In difesa dell’etnicità

Intervista di Alexandra Jarque con Antonio D’Alfonso*

 

(Traduzione di Silvana Mangione)

AntonioDAlfonso@cs.com

 

Alexandra Jarque: Antonio D’Alfonso, lei è uno scrittore e il fondatore e direttore di Guernica Editions, una società editrice famosa per aver pubblicato le opere di un gran numero di scrittori di origine italiana. Può raccontarci come ha iniziato?

Antonio D’Alfonso: Nel 1978 a Montreal c’erano due movimenti letterari di rilievo: da una parte i formalisti di lingua francese (Nicole Brossard e poeti come André Roy e Roger De Roches, pubblicati dalla rivista d’avanguardia Les Herbes Rouges); dall’altra i gruppi di lingua inglese divisi in due sottoclan: uno che subiva l’influenza della beat generation americana (Ken Norris, Endre Farkas, Artie Gold, Tom Konyves) e l’altro che si ispirava alla tradizione inglese (Michael Harris, David Solway, Robert McGee). Soltanto pochissimi scrittori sfuggivano a questi ristretti ambiti di appartenenza: Raymond Filip e Daniel Sloate, che ci hanno guidato verso orizzonti più ampi. La situazione era tale da non lasciare molto spazio a quello che più tardi sarebbe diventato il campo di intervento di Guernica: la premessa ideologica che ha costituito la prima spinta a diventare un editore, vale a dire l’esigenza di incoraggiare gli scrittori alla ricerca della propria etnicità. Per usare un paradosso, nella mia visione etnicità significava un modo di raccogliere tutte queste voci diverse in un’area comune, in una nuova identità canadese. Un’identità pluriculturale?

All’inizio avevo deciso di pubblicare soprattutto traduzioni inglesi di testi quebecchesi. Fino al 1982 infatti Guernica ha prodotto esclusivamente libri in lingua inglese. A quell’epoca ero entrato in contatto con il poeta e critico Fulvio Caccia. Insieme avevamo deciso che era arrivato il momento di compilare l’antologia di scrittori italo/quebecchesi intitolata Quêtes (1983). Fulvio mi aveva convinto che esisteva un corpus di opere italo/ quebecchesi sufficiente a meritarsi uno studio esaustivo.

Fulvio ed io ci mettemmo alla ricerca di scrittori, cineasti e artisti che non avessero paura di farsi avanti per parlare apertamente della propria etnicità. (Per descrivere il percorso che porta a parlare in pubblico della propria etnicità mi piace usare l’immagine: «uscire dall’armadio» che si adopera di solito con riferimento alla comunità omosessuale).

Il successo di cui questa esperienza editoriale ha goduto all’inizio degli anni ’80 non potrebbe più ripetersi oggi. Non ci sono più in giro tanti  scrittori italo/quebecchesi che trattino apertamente argomenti etnici. È ovvio, una cosa è mettere in evidenza il fatto che una certa scrittrice di teatro sia di origine italiana e un’altra cosa è esaminare se le sue origini abbiano esercitato una qualsiasi inflenza sui suoi testi teatrali. Non c’è dubbio che le sue origini siano entrate in gioco. Ma il mio obiettivo di scrittore e di editore è quello di produrre opere che promuovono le politiche dell’etnicità. Se in definitiva uno scrittore preferisce sostenere le virtù dell’assimilazione sarebbe sbagliato da parte nostra continuare a considerarlo uno scrittore etnico.

A.J.: Come si determina se un’opera valorizza l’etnicità o no?

A.D.A.: Molti continuano a farmi la stessa domanda: il concetto di etnicità è circoscritto a problemi di contenuto o influisce anche sulla forma? Credo che l’etnicità abbracci ogni aspetto della creatività ma che, prima di tutto, qualifichi la forma usata dall’autore, il che non significa il mero uso di neologismi. Direi addirittura che, stranamente, l’inserimento di parole italiane in un testo francese o inglese mi ha spesso dato fastidio.

Ciò che ho appena detto potrebbe sorprendere dato che appartengo al novero dei pochi scrittori radicalmente italici in Nord America. Per qualche ragione non riesco a scoprire i vantaggi che questo tipo di «rumore» dà al testo. È un artificio facile da imitare. Ciò che non si può imitare è il pensiero etnico.

Il pensiero etnico è ciò che dà struttura alla forma e al contenuto, al segno e al significato. Per replicare ai concetti semiologici un po’ obsoleti che mi hanno davvero meravigliato negli anni ’70, quando studiavo all’Université de Montréal, voglio dire che devono essere etnici sia il livello di connotazione che quello di denotazione.

