di Caterina Edwards
1. Lottando con
l’Io
L’impulso
verso l’espressione autobiografica è un impulso dominante e diffuso nella
cultura Nord Americana degli ultimi vent’anni circa. In questo tempo di
globalizzazione, la società dei consumi si è arricchita della parata e vendita di identità. Siamo esortati a comprare esteriori rappresentazioni del nostro stile interiore. Abbigliamento,
prodotti domestici, automobili: tutto diventa parte di una implicita narrativa
personale, una prefabbricata identità. Secondo Sidonie Smith, il critico
americano che ha scritto profondamente sull’autobiografia,
“l’auto-identificazione come merce di prima necessità, l’incessante ricerca di
un vero io e la moltiplicazione di rappresentazioni avvengono proprio quando
quasi non crediamo più nel vero io” (Smith S. 1994).
Mentre il nostro
senso di chi siamo è diventato sempre più provvisorio, l’importanza per ogni
persona di raccontare la sua storia individuale e possedere la propria immagine
è venuta più in evidenza. “Solo io ho l’esperienza, il diritto, e l’autorità di
raccontare la mia storia,” proclama l’orgoglio.
E l’autobiografia può permettere che sia udito chi era prima senza voce.
Essa può lottare contro il razzismo, il sessismo e il classismo, sfidando gli
stereotipi e l’ignoranza. Può essere un lavoro di arte letteraria, uguale a un
grande romanzo o un libro di poesie, ma ancor più audace e originale, sia nella
forma che nel contenuto. Ad ogni modo, più frequentemente, l’autobiografia è un
tipo di formula convenzionale. Invece di sfidare la società consumistica,
sostiene spesso il peggio di essa. L’autobiografia è un genere a due facce, una
forma di espressione per chi è privo di potere e una per i potenti, gli
emarginati e l’apparato di autorità, il che forse spiega l’ubiquità
dell’autobiografia.
La maggioranza delle autobiografie e
memorie pubblicate dalle più grandi case editrici del Canada e degli Stati
Uniti è una delle due facce del genere biografico. Sono libri di persone
celebri, cittadini che hanno avuto i loro 15 minuti o 5 ore di fama e narrano
la loro storia per prolungare quella fama. Queste celebrità, dalla “pop
starlet” alla “first lady,” hanno il loro nome sul libro come autori, ma i
manoscritti sono quasi sempre scritti da fantasmi. La barzelleta che gira sul
libro di Hillary Clinton It Takes a Village (per
crescere un bambino) è che c’è voluto un villaggio di scrittori professionisti
per finire il libro. Gli editori pagano bene per tali libri. Bill Clinton ha
ricevuto la somma record di otto milioni di dollari per la sua dettagliata e –
secondo alcune recensioni – noiosa autobiografia, My Life (Almeno, lui
ha scritto da sé il libro). Rudolph Giuliani, l’ex-sindaco di New York,
racconta la sua vita in Leadership, e adesso fa circa 150 conferenze
l’anno basate sul suo libro. Egli ripete le “segrete storie della sua
carriera”, recitando la sua autobiografia in segmenti di un’ora per $100,000
all’ora. (Più spese e trasporto in un jet privato).
Tali autobiografie sono di un formato
tradizionale, e il formato stesso, in cui si mettono in enfasi ostacoli
incombenti e glorie conquistate, incoraggia l’individualità e
l’auto-concentrazione. Come spiega la Smith: una “tradizionale... autobiografia
riafferma, riproduce e celebra l’autonomia dell’agente e il disfacimento del
‘metafisico io’, valorizzando l’individualità e l’indipendenza, mentre cancella
le personali e comuni inter-dipendenze.” (Smith S, 1987, 258).
Non sono solo le
celebrità a scrivere tali autobiografie. Parlo secondo la mia esperienza di
mentore online della scrittura narrativa, di giudice nei concorsi di scrittori,
e di scrittrice in residenza ad una università e ad un collegio. Almeno due
terzi dei manoscritti che ho letto in quelle funzioni erano autobiografie che
recitavano una sequenza di eventi, che erano auto-giustificative e
auto-magnificanti e senza alcun segno di grazia letteraria e introspezione.
Anche nella sotto-categoria della confessione,
pubblicata o inedita, la narrativa è molto spesso prestabilita,
preordinata e da formulario. L’eroe supera difficoltà / alcoolismo / anorexia /
schiavitù sessuale / qualsiasi cosa. I problemi cambiano, la trama resta la
stessa. Tutto è esaminato attraverso il prisma di una estrema esperienza
personale, come dice Kathleen Norris, “non tanto l’autorità dell’esperienza,
quanto l’esperienza usata come idolo, come se un’esperienza individuale del
mondo fosse la sua vera misura” (Norris K. 1996, 43).
