Partita a scacchi

 

Di Elettra Bedon

 

 

Dopo un periodo passato a Bangalore, Tonio fu trasferito a Yol, ai piedi dell’Himalaya. Vi arrivò il tre aprile. Dopo i temporali che lo avevano accompagnato durante il viaggio, il cielo era tornato sereno. Ma l’umidità era ancora forte.

Come quello che aveva lasciato, il campo di Yol era cintato da reticolati; le baracche erano di legno, con il tetto di lamiera. Entrando in quella che gli era stata assegnata, Tonio si rese conto con un’occhiata di poter disporre – come i cinque compagni che dividevano l'alloggio con lui – di un letto, di un tavolinetto, di una sedia, di uno stretto scaffale che fungeva da armadio.

Il secondo appello sarà alle cinque, disse uno dei compagni. Tonio guardò l’orologio: mancava ancora quasi un’ora. Appoggiò la sacca per terra, la spinse con il piede sotto il letto. Si sdraiò supino, le mani sotto la testa, gli occhi chiusi.

 

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Non so perché mi tornino in mente adesso scene ed episodi avvenuti tanti anni fa. Ripenso alla casa dei nonni: un quadro era appeso da sempre a una parete del salotto, sopra il divano. D’estate mi fermavo a guardarlo, nella stanza tenuta in penombra, affascinato dai due giocatori seduti uno di fronte all’altro, ai lati opposti di una scacchiera.

Uno doveva avere già mosso, la sua sedia era inclinata all’indietro.

L’altro era chinato in avanti, i gomiti appoggiati al tavolo, il viso sulle mani, intento a studiare le possibilità, a vagliare i pro e i contro.

I due giocatori e il tavolo, su cui era appoggiata la scacchiera, erano in primo piano. Sullo sfondo, al centro del quadro, c’era un alto orologio con la cassa di legno scuro. Le ore, in numeri romani, spiccavano nere sul quadrante rettangolare; la lancetta dei minuti era lunga e sottile, quella delle ore più corta, e grossa, tanto che la punta aveva la forma di un cuoricino. I pezzi del gioco – bianchi e neri – erano dipinti con cura minuziosa; davanti a ogni giocatore, sul tavolo, c’erano quelli mangiati all’avversario.

Forse ci ripenso perché allora ero felice.

 

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Non ci volle molto per conoscere l’insieme del campo: le varie ali, divise da cancelli; la mensa, il bar, lo spaccio, le docce, le latrine. La giornata cominciava con la sveglia, verso le sette e mezzo. Si ripeteva poi un rituale che scandiva il tempo in modo uguale per tutti: il primo appello dopo la colazione, il pranzo alle dodici, il secondo appello alle diciassette. La posta, quando arrivava, era distribuita dopo cena. Le luci venivano spente alle ventidue e trenta.

Passavano le settimane, i mesi, senza che quasi ce se ne rendesse conto – gli avvenimenti erano come annullati dalla ripetitività.

Tonio, come gli altri, nel tempo libero aveva organizzato la sua vita privata, seguendo un rituale nel rituale, riempiendo ogni spazio di atti preordinati. Al mattino si dedicava alla pulizia del proprio angolo, al riordino, al rammendo. Leggeva sino a ora di pranzo, dopodiché si buttava sul letto a riposare. Andava al bar, giocava a carte con i compagni; una volta alla settimana scriveva a casa. Teneva un diario giornaliero.

Erano già passati tre mesi e Tonio non aveva ancora ricevuto posta. Quando si sdraiava sul letto, di giorno, lasciava che i pensieri fluissero liberi, accompagnati dal rumore della pioggia che aveva cominciato a cadere in modo continuo, dopo i temporali della seconda metà di giugno.

 

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La vita è una partita a scacchi, come diceva il nonno. Il risultato finale dipende dalle singole mosse, e ogni mossa è condizionata dalle precedenti, e determina quelle che seguiranno. Ci sono periodi, occasioni, in cui si ha coscienza di forgiare il proprio futuro, ma la vita, abitualmente, è spesa semplicemente a vivere – senza porsi problemi, senza domandarsi se le scelte di oggi influiranno, e in quale misura, su quelle di domani.