Ciò che determina l’etnicità in un’opera di narrativa è il fatto che la narrazione deve elevare il lettore ad una visione etnica del mondo. Questa è, secondo me, la linea di demarcazione che mi costringe ad ammettere con tristezza che lo scrittore italo/quebecchese non esiste più.

A.J.: Qual è il vero significato di quest’ultima affermazione? Mi sembra che ci sia una dovizia di scrittori di origine italiana attivi in Quebec...

A.D.A.: Abbiamo di fronte a noi tre scelte possibili: assimilazione, multiculturalismo (coesistenza di numerose culture) e etnicità (non assimilazione). Alcuni ottimisti credono che il corpus della nostra produzione artistica si stia ampliando, ma questo molto semplicemente non è vero. Questa è la ragione per cui affermo che non esistono più scrittori italo/ quebecchesi.

Ritengo che le possibilità di avere una cultura italiana in Quebec siano inesistenti. Se prendiamo in considerazione gli scrittori francofoni di origine italiana troviamo soltanto scrittori assimilati o che stanno per essere assimilati. Devo includere in questa categoria anche Marco Micone, a prescindere da quanto lui stesso creda. Per me è del tutto impossibile considerare Marco uno scrittore italo/quebecchese. È in tutto e per tutto uno scrittore quebecchese con contenuti italiani. Aspira a diventare quebecchese, perciò sarebbe scorretto da parte nostra il non rispettare la sua decisione. Lo stesso vale per gli scrittori italo/canadesi nel contesto anglo/canadese. È questione di onestà, responsabilità e rispetto.

Se si vuole trovare etnicità bisogna rivolgersi a scrittori italo/ quebecchesi che scrivono in inglese o in italiano, per la ragione che l’etnicità diventa più vibrante quando viene fatta rientrare nel più ampio contesto della cultura italo/nordamericana e, in ultima analisi, della cultura che abbiamo finito per considerare italiana fuori d’Italia.

Che uno scrittore scriva in inglese non è importante di per sé. È un fatto che non possiamo controllare. Cionondimeno è interessante notare quanto l’ampiezza con cui si sta estendendo questa assenza di controllo in Nord America e in Australia renda affascinante il crescente corpus di opere. Che ci piaccia o no è la lingua inglese che ha consentito a questo tipo di lavori di sopravvivere per quasi cinque generazioni.

Mi sono reso finalmente conto che la cultura italiana nel mondo si esprime in tre branche principali: un primo gruppo di opere prodotte in italiano; un secondo prodotto in inglese; un terzo prodotto in altre lingue (francese, tedesco e così via).

A.J.: Si ha l’impressione che lei abbia pensato a lungo a questi problemi.

A.D.A.: Devo confessare che negli ultimi due anni il concetto di etnicità è diventato uno dei miei principali interessi. La ricerca della mia personale identità è reale, vale a dire che si tratta di una ricerca che continua giorno per giorno ed influisce su ogni aspetto del mio lavoro. Nella mia mente l’etnicità non ha alcuna connotazione perversa. È uno strumento utile che ci aiuta a comprendere quel complicato continente che si chiama Nord America. Questa visione del mondo sembra essere diventata più valida di quella basata sull’idea della nazionalità.

Per esempio, una nazione come l’Italia prima o poi dovrà accettare l’idea che esistono persone fuori d’Italia (e anche in Italia) che dichiarano di essere italiane, anche se non parlano una parola di italiano. Fra l’altro non credo che la lingua sia il migliore veicolo della cultura italiana. È risaputo che un nazionalista come Giuseppe Mazzini ha scritto principalmente in francese. L’unica persona che ha imposto alla cultura una sola lingua è stato Benito Mussolini. Perciò non c’è da sorprendersi quando si scopre che in Italia l’unione di lingua e cultura richiama subito alla mente immagini del fascismo. E questo è evidente ancora oggi. Sono sicuro che questa è la ragione per cui in Italia il dibattito sulla lingua è in ispirito molto differente dal tipo di dibattito in corso in Quebec.

Gli italiani sono coscienti che la lingua italiana come la conosciamo oggi è un fenomeno temporaneo, come in passato, e che prima o poi la lingua continuerà a trasformarsi in qualcosa di totalmente diverso. Ovviamente ci saranno sempre degli italofili intransigenti che cercheranno di imporre con ogni mezzo un italiano uniforme in tutto il paese e ci ricorderanno che: «questa lingua deve rimanere la lingua del popolo italiano». Fortunatamente costoro non avranno mai troppo successo nel far applicare le proprie leggi. Siciliani e napoletani continuano a creare nei  loro dialetti. Il film Sarrasine di Paul Tana, scritto in collaborazione con lo storico siculo/canadese Bruno Ramirez, è recitato per la maggior parte in siciliano. Questa distanza dalla lingua è fondamentale per la comprensione dell’etnicità.

A.J.: Considera se stesso un editore etnico?