Per anni sono stata una risoluta scrittrice di narrativa, passata a volte al teatro. Ero sospettosa dell’autobiografia, perché vedevo solo questa faccia di essa. Vedevo il narcisismo e l’ossessione di sé. E poi ho scoperto l’altra faccia, l’autobiografia che non comincia con una predeterminata conclusione e non sorge da un impulso di auto-giustificazione o d’impressionare fortemente il lettore, ma quella che sorge dall’esplorazione. Il primo passo di questo tipo di autobiografia si può chiamare ‘scrittura di vita.’ Come ho affermato nell’introduzione all’antologia di ‘scrittura di vita’ intitolata Wrestling With The Angel: Women Reclaiming their Lives [Lottando con l’Angelo: Donne che reclamano la loro Vita], essa può essere una effusione, una catarsi, un testamento, una celebrazione, un lamento, una ricerca di ordine e conoscenza. È una cosa personale, anche privata, intima e spesso auto-indulgente. Ma non è la stessa cosa di tenere un diario o un quaderno di note, non è semplicemente un rivivere o registrare un’esperienza di vita o enumerare quel che uno sa. Soprattutto è un processo, anzicché un prodotto finito, un processo che richiede l’azione di un corpo a corpo con sé, una lotta contro le limitazioni della memoria e della forma.
Come scrisse la poetessa americana Patricia Hampl: “Il mio stesso io che scrive (l’autore colpevole) desidera capire e dar senso a un momento della vita ricordato a metà... [Quando] ho il frammento scritto giù sulla carta, posso leggere questo piccolo pezzo come un enigma che lascia indizi nel groviglio dei miei sentimenti, come un colpevole che desidera di essere arrestato” (Hampl P., 1999, 29). La scrittura di vita cerca la concruenza nella memoria – cioè l’immagine immagazzinata e le nascoste emozioni.
2. Lottando con l’Angelo
Questa azione di corpo a corpo con sé ha portato la figura a essere connessa da tempo alla terapia e guarigione attraverso la scrittura. Una richiesta di saggi per una conferenza è stata presentata in questi termini: Scritti come Liberazione delle Donne. Scritti per l’auto-realizzazione di Donne che scrivono per sopravvivere all’abuso, incomprensione, invisibilità e discriminazione. E se l’autobiografia tradizionale è connessa alla storia vissuta in pubblico da un uomo, la ‘scrittura di vita’ ha avuto una lunga connessione con storie di donne, vissute in privato, così come le espressioni di esperienze minoritarie.
Nella funzione di co-curatrice di due antologie di scrittura di vita di donne - la succitata Wrestling With the Angel e Eating Apples: Knowing Women Lives [Mangiare Mele: Conoscere le Vite delle Donne] – io dovevo decidere quale fosse una buona ‘scrittura di vita’ e quale non lo fosse. Come giudicare quegli scritti così personali? Come giudicare, fra centinaia di scritti sottoposti? E come qualificarli ? L’enfasi dovrebbe essere sulla forma o sul contenuto? La mia co-curatrice, Kay Steward, ed io abbiamo subito deciso che un pezzo per meritare la pubblicazione doveva essere qualcosa di più di un esercizio privato e più di una terapia; doveva evolversi dal privato al pubblico, dalla confessione alla grazia.
E per avere questa qualità un pezzo doveva essere, prima di tutto, onesto. Quando abbiamo trovato che in alcuni scritti era stato detto qualcosa di particolarmente importante e originale, abbiamo guidato le autrici attraverso varie revisioni. Spesso, una larga parte del processo mirava ad aiutare la scrittrice a scoprire cosa avesse sentito e cosa cercasse di dire. Questo comportava il rigetto di preconcetti e facili risposte. (Una scrittrice cominciò a scrivere affettuosamente della nonna. Dopo alcune discussioni, alla fine ammise - e poi scrisse – che lei odiava la vecchia donna.)
Molti dei pezzi sottoposti a noi - per entrambi i libri - non erano tentativi di dare un valore e un significato a una esperienza, non era una ‘scrittura di vita,’ ma l’altro tipo di autobiografia, l’attacco agli altri e la difesa di sé. Abbiamo rigettato questi scritti, così come quelli auto-commiserevoli, melodrammatici o sentimentali – tutte forme di megalomania e quindi disonestà. E naturalmente questi attributi sono tanto problemi di stile quanto di contenuto. Per le esigenze dell’editore ed i costi di stampa, i libri alla fine non potevano superare un certo numero di pagine, per cui dovevamo eliminare alcuni saggi e accorciarne altri. Questo ci ha portato ad esaminare se ogni parola, ogni frase o paragrafo fossero necessari. Il nostro lavoro editoriale ci portava a favorire la brevità e il controllo.