Anch’io ho vissuto così. La decisione di presentarmi volontario, per esempio. In quel momento sembrava l’unica via di uscita da una situazione alla quale non riuscivo a trovare altri sbocchi – situazione, del resto, anch’essa creata dal bisogno di avere, subito, quello che si desidera, costi quello che costi. Me ne sono pentito quasi subito, poi me ne sono dimenticato, fino al momento del richiamo, alcuni mesi dopo. E ci ripenso adesso; altro tempo è passato, sono in un’altra terra, tra altra gente, chiuso in un campo di prigionieri di guerra.

 

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In ottobre, dopo sei mesi di permanenza a Yol, Tonio accettò la nomina a ufficiale di mensa. La conduzione del campo era affidata agli stessi prigionieri; Tonio si rese conto in seguito che gli ufficiali superiori avevano i loro protetti: qualcuno restava a capo di un settore turno dopo turno, altri non erano chiamati una seconda volta.

All’interno del campo, tra le varie ali, i prigionieri potevano scambiarsi visita una volta alla settimana. Era anche prevista una passeggiata settimanale; a Tonio non piaceva quel raggrupparsi ala per ala, quella spensieratezza obbligata, come se fosse possibile dimenticare i reticolati. Ma altri, la maggior parte degli altri, sembravano apprezzare gli sforzi che erano stati fatti per organizzare una vita attiva.

La baracca dove si proiettava il film (anche questo con scadenza settimanale) era sempre affollata, e non mancavano i componenti – e i rimpiazzi – per le squadre di calcio e di pallavolo. Tornei di tennis e di bocce si susseguivano con regolarità, specialmente al termine della stagione delle piogge e fino a che, verso gennaio, la temperatura rigida non costringeva gli uomini all’interno delle baracche, dove le stufe erano accese.

Ogni idea suggerita – capace di tenere occupati i prigionieri – era ben accolta e messa in pratica: c’era sempre qualcuno disposto a insegnare e a studiare delle lingue straniere, a formare compagnie di rivista, di teatro. In quel mese di ottobre, sereno e fresco, Tonio si dedicò con passione al compito che gli era stato affidato. Le notazioni sul suo diario divennero frammentarie, riguardavano quasi esclusivamente le condizioni del tempo, i risultati soddisfacenti che otteneva alla mensa, utilizzando in modo appropriato le razioni  alimentari consegnategli. Ma già prima che scadesse il suo turno, negli ultimi giorni, il suo entusiasmo si era afflosciato. Non aveva quasi avuto più tempo di riposare, dopo pranzo, ma – date le consegne – riprese le abitudini precedenti.

 

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L’inerzia non è forzata. I miei compagni, quelli delle altre baracche, delle altre ali, si uniscono alle attività del campo, si raggruppano tra loro. Ci ho provato anch’io, in principio. Il torneo di bocce, il periodo come direttore di mensa. Mi sono unito al gruppo che si era messo a studiare lo spagnolo. Ho tentato per un po’ di mettere in scena un lavoro teatrale.

Per gli altri funziona: gli altri si accontentano di ripetere le stesse parole, come se uno stesso suono avesse per tutti lo stesso significato. Ma per me non è così, per me è come essere ciechi: a che cosa serve acquisire nuove abilità, muoversi da un posto all’altro? Il buio è ovunque lo stesso.

C’è chi si domanda se ci sia differenza tra l’essere prigionieri di guerra, o in carcere, o prigionieri di se stessi; se a limitare la libertà siano i reticolati, gli alti muri, la presenza delle guardie armate, o piuttosto una condizione dell’animo. È un discorso che non capisco.

È passato quasi un anno da quando sono qui. La temperatura è rigida,

c’è neve sulle montagne.

 

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Nel gennaio dell’anno seguente ci fu la visita dei delegati della Croce Rossa. Ma ciò che interessava di più ai prigionieri – il ritmo di distribuzione della posta – non era cambiato. La posta era sempre in ritardo; a volte passava un’intera settimana, giorno dopo giorno, senza che una sola volta il furgone che la portava si fermasse al campo.