A.D.A.: Guernica è una casa editrice italica e, se il fatto di essere italico significa essere etnico, allora sì, Guernica è una casa editrice etnica. Non desidero comunque che tutti gli autori le cui opere trattano della ricerca dell’identità corrano a bussare alle porte di Guernica. Sono tutti invitati a fermarsi da noi per un po’ di tempo, dato che la comunità italiana ha molto da offrire alle loro collettività per il semplice fatto di avere oltre cento anni di esperienza in materia di etnicità. Ma sarebbe un errore se tutti gli scrittori ebrei, giamaicani, haitiani, libanesi, senegalesi venissero da noi. Ciò sarebbe contrario all’essenza stessa dell’etnicità.

Il concetto sotteso all’etnicità è che ogni gruppo etnico gradualmente si procurerà i propri mezzi di produzione e distribuzione. Se, per ora, Guernica è disposta a pubblicare, per esempio, un certo numero di scrittori haitiani, è soltanto perché credo che sia necessario farlo in questo momento. Stavamo lavorando ad un’antologia importante degli scrittori haitiani in esilio, a cura di Edgard Gousse e St. John Kauss. Ma ho dovuto smettere. Non aveva alcun senso che continuassi a procedere in questa direzione. Credo fermamente che il gruppo haitiano dovrà presto assumersi la gestione diretta di queste attività. È nel loro interesse. In questo come in altri casi Guernica deve soltanto servire da trampolino per raggiungere qualcosa di migliore e più autorevole.

Creare una casa editrice multiculturale è la cosa peggiore che possa succedere, perché senza dubbio impedirà agli autori etnici di controllare i propri mezzi di produzione. Ho trattato questo argomento in un articolo intitolato: L’altare dell’assimilazione. In Canada c’è un certo numero di case editrici che pubblicano scrittori etnici. Sono case editrici influenti, che si danno l’aria di essere piccoli editori che pubblicano «poveri autori immigrati». Dato che queste case editrici tirano le fila politiche del mondo letterario hanno la capacità di trasformare uno scrittore etnico assolutamente oscuro in un simbolo e un esempio di apertura culturale. Grazie alle pressioni politiche un autore etnico può aver pubblicato un solo libro e tuttavia assurgere allo status di scrittore «etnico» più importante del Canada. Questo tipo di giudizio può andare a detrimento di altri scrittori «etnici» che hanno prodotto un corpus più consistente di opere e che sono ancora nel «buio». Come vede, la letteratura è sotto molti aspetti un business e un gioco politico.

Come può una qualsiasi persona meritarsi il titolo di «migliore scrittore etnico»? Per quale ragione un tale scrittore dovrebbe partecipare ad una conferenza, faccio per dire, sulla cultura «etnica», se pensa di essere tanto al di sopra degli altri? Egli può soltanto arrivare a disprezzare tutto quanto gli altri desiderano intraprendere come gruppo, perché ai suoi occhi è il gruppo ad essere cattivo e retrogrado, mentre egli stesso è buono e all’avanguardia. Ammettiamolo. Se questo scrittore ha raggiunto un certo livello di gloria, ciò è in parte dovuto ad altri autori, meno conosciuti, che hanno lavorato nell’anonimato per due o tre decenni o più.

La medesima cosa succede anche in Quebec. Per esempio, uno scrittore pubblicherà il suo primo libro con Guernica, poi passerà ad una casa editrice più grande per il suo secondo libro, infine lavorerà con una casa editrice in Francia, attraverso la quale otterrà di sicuro tutto il riconoscimento cui aveva sempre ambito. Personalmente considero questo tipo di azione antietnica e quasi razzista nel senso più ampio del termine. Sto combattendo contro questo razzismo artistico perché serve soltanto a scoraggiare la creazione di opere di narrativa e di saggistica che un giorno potrebbero modificare profondamente la nostra visione del mondo.

Credo anche che questo tipo di atteggiamento sia favorito dall’establishment e possa in molti modi portare a forme di censura. Ho ripetutamente ammonito gli scrittori italo/nordamericani a rimanere uniti in modo da costringere i critici a venire a noi. Se i critici non vengono a noi, dobbiamo costringerli a pensare che si stanno lasciando sfuggire qualcosa di essenziale. Con questo voglio dire che per i prossimi cinquant’anni o giù di lì gli elementi di ciò che è essenziale nel comprendere l’arte contemporanea si potranno trovare nell’etnicità e non altrove. Nel rimanere uniti gli scrittori nordamericani diventeranno più forti e migliori. Se continueremo a cercare  conferme fuori di noi stessi non faremo altro che incoraggiare le imitazioni e l’appropriazione culturale.

