro si chiarisce; le cose che non si capivano si spiegano. Ma quello che in tal modo viene in luce è terribile" (p.76). Tutto si può riassumere in questo: la collina è viva ed è maligna.

Si susseguono incidenti sempre più gravi, che alla fine vengono interpretati come derivanti dal desiderio del vecchio morente di trascinare tutti con sé nella morte. La fontana non dà più acqua, la bambina si ammala, appare un misterioso gatto apportatore di sventura, una ragazza disonora il padre concedendosi all'idiota del villaggio. Dopo l'incendio, che ha minacciato di disintegrare e cancellare la comunità, la crisi sacrificale tocca il suo punto finale: tutti decidono di uccidere il responsabile della rivolta della collina, emblema del caos che minaccia la sopravvivenza del gruppo. Viene scelto un esecutore dell'omicidio destinato a risolvere la situazione, ma prima che il gesto sacrificale si compia Janet muore nel suo letto. Che non sia stato ucciso da mano d'uomo non è rilevante per il senso della vicenda, l'importante è che vi sia stata l'unanime decisione di uccidere. E, miracolo, appena il vecchio è morto la fontana torna a dare acqua, tutto si rasserena, la collina non è più una minaccia. L'ultima scena del romanzo è quella dell'uccisione di un cinghiale e della spartizione delle sue carni tra i membri del gruppo.

Un re senza distrazioni (1947 - edito in Italia da Guanda nel 1997) è il romanzo più inquietante di Jean Giono, e quello che possiamo sondare riferendoci anche alle categorie usate da Chiaromonte. La vicenda, ambientata in un villaggio montano negli anni '40 dell'Ottocento, è cupa e intricata, e narrata da più voci. Langlois, un poliziotto di provata esperienza, è il personaggio principale. Egli ci appare chiuso alla comprensione da parte degli altri (e del lettore) e il suo vero scopo è insondabile. Nessuno riesce a capirlo. Egli s'incarica di scoprire cosa stia dietro ad alcune misteriose sparizioni di persone, che non si trovano più e che si suppongono assassinate. La caccia all'assassino innesca un processo che vede tre tappe fondamentali: l'uccisione del colpevole da parte di Langlois, che appunto non lo arresta, come avrebbe potuto, ma gli spara; la caccia ad un grosso lupo che infesta le campagne, anch'esso ucciso da Langlois nello stesso modo in cui ha ucciso l'uomo; e infine l'attrazione fatale del protagonista nel gorgo della crudeltà, nel senso più letterale: il fascino del cruor, il sangue che spiccia dalle ferite, e macchia il candido manto di neve, onnipresente nel libro. Giono si è ispirato alla sezione dei Pensieri di Pascal intitolata "Miseria e grandezza dell'uomo", in cui vi è un mirabile capitolo dedicato al divertissement. L'assassino del romanzo si rivela un re, in quanto uomo absolutus, chiamato a decidere di sé entro un vuoto metafisico. La noia come condizione esistenziale ha evidentemente, secondo Giono, una cura sovrana: la violenza. La distrazione radicale è quella della caccia ad una vittima, della sua elezione gratuita e della sua esecuzione. Per Langlois, infine, uccidere un lupo od un uomo si manifesterà come la stessa cosa, poiché ogni vita, compresa la propria, ha un unico valore: zero. Il detective che scopre il serial killer nella persona di M.V. (Monsieur Voisin, ovvero Signor Vicino), e lo elimina, scopre anche la vicinanza di tutti gli umani nella comune tendenza a curare l'assurdità della vita con la medicina del sangue versato. Mi pare che in questo romanzo si trovino accostati i due versanti dell'arcaismo e della modernità: da un lato lo svuotamento nichilistico del soggetto, privato di sostanza personale e sociale, e dall'altro il riferimento al sacro, evidente nel fatto che le vittime di Voisin, di cui nessuno riusciva a trovare traccia, sono infine scoperte sopra il grande albero, sul quale il loro carnefice le innalzava, come in un moderno rito in cui Wotan è sostituito dal moderno dio dell'espressione di sé. Di un sé del tutto vuoto, che però, come un dio arcaico, pretende sempre ancora e soltanto sangue, preferibilmente umano.