Dopo il trasferimento a Yol, per cinque mesi Tonio aspettò invano di ricevere notizie da casa. Poi lettere e cartoline arrivarono insieme, e lui nel leggerle non si curò di guardare le date, pago di risentire la voce dei familiari, degli amici, raccolti attorno a lui, a fargli compagnia.

L’arrivo dei pacchi suscitava sentimenti contrastanti; il riaffluire dei ricordi (a volte attraverso la visione di un oggetto, la degustazione di un cibo) e quindi l’affondare nell’intimità, erano brutalmente impediti dalla regola dissacrante che prevedeva la perquisizione prima della consegna, per requisire i medicinali che eventualmente vi fossero contenuti.

I prigionieri ricevevano una paga settimanale, in rupie, che fu in seguito sostituita da buoni che potevano spendere al bar, allo spaccio (oltre che mettere sul tavolo, come posta, quando giocavano a carte ).

Ogni qualche mese circolavano voci di fughe, ma rimanevano voci, e il ritmo della vita nel campo non subiva cambiamenti.

In maggio Tonio compì trentacinque anni.

Il cielo era spesso bianco di afa – rinfrescava solo verso mezzanotte. Sdraiato sul letto, a occhi chiusi, Tonio non sapeva più bene se quello che gli passava per la mente fossero pensieri, o sogni, o ricordi.

 

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Il giocatore di sinistra tiene in mano un pezzo, lo appoggerà poi davanti a sé, sul tavolo, tra gli altri già fuori gioco. Sulla scacchiera, ansiosi di invadere il campo avversario, attenti a non cadere nei trabocchetti, pronti a dare scacco, si fronteggiavano gli umili pedoni, gli alfieri aggressivi, i fieri cavalli, le torri altere, le regine orgogliose, i re potenti.

La vita è una partita a scacchi. Ci sono circostanze in cui altri sono i giocatori, in cui si è pezzi sulla scacchiera, spinti in direzioni diverse da una forza che non si può contrastare.

Eppure c’è chi rimane padrone di se stesso, chi non si lascia schiacciare dai condizionamenti, accettando i limiti della scacchiera, e in questi limiti arrivando a dare scacco matto all’inedia, alla depressione.

Io non ci riesco.

 

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Passavano i mesi, senza che – esteriormente – avvenissero grandi cambiamenti. I problemi erano sempre gli stessi: delle sedici docce soltanto quattro funzionavano, il sapone era distribuito in misura ridotta, le razioni alimentari erano scarse e spesso mal utilizzate dai direttori di mensa. Gli ufficiali del Comando si accaparravano le poche paia di scarpe decenti che arrivavano allo spaccio, distribuivano gli incarichi a discrezione.

Tonio, ormai nel campo da quasi due anni, non badava molto a queste cose, accettava passivamente la vita preordinata, viveva quasi in uno stato di sonnambulismo. Poi, malgrado la temperatura ritornata tiepida (a Yol in febbraio è primavera) cominciò ad avere dei brividi, ad accusare malesseri, perse l’appetito, calò di peso. Fu ricoverato all’ospedale militare dove rimase per alcune settimane, sottoposto a tutta una serie di esami.

I medici non erano d’accordo sulla diagnosi, bisognava aspettare l’arrivo di uno specialista. Il suo caso fu affidato alla Commissione medica che doveva decidere se c’erano gli estremi per il rimpatrio. Intanto Tonio fu rimandato al campo, dove l’interessamento dei compagni di baracca gli diede fastidio; giudicò dettate dalla curiosità le visite di conoscenti venuti da altre ali per informarsi sulla sua salute.

Una volta che si sentì parlare di una fuga dovette essere qualcosa di più di una voce, perché fu suonato l’allarme, fu fatto l’appello fotografico. Tonio non nascose di essere seccato, sembrava interpretare ogni mutamento come un attentato alla sua quiete, al suo diritto di essere lasciato in pace. Ma anche questo passò. Dopo un periodo di estrema irritabilità – aveva litigato anche con i compagni di baracca, si sentiva preso di mira da loro – Tonio era ritornato calmo. Accettava le visite ma non usciva quasi più dall’ala, non andava al cinema, non partecipava alle passeggiate. Invano i compagni lo invitavano a giocare a carte; passava lunghe ore sdraiato sul letto, la testa girata verso la finestra, lo sguardo perduto nel vuoto.