Gli eroi «simbolo» in letteratura sono il risultato dell’imposizione di un gruppo etnico che governa i poteri creativi di un altro gruppo etnico. Ogni giorno l’appropriazione culturale è rampante. È presente in politica, alla televisione, nel cinema, in teatro. Non ci vuole molto per far diventare qualcuno un Italien de service, a token wop, l’esemplare da mostrare.

A.J.: Ma facendo quello che lei descrive non cresce il rischio di marginalizzazione?

A.D.A.: Non c’è alcuna differenza fra questo e gli scrittori quebecchesi che lavorano in francese nel contesto nordamericano che è principalmente anglofono. C’è un prezzo da pagare per l’etnicità e tuttavia non è proprio il prezzo da pagare che rende affascinante la cultura quebecchese? Il vero problema del Quebec è la mancanza della volontà di collegarsi con altri centri francofoni in America, di costruire ponti reali, non quelli superficiali che si stanno gettando ora. I centri economici dovrebbero incanalare la propria energia verso la creazione di seri legami culturali: il più grave problema del Quebec è la mancanza del desiderio di farlo.

Nel 1980 ho passato parecchi mesi in Saskatchewan fra i francocanadesi insediati in mezzo ad un mare di tedeschi. Ambedue i gruppi vibrano di un’incredibile vitalità. È però curioso il fatto che non esiste alcun legame fra i fransaskois (francocanadesi del Saskatchewan) e i tedeschi o fra i quebecchesi e i fransaskois. L’intolleranza li tiene divisi. Nel secondo caso si tratta della stessa gente. È orribile!

Quanti scrittori haitiani ce l’hanno fatta in Quebec? Nessuno ce l’ha fatta davvero, esclusi due o tre haitiani usati come simbolo! Lo stesso vale per gli italiani in Quebec e anche nel Canada anglofono, se è per questo. C’è una testardaggine che impedisce l’affermazione di quello che io chiamo bridging of cultures, la costruzione di ponti fra culture. Per porre rimedio all’ostracismo che ne deriva, è necessario creare centri deterritorializzati in diverse parti del paese e fare altrettanto in diversi paesi. Per avere pieno successo l’etnicità deve essere una realtà che supera i confini. Soltanto dopo aver realizzato questo l’etnicità può aspirare a diventare pluriculturale. Questa è la base di un universalismo indistruttibile che potrà forse salvare questo nostro mondo frammentato.

Se Guernica viene considerata una casa editrice marginalizzata, l’illusione sparirà rapidamente nel prossimo futuro. Se si considera il totale della nostra produzione ci si rende conto che, per essere una casa marginalizzata, abbiamo pubblicato un notevole numero di grandi scrittori internazionali! Guernica è stata tacitamente boicottata perché ho voluto lavorare in tre lingue. Peggio per quelli che non sono in grado di capire quello che sto cercando di raggiungere. La fioritura di attività culturali diverrà apparente non appena gli italiani di San Francisco, Vancouver, New York, Chicago, Filadelfia, Toronto, Roma, Melbourne, Augsburg getteranno ponti per unire fra loro le proprie culture. Quello sarà il momento in cui le cose cominceranno a muoversi seriamente.

A.J.: Come intende creare questi ponti culturali?

A.D.A.: Un metodo è quello di fondare associazioni di scrittori. Ogni due anni l’AICW – Association of Italian Canadian Writers, Associazione degli scrittori italo/canadesi – organizza una Conferenza nazionale in città diverse. Nel 1992 si è tenuta a Montreal e io mi sono occupato dell’organizzazione. Il tema che ho scelto è stato il cinema italo/ nordamericano. Abbiamo fatto riunioni negli ultimi dieci anni. (1)

Ovviamente all’inizio stavamo in guardia. La maggior parte degli scrittori italo/canadesi si era incontrata per la primissima e questa è diventata una maniera molto efficiente di consolidare i risultati delle nostre ricerche volta a Roma nel 1984 ad una Conferenza organizzata da Roberto Perin. Malgrado l’energia generata da quell’incontro avevamo mantenuto le distanze. Ogni oratore od oratrice aveva la sua «verità» da definire nei dettagli su ciò che costituisce la storia e sulla portata dell’assimilazione. Qualcuno disse: «Oh, no! Essere italiano non è importante. Io sono universale». Altri: «No, io sono canadese. Sono italiano soltanto per caso». Altri ancora: «No, no, no. Io sono quebecchese e italiano soltanto per caso». C’è voluto un mucchio di tempo prima che alcuni di noi cominciassero a considerarsi italiani. C’erano italiani in Italia che si affrettavano a ricordarci: «Tu non sei italiano. Tu sei americano». Ma noi rispondevamo con testardaggine: «No. Siamo italiani quanto voi. Non avete alcun diritto di strapparci di dosso la nostra identità». Ma loro insistevano: «L’italianità appartiene soltanto all’Italia».