Veniamo a Cormac McCarthy. Devo dichiarare che, per quel che mi riguarda, questo narratore è stato per me una grande rivelazione e un'esperienza di lettura entusiasmante, quale non credevo che avrei potuto fare in questi anni. Devo la sua scoperta alla lettura del libro di Franco Rella Confini. La visibilità del mondo e l'enigma dell'autorappresentazione (Pendragon 1996). McCarthy (1933-) è uno scrittore anomalo e periferico, che vive in solitudine tra la sua casa di El Paso e le vaste solitudini del Nuovo Messico, dell'Arizona e del Messico, e che ha concesso una sola intervista in tutta la sua vita (Nel 1992 al New York Times). Harold Bloom, voce dominante nella critica americana contemporanea, considera il suo Meridiano di sangue uno dei massimi capolavori della narrativa novecentesca. I protagonisti dei suoi libri sono tutti outcast, gente povera, diseredata, spesso miserrima, vagabondi e cowboy. Non vi è nulla, però di sociale, nei romanzi di McCarthy, e neppure vi è alcuna retorica della frontiera. Si vede in lui la lezione di Faulkner, ma lo stile è tutto suo, ed è di una qualità eccezionale, che anche le traduzioni in italiano in qualche modo riflettono.

Qui mi interessa per il nostro discorso antropologico. In McCarthy il mondo umano è estremamente violento, e questa violenza è chiaramente il Male. Essa dilaga, e nei primi romanzi, come Figlio di Dio e Il buio fuori appare quasi insostenibile. Si pensi, ad esempio che la storia narrata ne Il buio fuori è quella di una giovane madre che va alla ricerca del figlioletto, nato da una relazione incestuosa con il fratello, che le è stato rapito. Questo bambino finisce nelle mani di un orrendo terzetto di esseri, assassini antropofagi, che si stenta a definire umani, che lo sgozzano come un capretto per divorarlo. La scena è tale che si dovrebbe distoglierne lo sguardo. Ma quello di McCarthy, che non indulge ad alcuna forma di compiacimento dell'orrore né di sentimentalismo, rimanendo però perfettamente umano - è questa, secondo me, la sua grande arte - resta concentrato e obbliga anche il lettore a guardare davanti a sé. Nell'economia di questo discorso posso toccare solo alcuni aspetti di questo autore molto complesso. Mi limiterò quindi ad alcune note su Meridiano di sangue (1985, edito in Italia da Einaudi). Questo romanzo, che è stato costruito sulla base di alcuni fatti storici accaduti intorno al 1840 nel sud-ovest degli Stati Uniti, presenta sulla sua sanguinosa scena una banda di cacciatori di scalpi, che svolge la sua attività a cavallo della frontiera messicana. E' in qualche modo un romanzo di iniziazione, in quanto uno dei due personaggi principali, il ragazzo, è appunto tale quale ce lo presenta il nome, e la sua iniziazione avviene in un mondo della frontiera che non ha nulla della mitologia western. E' un mondo di violenza in cui non esistono i buoni. Il secondo personaggio è il giudice Holden, dalla corporeità immane, glabra e bianca (il riferimento a Moby Dick non è casuale), che domina con la sua personalità il gruppo di assassini che svolge la propria attività in una sorta di identificazione tra il mercato e la guerra. Questi uomini uccidono gli indiani per guadagnare denaro, perché il governo messicano ha posto una taglia su ogni Apache e Comanche. La prova delle avvenute eliminazioni sono gli scalpi. Ad ogni scalpo un tot di pesos. Lo scalpo si inserisce quindi nella logica dello scambio dei segni, da un lato, e dall'altra in quella sua particolare determinazione che è il mercato. Ogni mercato però ha delle regole, e ad un certo punto il giudice le infrange, spacciando per indiani degli scalpi che provengono dall'uccisione di messicani innocenti. Il giudice Holden appare diabolico nella sua violenza (anche sessuale, anche su bambini), e nello stesso tempo si manifesta come il portatore di una visione scientifica del mondo. Cataloga infatti senza sosta piante, minerali, animali, residui archeologici, li disegna e li descrive, ma sempre distrugge il referente reale dei segni che egli traccia sul suo libro. Sembra aspirare ad essere l'autore dell'unico libro, che sussista senza bisogno di nulla al di fuori di sé. Del resto, egli non è interessato al libro in quanto veridico, ma solo in quanto fonte di potenza. Ma questa rimane in lui sempre puramente distruttiva. In ultima analisi, il giudice sembra da un lato figura diaboli, dall'altra icona del capitalismo maturo, in cui alla proliferazione dei segni si accompagna la distruzione della natura e di milioni di uomini. Ma in McCarthy gli uomini al di fuori della logica capitalistica occidentale sono migliori, più pacifici e buoni, come, ad esempio, i nativi americani che la vulgata revisionistica del mito western ci ha mostrato (si pensi anche ai film da Piccolo grande uomo a Balla coi lupi)? Assolutamente no: anche se appaiono qua e là, soprattutto nei tre ultimi romanzi di McCarthy (la Trilogia del Confine), personaggi dotati di una loro saggezza antropologico-filosofica e religiosa, questa qualità di apertura sulla trascendenza non è legata mai ad una dimensione etnica o culturale. Invece, McCarthy appare ben cosciente della realtà sacrificale che permea le culture arcaiche, e della violenza come dato primariamente umano. Le pagine finali di Città della pianura, ultimo romanzo della Trilogia, ci parlano di un sogno in cui il personaggio che sogna (è un misterioso viaggiatore in cui il protagonista ormai vecchio, solo e vagabondo si imbatte, e che gli racconta un sogno da lui fatto) vede un altro uomo che si distende sopra una lastra di pietra, che si rivela un antico altare sacrificale, e s'addormenta e sogna a sua volta, e gli appare un'arcaica processione sacrificale, avviata verso l'altare su cui lui stesso giace addormentato, portando una ragazza, che evidentemente dovrebbe essere uccisa...