Attraverso la mia esperienza di revisione editoriale dei due libri, ho imparato che la ‘scrittura di vita’ incomincia come un interno monologo, ma solo quando diventa un implicito dialogo può avere un valore letterario. Ho anche imparato che nel rendere pubblico quel ch’è privato, la scrittrice è meno sola. Parla a / e per una data comunità. E quando noi lettori leggiamo il testo scritto, intravediamo noi stessi in altri e altri in noi, il che – a vicenda – rinforza il nostro essere parte di una comunità. Quando Norris critica la scrittura che usa l’individuale esperienza personale come il solo metro di misura, continua con l’apprezzare la scrittura che viene da “un’esperienza esaminata nell’isolamento... e verificata pure alla dura prova della comunità” (Norris K. 1996, 43).
La ‘scrittura di vita’ non solo può rivolgersi a delle comunità, ma può anche crearle, formando legami e connessioni tra i collaboratori di una antologia e tra lo scrittore e il lettore. Inoltre promuove le comunità, creando uno spazio per storie personali in un contesto di comuni interessi. Un esempio di questo si trova in Losing Daniel di Moira Farr, che racconta la storia del suicidio del suo innamorato. Lei ci parla della sua disperazione e del suo dolore, ma va avanti ad esplorare il tema del suicidio in generale e i suoi effetti su coloro che rimangono. Farr include una lista di risorse e aiuti disponibili. Un altro magistrale esempio è Refuge: An Unnatural History of Family and Place in cui Terry Tempest Williams intreccia un racconto di lei che, con la sua esperienza di naturalista del Great Sault Lake, osserva la madre ammalarsi e morire di cancro al seno. Il libro è commovente ed originale, illumina il dolore interno e il caos di fuori ed espone l’interdipendenza tra l’individuo, la sua comunità e la più vasta società.
La prima antologia che Kay Stewart ed io abbiamo curato era intitolata Eating Apples: Knowing Women’s Lives, giocando con l’idea della conoscenza proibita, Eva e il serpente. Fu pubblicata nel 1994, prima che la ‘scrittura di vita’ fosse di moda. Avevamo progettato di intitolare il secondo libro “Seen Double” e scegliere dei saggi pertinenti al tema del ritornare, ri-sperimentare, ri-sposarsi, e ri-esaminare. C’era una difficoltà di comunicazione: la casa editrice voleva continuare il tema della conoscenza proibita e intitolò il libro “Fallen Angels” (Angeli Caduti). Avevano disegnato la copertina, fatto la pubblicità del libro e listato lo stesso in un catalogo, prima che io me ne rendessi conto. Con il sostegno dei collaboratori, abbiamo contestato il titolo, pensando che esso ci facesse apparire come un gruppo di prostitute. La casa editrice accondiscese a venire a un compromesso: avrebbero cambiato il titolo se noi avessimo incluso qualche specie di angelo, così che potessero usare il disegno della copertina.
Disperata, son venuta fuori con l’idea di Wrestling with the Angel - in riferimento parzialmente all’immagine biblica di Giacobbe che lotta con l’Angelo fino all’alba senza lasciarlo andare fin quando non fosse stato benedetto. Nell’introduzione della raccolta suggerii che anche la scrittrice lotta col materiale fino a un momento di grazia, senza mai arrendersi fin quando non sia benedetta col dono della luce, ch’è l’introspezione. Il motivo inoltre evocava l’Angel of the House di Virginia Woolf. Woolf dice che se una donna eccelle nella “difficile arte della vita familiare,” se diventa quello che ci si aspetta che sia – compassionevole, affascinante e non egoista – lei non eccellerà nell’arte della letteratura. Lei non sarà onesta, particolarmente riguardo all’esperienza del corpo. Essere l’angelo della casa può “sradicare il cuore dalla tua scrittura.” Woolf dice che una donna scrittrice deve uccidere l’angelo dentro di sé; io suggerisco che tu semplicemente debba lottare con lui-lei. Non è sempre facile opporsi all’istanza dell’angelo, la pressione di essere accomodante e piacevole. È più difficile tuttavia vedere te stessa e la tua esperienza chiaramente.