Questo tipo di dibattito può continuare all’infinito ed è complesso e stimolante. È un processo senza fine di domande e risposte. Ma con il passare del tempo siamo riusciti ad analizzare la poesia, il teatro, il cinema, le istanze femminili e l’omosessualità in un contesto etnico. Un giorno ho scoperto, con mia grande sorpresa, che molte scrittrici italo/statunitensi sono lesbiche. (Cosa della quale non si parlerebbe mai in Canada). Bene, alcune furono invitate alla Conferenza del 1994 a Winnipeg e noi ci avvalemmo della loro esperienza e di quello che ci dissero sui legami nascosti fra la sessualità e l’etnicità. Ciò che in superficie può sembrare un ghetto, di fatto costituisce un ambiente virtuale molto più ampio.

La prima volta in cui Paul Tana trovò tanta gente interessata agli aspetti italiani della sua cinematografia fu quando lo invitai alla Conferenza di Montreal nella quale avevamo dedicato un’intera sessione ai suoi film. Avrebbe potuto dirmi: «Attraverso i canali ufficiali non sono mai riuscito a farmi accettare in USA, ma, improvvisamente, ci sono scrittori e professori dalle provenienze più disparate che vogliono insegnare corsi sui miei film!». E invece no. La prima domanda che mi pose fu: «Non hai paura di diventare troppo provinciale organizzando questo tipo di conferenze sugli italiani?». Quando finì il suo intervento mi avvicinai e gli dissi: «Non vedi che questo provincialismo in realtà ha un respiro più globale di qualsiasi Quebecitude nazionalista?». Grazie all’etnicità Paul è stato messo in grado di raggiungere un pubblico in Australia, California e Germania. Se avesse tentato di farlo da semplice quebecchese non avrebbe mai avuto altrettanto successo.

La ragione è semplice. La corrente artistica quebecchese dominante non ha con altri paesi gli stessi legami culturali che abbiamo noi, attraverso i ponti gettati con università e persone interessate all’analisi etnica. Se il mainstream Quebec presenta i film di Tana, ad esempio, in Australia, lo farà di fronte ad un altro mainstream che propone gli stessi discorsi paternalistici sull’assimilazione. Qualcosa di veramente vitale succede soltanto quando si intavola lo stesso dibattito etnico con altri paesi. Improvvisamente la gente diventa capace di decifrare e criticare, con un interesse più diretto, quanto le viene presentato.

È certamente vero che da un lato l’etnicità costituisce una marginalizzazione del discorso, ma, d’altro canto, è una porta che si apre sul resto del mondo che non ci è stato mai mostrato finora. Se l’etnicità non è capace di aprirsi al mondo, allora è priva di valore. In quel caso si ridurrà progressivamente ad un sottoprodotto effimero, che verrà facilmente riassorbito. L’elemento fondamentale di questa discussione è l’«etnicità», intesa come sinonimo di anti-nazionalismo e universalità.

A.J.: Perché è così profondamente contrario al nazionalismo?

A.D.A.: Quando ero indépendantiste, separatista, la mia visione del mondo era pro Quebec, malgrado scrivessi principalmente in inglese in quel periodo. Non mi sembrava di trovarmi affatto in contraddizione con la mia posizione ideologica nazionalista. Ai miei occhi fino a quando fossi stato in grado di parlare e lavorare in francese sarei stato a posto. Fu soltanto nel momento in cui cominciarono ad esercitare pressioni su di me attraverso insinuazioni crescenti a non toccare argomenti tabù che decisi di uscire dal «movimento». Il dibattito sulla lingua non mi interessa più. A parte questo, come ho già detto, la questione della lingua è legata al nazionalismo e il nazionalismo al fascismo. Il nazionalismo e il fascismo italiani erano intrinsecamente filosofie razziste. Mi rendo conto che dicendolo scandalizzerò alcuni uomini e donne, ma ne sono convinto.

Personalmente mi colloco all’estremo opposto della territorialità. Prima o poi la territorialità porta a credere nell’assimilazione. Alcuni dicono che il concetto di territorialità è ontologico e trae le proprie origini dal suolo. La mia personale identità non è limitata dal territorio. È limitata esclusivamente dalla portata della presa di coscienza di me stesso e dalla mia libertà di divenire l’essere umano che ho scelto di divenire. Questi elementi dell’identità non sono determinati dal paese nel quale vivo. Tutti i tipi di nazionalismo sono razzisti. Se qualcuno dicesse: «Sono un quebecchese, anglofono ed ebreo», la gente gli urlerebbe immediatamente in faccia: «Allora non sei quebecchese». Come posso non essere quebecchese? Mia madre e mio padre vivono a Montreal da più di quarant’anni e, sebbene non siano perfettamente padroni del francese o dell’inglese, tuttavia si sentono davvero canadesi. Ciò non li rende forse per analogia quebecchesi? I nazionalisti e i nativisti diranno: «No». Da ragazzo mi ci sono voluti molti anni prima di essere invitato in una casa franco/canadese. Quante volte la madre della mia ragazza mi ha preso a calci nel sedere perché ero un wop!