 

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Perché cercare di fuggire? Fuggire non serve a niente, e non solo perché chi evade non può che cercare rifugio, e nascondersi, nelle più o meno immediate vicinanze del campo, senza alcuna possibilità di tornare nella propria terra. I pochi che fuggono sconvolgono la vita dell’intero campo, scardinano l’ordine quotidiano, distruggono la ragnatela di condizionamenti e di abitudini che permette di sopravvivere. Quando per ogni ora, per ogni giorno, è previsto il compito da eseguire, non c’è più bisogno di pensare, si può far finta di essere vivi.

L’imprevisto è come una doccia fredda in pieno viso, si è costretti a svegliarsi, a interrogarsi di nuovo sulla vita, su se stessi, a confrontarsi – riconoscendosi afoni – con l’urlo di chi, altrettanto incapace di fuggire da se stesso, ha cercato la soluzione nei fucili delle guardie.

 

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C’erano stati avvicendamenti: qualcuno era stato rimpatriato come invalido, altri erano arrivati, trasferiti da altri campi. In aprile Tonio ricordò i due anni di pemanenza nella stessa baracca; anche alcuni compagni erano cambiati.

Prima della stagione delle piogge, in giugno, in due paesi vicini a Yol scoppiarono casi di colera. Il campo fu messo in stato d’allarme: la sveglia fu anticipata alle sei e mezzo e tutte le baracche furono disinfestate.

Tonio attendeva sempre il responso della Commissione medica; i suoi sintomi si erano cronicizzati, si era abituato anche a quelli. Dopo oltre due mesi di clausura andò in un’altra ala per assistere a uno spettacolo di rivista – poi ritornò al suo isolamento. La sua conversazione con i compagni si era ridotta a monosillabi – rispondeva molto mitemente, non si accalorava mai, non era mai il primo a cominciare a parlare.

Due ufficiali che avevano tentato la fuga non si fermarono alle grida delle guardie e furono uccisi. Tonio partecipò al funerale insieme a tutti gli altri, senza manifestare alcuna emozione. Al ritorno si ritirò nella stanzetta che aveva costruito all’interno della baracca: allo spaccio aveva comprato del compensato, ne aveva fatto dei tramezzi che montò su guide scorrevoli, delimitando lo spazio attorno al suo letto, al tavolo, allo scaffale. Le pareti sottili non impedivano affatto che sentisse i rumori prodotti dai compagni, ma – finché rimaneva all’interno – non doveva più incontrare lo sguardo di nessuno, poteva illudersi che le voci che udiva non fossero che voci nella sua testa.

 

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Anche i due che hanno sotterrato stamattina sono ormai fuori gioco.

Il caldo è ancora soffocante, i contorni delle montagne, in lontananza, tremolano nell’aria afosa.

Il giocatore di sinistra, appoggiato all’indietro, ha assunto l’aspetto di un pezzo di roccia: crepe sottili – partendo dalla schiena – si allargano per tutto il corpo. Un braccio è spezzato, come un ramo fossilizzato.

Il giocatore di destra deve essere appoggiato in avanti da tempo immemorabile, una ragnatela si è formata tra il suo corpo e la gamba del tavolo, un’altra tra le sue gambe e lo sgabello su cui è seduto.

La mia stanzetta ha preso le dimensioni del quadro.

Le lancette dell’orologio sono immobili; il quadrante occupa tutto lo spazio.

 

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Elettra Bedon, nata a Padova, dopo aver completato gli studi in Italia si è trasferita a Montréal (Canada) dove ha conseguito, presso l’Università Mc Gill, un Dottorato di Ricerca, approfondendo gli studi sulla letteratura in lingua veneta del ventesimo secolo. Ha pubblicato, novelle e romanzi per ragazzi, poesie e saggi su poeti in lingua veneta. Ha curato la sezione Veneto in una antologia in inglese, dedicata alla poesia nei dialetti dell'Italia settentrionale. Il suo ultimo libro è Il bottone, (romanzo per ragazzi) Edarc, Firenze, 2008.

 

 

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