Volo in partenza

 

Anna Ciampolini Foschi

 

larthia@shaw.ca                                                               

                                                             

                                                           

     L’ultima domenica che passai nella mia città, all’inizio di aprile 1981, il sole era tornato a splendere dopo un violento acquazzone che aveva lasciato pozze di pioggia dappertutto. Era una giornata limpida, nel pomeriggio. Io mi ero seduta sugli scalini della Loggia dei Lanzi, in Piazza Signoria, guardavo una barchetta di carta di giornale che qualcuno, per divertirsi, aveva messo a galleggiare in una pozza d’acqua, dopo averci piazzato dentro una candela accesa; girava in tondo lentamente spinta da un filo di brezza, in quel piccolo specchio d’acqua sporca che però rifletteva l’azzurro del cielo. Intorno, c’erano folle di turisti, ragazzi coi sacchi a pelo, gente che faceva la giratina domenicale per prendere la cioccolata in tazza da Rivoire o fare la fila alla gelateria di fronte, con l’aria pigra e contenta delle giornate di festa. L’indomani sarebbero tornati in ufficio, al lavoro o a casa, avrebbero accompagnato i bambini a scuola e tutto sarebbe continuato allo stesso modo, con gli amici di sempre, le telefonate e gli appuntamenti in pizzeria. Io invece avrei preso il treno per Roma, poi il taxi fino a Fiumicino e lì l’aereo Alitalia avrebbe inghiottito me e la mia bambina per scaricarci dopo dieci ore di volo in una città lontana, con il mio permesso di  “landed immigrant”, immigrante in un paese straniero che sarebbe diventato la mia casa e dove mi non mi aspettavano né familiari né amici.

   

Quelle pietre dal colore dorato, quel cielo di pallido azzurro smaltato, il bianco marmo delle statue i cui occhi vuoti da secoli vegliavano la piazza, quei vicoli stretti e tortuosi densi dell’odore delle tante vite che eran trascorse dietro quelle mura, non sarebbero esistiti piú nella trama della mia esistenza. Spesso, da ragazzina, nel caldo spossante dell’estate, usavo rifugiarmi per un momentaneo ristoro dentro i chiostri delle chiese. Nel silenzio irreale di quei piccoli spazi al di fuori del  tempo, si levava il profumo  misto, dolciastro dei fiori e dell’incenso, del legno vecchio dei portoni e delle cassapanche che custodivano i panni monacali e fuori invece, passata la soglia, la vita riprendeva in pieno con un assalto di suoni e colori, vetrine e passanti, autobus e cortei, in un pulsare frenetico. Quelle strade, il nastro verde del fiume che attraversa la città, i caffè del centro dove si andava per il gioco di sguardi, per i vestiti da sfoggiare, per dire ci sono anch’io, Bruzzichelli, Doney, il Torricelli, i ristorantini in collina che ognuno giurava di aver scoperto, la pizzeria La Lampara in Borgo San Lorenzo dove noi adolescenti

andavamo con soldi racimolati a furia di insistenze e dove, all’insaputa dei genitori che ci avevano finanziato, ci mettevamo a fumare una sigaretta sperando di sembrare donne, quella mia città tanto amata, niente mi sarebbe più appartenuto se non nella memoria.

 

     Si stava facendo sera, la barchetta di carta si era da tempo afflosciata e disfatta nella pozza, la candela consumata. La gente tornava a casa a preparare la cena, ma io non volevo ritrovare l’appartamento svuotato come un guscio, con i bauli e le quattro valigie pronti nell’ingresso, i piatti di plastica per gli ultimi pasti da servire e il senso di irreparabilità della partenza, la fatale dimensione della svolta che la nostra vita prendeva da quel momento. Ma non c’era altra scelta.