 Non ho mai dubitato di essere italiano. Non appena l’ho svelato e l’ho dichiarato pubblicamente, la società ha cominciato a guardarmi con occhi diversi, con derisione. Mi era permesso di essere «strano» soltanto per il tempo necessario a farmi gradatamente strada nel mainstream e ad assimilarmi come biondo con gli occhi blu. Ma quando ho deciso di non cedere, di essere orgoglioso del mio retaggio, le cose hanno cominciato a diventare incontrollabili.

A.J.: Crede dunque che il Quebec sia ancora una società chiusa, che rifiuta ogni segno di diversità?

A.D.A.: Ci sono molti quebecchesi che non sono affatto chiusi all’«altro». Mentalmente, costoro sono straordinariamente aperti. Questo è il genere di persone con cui amo stare. Ma come si può distinguerli da chi è rigidamente razzista? C’è soltanto un modo: bisogna imparare a distinguere la persona per la quale un quebecchese (e bisogna essere cauti nel definire le implicazioni di questa identità) è chiunque vive qui, a prescindere dalle sue origini: amerindie, scozzesi, irlandesi, inglesi, ebree, italiane, eccetera, dalla persona per la quale un quebecchese è chi proviene da un luogo preciso, situato nel territorio del Quebec – Charlevoix, ad esempio – e che ha vissuto nello stesso luogo per generazioni e si rifiuta di spostarsi da quella regione, perché considera feccia il resto della gente in Quebec. Fra queste due persone ci sono mondi di distanza e non bisogna aver paura di chiamare razzista la seconda e non la prima.

Parlare di chiusura mentale o quant’altro significa soltanto giocare con le parole. E il Quebec non è l’unico posto sulla terra ad avere problemi di atteggiamento. L’Italia nazionalista è razzista. La Francia nazionalista è razzista. La Gran Bretagna nazionalista è razzista. La Germania nazionalista è razzista. Chiunque crede nel nazionalismo è razzista. Il razzismo nasce direttamente dalla fede cieca nel territorio come forma di isteria di gruppo. Si manifesta quando si sente qualcuno esclamare: «Questo paese mi appartiene. Chiunque entri in questo paese deve diventare come me».

Territorio + nazionalità + identità = razzismo. Così si presenta la formula fatale. Basta rimuove un termine qualunque dell’equazione e il razzismo probabilmente sparirà e le cose diverranno stimolanti. Immaginiamo, ad esempio, una quebecchese nata e cresciuta a Roma, i cui genitori italiani erano diventati cittadini canadesi. Come identifica se stessa? Chiama se stessa italiana? Quebecchese? Canadese? Con un’identità così complessa qualunque altra cosa sembra blanda e stupida. Per queste ragioni sarà probabilmente più aperta di qualsiasi italiano nato in Italia da genitori italiani. La sua visione del mondo la collocherà in un’altra sfera.

Vorrei parlare del tipo di stupidità con cui ho dovuto misurarmi non molto tempo fa. Ero stato invitato a fare una relazione ad una conferenza organizzata dall’Union des écrivains du Québec e dall’Académie des lettres québécoises. Mi sentivo veramente onorato dall’invito, dato che per la prima volta nella mia vita venivo invitato a parlare del mio lavoro in Quebec. Avevo fatto interventi più o meno in tutto il mondo, ma fino a quel momento non ero mai stato invitato a parlare in Quebec della mia filosofia editoriale. La ragione è semplice: la mia visione delle cose è in netto contrasto con le posizioni della classe dirigente in Quebec. Di solito invitavano uno scrittore come Marco Micone (che mi è molto caro come persona, mentre i nostri punti di vista cozzano a livello politico) e nessun altro. Eccomi dunque seduto in un salone pieno dei vertici dell’intellighenzia del Quebec.

Appena ho finito di leggere in venti minuti le quindici pagine della mia relazione, l’intera platea si è sollevata contro di me. Ero sorpreso, perché mi attaccavano per aver usato la parola multiculturalismo – che ero stato ben attento a non adoperare – mentre invece avevo posto l’enfasi sul termine etnicità. Il tumulto è durato due lunghi minuti prima che cedessi sotto il peso delle accuse di aver subìto il lavaggio del cervello da parte di Pierre Elliott Trudeau e del multiculturalismo. Che cosa potevo dire se non: «Me ne vado dal Quebec»? Il tema della Conferenza era stato Il futuro della letteratura in Quebec!