Parlavamo prima del terrore affascinato che scaturisce dalla vista di una schiera ostile che si approssima. Una delle più straordinarie descrizioni di un soggetto del genere, in cui appare trasceso il limite stesso della descrizione, a costituire una fantasmagoria, e però di carne e di sangue, è quella che McCarthy fa di un attacco da parte di un war party di indiani Comanche, che finisce in un allucinante massacro. Recuperiamo qui le nozioni circa il berserkr.

"Attraverso la polvere, si vedevano ormai, dipinti sui fianchi dei pony, gli scaglioni e le mani e i soli nascenti e gli uccelli e i pesci di ogni tipo, come si scorge su una tela attraverso la bozzima l'impronta lasciata da una vecchia decorazione, e sopra lo scalpitio di tutti quegli zoccoli non ferrati si sentiva anche lo zufolio della quena, un flauto ricavato da ossa umane. Nella brigata qualcuno aveva cominciato ad arretrare sul cavallo e qualcun altro a girare in tondo confusamente, quando dal fianco invisibile del branco sorse un'orda fantastica di lancieri e arcieri a cavallo armati di scudi adorni di pezzi di specchio rotto che abbagliavano con mille frammenti di sole gli occhi dei nemici. Una legione di esseri orribili, a centinaia, seminudi o coperti da costumi attici o biblici o bardati di vesti uscite dal guardaroba di un sogno febbrile, pelli di animali e fronzoli di seta e brandelli di uniforme ancora macchiati del sangue dei precedenti proprietari, giubbe di dragoni trucidati, giacche di cavalleggeri con alamari e passamani. Uno aveva il cilindro in testa e un altro l'ombrello e un altro ancora calze bianche da donna e un velo da sposa macchiato di sangue. Alcuni portavano in capo penne di gru o elmetti di cuoio greggio con corna di toro o di bisonte e uno indossava un frac all'incontrario sul corpo nudo e un altro la corazza di un conquistador spagnolo, con la pettiera e gli spallacci profondamente segnati da vecchi colpi di mazza o di sciabola inferti in un altro paese da uomini le cui ossa erano polvere. Molti avevano i peli di altre bestie intrecciati nei capelli lunghi fino a terra, e le orecchie e la coda del cavallo adorne di pezzi di tessuto dai colori sgargianti. Uno aveva dipinto di rosso cremisi la testa del suo animale, e le facce di tutti i cavalieri erano coperte da pitture così sgargianti e grottesche da trasformare la cavalcata in una brigata di clown di mortale allegria, e tutti ululavano in una lingua barbarica e caricavano come un orda uscita da un inferno ancora più spaventoso della landa sulfurea immaginata dai cristiani, fra urla e guaiti, avvolti dal fumo come quegli esseri fantastici che dimorano in regioni poste al di là della ragione umana, dove l'occhio si perde e la bocca sbava e si contrae".

Il filosofo di quelle regioni non parla, proprio perché il gesto che istituisce la filosofia è un gesto di distoglimento dello sguardo, e di reindirizzamento verso altre regioni (quelle del movimento degli astri, anzitutto). Il narratore in quanto tale, invece, parla di ciò che è tremendo e indicibile. E tuttavia la narrazione è sempre qualcosa che si dà nel mondo dei segni, che in quanto tale è separato dal mondo della violenza. Separato, ma prossimo. Ciò che gli scalpi della banda Glanton ci additano è una separazione violenta. Se la scena originaria di Gans ci mostra il segno umano nascente dal differimento della violenza, il testo maccartiano ci dice che la violenza reclama il possesso del segno.

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