3. Lottando con l’Editore
Metto in rilievo l’influenza della comunità nella ‘scrittura di vita,’ perché le antologie di tale narrativa sono state usate per definire una minoranza, per affermare la loro esistenza. Questi libri non cercano, come fanno molte antologie, di creare il canone di un tipo di scrittura. Sono messi insieme per esprimere una varietà di esperienze, che non sono state ancora articolate, che a volte sono state represse. Essi danno voce agli emarginati, creando entro la corrente culturale della maggioranza uno spazio per i loro specifici interessi. Alcune antologie contengono narrativa e poesia, e pure ‘scrittura di vita,’ ma spesso queste forme sono autobiografiche nel contenuto, se non nella forma. Nell’ultimo paio d’anni Guernica Editions ha pubblicato un’antologia di narrativa arabo-canadese intitolata Voices in the Desert e una di narrativa ungaro-canadese intitolata Blessed Arbours. Di altre case editrici, troviamo i greci-canadesi in Musings, la donne aborigene in Writing the Circle, italiani-americani in The Voices We Carry, e lesbiche nere in Does Your Mama Know?
Si noti l’enfasi su voci, su l’orale, e la natura dignitosa dei titoli.
I titoli stessi dicono: non siamo stati sentiti e dovrete prenderci sul serio.
Alcuni anni fa Gina Valle, una studentessa di studi superiori di Montreal, che aveva curato un libro di ‘scrittura di vita’ di donne sul tema delle loro nonne, ebbe l’idea di un’antologia di donne che scrivono sulla loro esperienza di crescere italo-canadesi. Inviò una lista di domande per aiutare a promuovere ricordi e riflessioni sui ricordi; sollecitò l’invio di manoscritti e addestrò solo scrittrici senza esperienza. Dopo diversi anni ci fu l’annuncio che era stata trovata una casa editrice, ECW Press, per la pubblicazione della raccolta. Tali antologie di voci della minoranza di solito sono pubblicate da piccole stamperie letterarie. ECW è strana nelle sue selezioni, ma è una casa editrice della corrente maggioritaria, del centro del Canada. Fu designato un ben noto curatore per organizzare i pezzi. Le collaboratrici erano eccitate, si scambiavano messaggi e-mail avanti e indietro. Il lancio pubblicitario veniva pianificato nelle comunità italiane attraverso il Canada. (Ho organizzato qualcosa attraverso un locale gruppo di donne italiane anch’io, cosa che non avevo mai fatto per nessuno dei miei propri libri.) Poi, ECW annunciò il titolo del libro: Mamma Mia, Good Italian Girls Talk Back. (Mamma Mia, le buone Ragazze Italiane si ribellano).
Alcune delle collaboratrici trovarono che il titolo era infamante. La grafica della copertina intensificava l’imbarazzo. Era rossa e rappresentava una donna che gesticolava selvaggiamente. Era il tipo di copertina che si trova nei cosiddetti libri per ragazze (“chick-lit book”), un triviale resoconto degli interessi di una giovane donna. Alcune delle giovani scrittrici pensavano che fosse davvero un titolo originale e faceto e che spezzasse lo stereotipo. In Italia giocare con gli stereotipi di italiani è facile e non distruttivo, perché c’è una moltitudine di immagini di cosa significhi essere italiani. Ma in Nord America gli italo-americani e italo-canadesi sono quasi sempre rappresentati solo come stereotipi.
La casa editrice ECW Press insisteva che era una questione di promozione commerciale: dicevano che potevano vendere il libro solo con quel titolo e quella copertina. (Alcuni suggerimenti alternativi delle scrittrici andavano dall’affermare Brava Bella all’equivoco Figs Under the Snow, Fichi sotto la Neve). Gina Valle, curatrice dell’antologia, dichiarò che a lei non importava se il libro non si fosse venduto. Voleva un libro che fosse qualcosa di cui essere fiera, e non poteva esserlo di quello, con quel titolo e quella copertina dell’editore. Gina pensava che l’idea di “talking back,” di contestare, andava bene se riferita all’intera società, ma il titolo Mamma Mia: Good Italian Girls Talk Back implicava il parlare contro le proprie madri e nonne. Lei avrebbe comprato la maggior parte delle copie e le avrebbe vendute lei stessa. La maggior parte delle donne imbarazzate dal titolo scrissero articolate lettere alla casa editrice, spiegando la loro posizione. Nella scrittura di vita, ci si espone personalmente in una maniera che non avviene in altri generi di narrativa, perciò ci si sente più vulnerabili e più coinvolti emotivamente nel lavoro. Io suggerii a Gina di trovare un compromesso, come feci con Red Dear Press sul titolo Fallen Angels (Angeli Caduti). Ma ECW non si mosse. Rifiutò di cambiare anche una sola parola del titolo: per esempio “brave ragazze” con “donne”.