Non ho più alcun dubbio sulla direzione presa dal Quebec. E qualunque essa sia non mi interessa più. Sfortunatamente, ciò si deve ad una elite profondamente razzista in Quebec. E me ne frego di quanto la gente dice per dimostrare il contrario. Ovviamente tutto viene riequilibrato dalla presenza di una seconda elite che è intelligente e curiosa di conoscere altre culture. Certo, ci sono centinaia di scrittori brillanti, sensibili e di larghe vedute. Tendo anche a credere che la massa della popolazione del Quebec sia essa stessa di mentalità aperta. Tuttavia c’è un piccolo gruppo di razzisti, uomini e donne, ed è questo gruppo a dirigere il gioco e a controllare tutti i livelli del potere. È questo gruppo che riesce ad imporre la propria visione al mondo. Nell’odierno Quebec l’unico punto di vista valido e accettabile è quello che promuove la totale assimilazione o quanto in Quebec è comunemente noto come interculturalismo.

Se si deve usare il termine più adatto a definire l’etnicità, io propendo per pluriculturalismo. Il pluriculturalismo implica una visione radicale dell’ordine del mondo. Comporta la creazione di centri economici, culturali ed educativi indipendenti in un mondo che travalichi ogni confine. Il termine che usavo in passato: policulturalismo è, sì, sinonimo di pluriculturalismo, ma in inglese ha un’accezione limitata al settore dell’agricoltura – il che, in sé e per sé, non sarebbe una cattiva idea – ma non è tuttavia ciò che avevo in mente. Per qualsiasi fine la parola esatta è «multiculturalismo». È il termine usato da molti intellettuali e lo userei anch’io se il Quebec nazionalista e il Canada nazionalista non avessero imbevuto il vocabolo di tali e tante connotazioni derogatorie. Penso sia meglio non usarlo affatto.

Per trattare con il crescente numero di comunità culturali il governo del Quebec ha inventato la parola «interculturalismo» che è soltanto un’altra elegante definizione del concetto di assimilazione. Le sue implicazioni sono chiare: «Devi diventare quebecchese». Molto spesso la gente che parla di multiculturalismo in Canada ha in mente l’interculturalismo (assimilazione) – in questo caso assimilazione alla cultura inglese – e non ciò che il multiculturalismo dovrebbe davvero essere, vale a dire la coesistenza di molte culture.

A.J.: Che soluzioni e che futuro prevede?

A.D.A.: Dobbiamo creare centri attivi e non altre nazioni. Perché, ammettiamolo, un territorio può sempre essere comprato. Quale sarebbe la conseguenza dell’acquisto di tutto il territorio conosciuto come Quebec da parte di una potenza straniera? Il «Quebec» che conosciamo ora svanirebbe forse nell’aria? Questo sta succedendo in Italia, dove grandi estensioni di terra vengono comprate da non italiani. Gran parte del vino Chianti, di cui gli italiani si gloriano molto, viene di fatto prodotto in Italia non dagli italiani stessi, ma da non-italiani! Eppure nessuno vuole sentirsi fare queste affermazioni. Quale sarebbe la conseguenza dell’acquisto di terra in Canada da parte di stranieri? La gente che vi abita perderebbe forse di colpo la propria identità?

La soluzione, se una possibile soluzione esiste, consiste nella creazione di reti di gruppi etnici. Ricordo il tempo in cui il Parti québécois spese molti soldi in Vermont e in Louisiana per la promozione della cultura francese. Adesso come allora la soluzione non consiste nello sbattere la porta in faccia agli stranieri. Dobbiamo, al contrario, spalancare al massimo le porte in modo che si possano realizzare nuovi modelli di ponti fra nuovi centri. Gli haitiani di Parigi, gli haitiani del Quebec, gli haitiani di New York dovrebbero imparare a collegarsi fra loro in una rete a maglie molto strette. Sa che ci sono migliaia di haitiani nello Stato di New York? Che cosa sta succedendo di loro? Stanno subendo un processo di assimilazione o sono ancora francofoni? Vogliono essere considerati francofoni o desiderano combattere per la più ampia causa dei neri? È difficile rispondere a queste domande e le soluzioni sono tutt’altro che facili. Durante l’ultimo censimento nazionale in Quebec gli haitiani si rifiutarono di integrarsi in altri gruppi neri, perciò si autodefinirono haitiani non-neri! Come tutti sappiamo questo è un incomprensibile esercizio di autodenigrazione, che può realizzarsi soltanto perché manca un anello nella catena della rete dei centri ancora da creare.