 

     Negli anni a venire, avrei sentito spesso ripetere la stessa domanda da tanta gente diversa: “Perché sei partita?”, “Why did you leave?”  Come spiegare che i fili e i meccanismi che guidano la nostra vita sono infiniti e complessi, le forze, le pressioni che la influenzano hanno lunghe radici, indietro nei labirinti delle generazioni e della Storia, in lontane ingiustizie o in un aiuto negato, che  per capire appieno l’intricata trama della nostra esistenza bisogna  attraversare tanti fiumi, scalare tante montagne, morire e rinascere da tante speranze e  da tante delusioni e che quando finalmente si comincia a intravedere qualcosa dell’intero disegno e le risposte ai perché cominciano a coagularsi in una consapevolezza, ogni sfumatura comincia a modellarsi in un preciso orizzonte, allora ci si accorge che son passati tanti, troppi anni dalla partenza e che “le ali stanche non tennero piú dietro alla visione” (1) . Il ritorno diventa impossibile, il sogno coltivato per anni non interessa piú. Affiora invece la certezza  che le immagini, le parole, i colori, I momenti di quella che fu la nostra vita trascorsa, lasciata indietro per sempre, non sono perduti: la memoria li ricrea con intensità disperata aggiungendovi  la vividezza e  la magica sublimazione della nostalgia. La galassia del nostro passato appartiene solo a noi, perfetta come la realtà non fu mai.

 

    Il volo diretto a Vancouver, Columbia Britannica, Canada, partiva alle due del pomeriggio dall’aeroporto di Fiumicino. Si staccò in alto lasciando indietro i tetti rossi, i palazzi, il tufo e il travertino, le chiese e i monumenti, i giardini segreti di Roma, i negozi di Via Condotti e i ragazzotti di Trastevere appoggiati ai motorini a parlare di soldi e di donne, gli impiegati che si bevevano un altro caffè al bar giú di sotto, le mamme sedute ai giardini che parlavano di cosa fare per cena, i pensionati che portavano a spasso il cane, le coppiette a sbaciucchiarsi e la gente inferocita che non trovava il parcheggio, e gli autisti dell’ATAC che imprecavano a li mortacci.  Tutto queste cose diventarono puntini minuscoli e sparirono. Una virata su in quota e apparve la costa del Tirreno, con una strisciata di spuma bianco giallastra vicino alle spiagge ma il blu si fece intenso nelle acque profonde al largo; poi come l’aereo si allontanava vidi soltanto lo scintillare delle onde come un liquido cielo di stelle.

 

     “Perché sei partita?” Per anni ho cercato una risposta che non aveva senso, perché per me e per la mia bambina, come per tanti altri che hanno lasciato il loro paese, qualsiasi paese, non c’era stata altra scelta. Penso qualche volta alla giovane donna lasciata indietro sull’altra riva, a cosa sarebbe avvenuto di lei se  dopo quella domenica di aprile, invece di prendere l’aereo per Vancouver, Canada, fosse potuta restare nella sua città a fare la sua vita di sempre. Ma l’altra riva  è ormai irraggiungibile; le mie radici, strappate, si sono faticosamente rinnovate e il viaggio è arrivato alla fine.

 

In youth my wings were strong and tireless,
But I did not know the mountains.
In age I knew the mountains
But my weary wings could not follow my vision.
Genius is wisdom and youth.
(2)

           

 

(1)     Edgar Lee Masters.”Alexander Throckmorton” in Spoon River Anthology, 1916.

(2)     Ibidem.

 

 

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Questo racconto ha vinto il Primo Premio per la Sezione “Migranti” della IX edizione del Concorso Storia e Storie  dal tema “Il Senso dei 5 Sensi” promosso dal Comune di Forlì, Circoscrizione 5 e AUSER Volontariato di Forlì.Tale iniziativa è stata promossa da Comune di Forlì-Circoscrizione 5 ed Auser Volontariato Forlì con la collaborazione di: Centro per la Pace “Annalena Tonelli”, Comitato Volontari Parco Incontro, Centro di Educazione Ambientale “La Còcla”, Amnesty International GR. 225, Coop Adriatica e Unipol Banca.

 

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