Legalmente, un editore ha il diritto di scegliere il titolo e la copertina. Comunque, in molti casi quando l’autore o l’editore è fortemente contrario a l’uno o l’altro dei due elementi, un compromesso si trova. L’editore negò le nostre preoccupazioni e ci accusò di essere poco professionali. Quando ci lamentavamo del loro uso di stereotipi, il dipartimento commerciale ci disse che non sapevamo di cosa stavamo parlando. L’editrice incaricata alla stampa chiamò l’antologia un progetto di vanità, il peggiore nome che si può dare ad un’antologia di scritti autobiografici; lei ci disse pure che se ritiravamo i nostri saggi per protesta, avrebbero tinto di nero la nostra reputazione con altri editori.
Le collaboratrici che protestavano ebbero la sensazione che la casa editrice stesse attaccando non solo loro, ma i principi di ‘scrittura di vita.’ Una scrisse: “un altro rude esempio di ridicolizzare i sinceri pensieri e le esperienze personali delle donne.” Un’altra disse: “Dunque, questo è quello che si prova ad essere considerate un prodotto commerciale da passatempo: rigettate come persone ignoranti, non sofisticate e senza voce?” Louise Clark, una psicologa, disse: “ Eccoci qua, ancora ad affrontare lo stesso vecchio colpetto alla testa, la strizzatina d’occhi e da anni la sottile vergogna perpetrata ai danni delle nostre madri e delle nostre nonne. Pensavo che fossimo aldilà di questa insidiosa barriera, ma ECW mi ha fatto ricordare che chiaramente non lo siamo...’Good Italian Girls’ è un prodotto di razzismo, misogino e di atteggiamenti presuntuosi.”
Il giornale Toronto Star ha riportato le legnanze delle collaboratrici sotto il titolo “Tempesta in una tazzina di Espresso,” un evidente rigetto. Intanto, ECW rimosse il nome di Gina Valle quale curatrice del libro. Hanno proceduto a pubblicare il libro, nonostante 12 delle 21 donne si fossero ritirate. È stato presentato e venduto bene alla conferenza chiamata Presenza sugli Italiani in Canada.
Quello ch’è successo con questa antologia di scrittura di vita italo-canadese illustra la lotta in corso tra gli artisti ed il mercato. Quando un’artista si conforma agli stereotipi o li accetta, rinuncia a quello che c’è di individuale e di complesso nel suo lavoro per diventare troppo pubblica. Il suo lavoro può essere accessibile a tutti, perché ricerca il più basso comune denominatore. La ‘scrittura di vita’ si sviluppò come uno strumento di conoscenza di sé e di auto-arricchimento, e allo stesso tempo come un mezzo per trovare una definita comunità, tuttavia può essere ridotta a un prodotto commerciale quando i suoi soli valori sono quelli di mercato. La situazione solleva pure il problema di chi ha il controllo del lavoro, lo scrittore o l’editore. Quello che mi dà più noia è il sospetto che un gruppo di scrittori di ogni altro gruppo etnico in Canada potrebbe non essere stato costretto ad accettare un titolo che la maggioranza del gruppo considerava offensivo.
Nonostante questo spiacevole esempio, la
‘scrittura di vita’ rimane un genere sottile e
flessibile, dove date idee e stereotipi possono essere contraddetti e
alternative storie possono essere raccontate. Una buona ‘scrittura di vita’ non è narcisismo, ma un tentativo di trovare la
verità di una personale esperienza e condividerla.
Bibliografia
Hampl, Patricia, I
could Tell You Stories, Sojourns in
Norris, Kathleen, The
Cloister Walk,
Smith, Sidonie, A
Poetics of Women’s Autobiography: Marginality and the Fictions of
Self-Representation,
_____ “Getting a
Life: The Everyday Use of Autobiography in Postmodern
___________________________________
* Questo
articolo è il testo della relazione di Caterina Edwards “Wrestling with the
Angel, the Self and the Publisher in Life Writing” presentata al Convegno
Internazionale “Oltre la storia” del 20-22 maggio 2004 al Centro di Cultura
Canadese dell’Università degli Studi di Udine. Il testo è pubblicato nel volume
degli atti del Convegno “Shaping History. L’Identità Italo-canadese nel Canada
anglofono,” a cura di Anna P. De Luca e Alessandra Ferraro, Udine: Forum
Editrice Universitaria Udinese, 2005. L’articolo tradotto da Egidio Marchese
viene qui riprodotto per gentile concessione di Caterina Edwards, Anna P. De
Luca e Forum Editrice Udinese.
1 aprile 2006
LETTERATURA CANADESE E ALTRE
CULTURE