Sono costernato nel dover confessare che per i prossimi venticinque–trent’anni la gente verrà costretta a soggiacere all’assimilazione e al nazionalismo. Questo è il risultato immediato dello sviluppo di mentalità altamente individualistiche. L’orribile futuro è iniziato. Sono profondamente sconvolto dal tipo di soluzioni previste da persone di tutti i ranghi. Ho tuttavia fiducia nel fatto che, una volta che queste guerre basate sul nazionalismo finiranno, la gente riesaminerà gli anni ’70, ’80 e ’90 per cercare rimedio alla propria perdita di identità. Sono convinto che l’analisi che gli italiani in Nord America, Australia e Germania stanno compiendo oggi sarà estremamente rivelatrice per le anime perdute di domani. Ed ho lo stesso entusiasmo con riferimento alla causa dei neri negli Stati Uniti. Non si sa nulla dell’etnicità contemporanea se non si è letto Cornel West.

Sfortunatamente non ho alcuna speranza per quanto riguarda gli italiani nel mondo francofono, in Francia, in Belgio, in Quebec, dove vengono costretti ad una brutale assimilazione. Questa tristissima presa di coscienza mi ha portato a credere che più di qualsiasi altra lingua in Nord America sarà l’inglese a permettere al nostro gruppo etnico di sopravvivere. Qunato meno temporaneamente. Finché non creiamo legami più forti fra noi.

Pensandoci, nessun altro paese al mondo è meno curioso degli U.S.A. di imparare a conoscere altre culture. E tuttavia l’etnicità costituisce il passato degli U.S.A. e senza alcun dubbio il futuro degli Stati Uniti sta nell’etnicità. Dall’America dilaniata verrà qualche meraviglioso atto di speranza.

Nessun gruppo etnico potrà mai asserire: «Ehi, questo pezzo di terra appartiene soltanto a noi». Nella città di New York molti gruppi etnici coesistono su un piccolo pezzo di terra che nessuno potrà mai considerare una nazione. Forse le guerre fra le gang alle quali assistiamo oggi sono lo strascico di una visione conservatrice della popolazione degli Stati Uniti come nazione unificata.

Cionondimeno, rimane ancora da vedere come l’etnicità resisterà ed avrà il sopravvento sul mito del crogiolo delle razze e delle etnie. In Europa il futuro appare disastroso per una ragione diversa: là l’identità continua a basarsi sul territorio. Riusciamo ad immaginare che paesi come la Germania e la Francia possano mai esclamare: «la Germania non c’è più; la Gran Bretagna non esiste più»? No, è impossibile e tuttavia penso che si possa concepire che ciò succederà in Nord America. Un giorno i nostri governi abbracceranno una nuova visione dei propri paesi non come nazioni delle Persone Americane Assimilate (o Stati Uniti Americani) ma come configurazione o impero geografico basato sui cittadini (i Popoli Uniti d’America) che parli una lingua di sua scelta – spagnolo, tedesco, cinese, giapponese, italiano, inglese, francese – che sia più di una semplice punizione scolastica e diventi uno strumento vitale di unità per i centri dei suoi stessi cittadini che, nel procedimento di autodefinizione, si apriranno ad altri centri etnici. Etnicità: un’implosione prima dell’esplosione.

A.J.: Qual’è la collocazione di Guernica in tutto questo?

A.D.A.: Ho deciso di pubblicare soltanto libri in inglese. Molto semplicemente le politiche culturali canadesi rendono difficile per l’editore o lo scrittore l’avventurarsi sul terreno del bilinguismo oppure, nel mio caso, del trilinguismo. Sebbene Guernica abbia pubblicato libri in inglese, francese e italiano, il governo canadese insiste nel considerarci una casa editrice esclusivamente inglese. Si rifiuta di riconoscerci uno status bilingue/multiculturale. Dopo anni di duro lavoro mi sono reso conto che i nostri libri in francese e in italiano venivano finanziati di tasca mia. Non sono più in grado di pagarmi questo capriccio. Perciò sono stato costretto a prendere una decisione molto importante contro la mia stessa volontà. Malgrado quello che dice in pubblico, il governo canadese costringe ogni suo cittadino a diventare monolingue. Dato che nel mondo gli italiani anglofoni sono più numerosi degli italiani francofoni ho deciso da ora in poi di lavorare soltanto in inglese

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* In difesa dell'etnicità è incluso nell'edizione inglese: Antonio D'Alfonso, In Italics. In defense of Etnicity. Guernica Editions Inc., Toronto / New York / Lancaster, 1996. Il volume sarà presto pubblicato in Italia, col titolo:  Cursivi Italici, presso Cosmo Iannone Editore, Isernia. L’intervista di Alexandra Jarque fu fatta in francese per conto della rivista Possibles, dove apparve col titolo Un plaidoyer pour l’ethnicité: Entretien avec Antonio D’Alfons, al Volume 12, Number n 2, Spring 1993.  

 

 

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