Caterina Edwards, The Lion’s Mouth*
La prima volta che ho cercato di scrivere di te avevo quindici anni. L’estate prima mi ero innamorata di te. Ricordi? Capitò che tu eri a pezzi, tra un lavoro e un altro, tra una ragazza e un’altra, perciò spendevi molto più tempo con me di quanto non avessi fatto prima o avresti fatto ancora. “Bambinona” mi chiamavi. Grande bambina. Quasi non mi dispiaceva. La tua voce era così gentile, così intima quando lo dicevi. Inoltre, ti ero grata. Andare col motoscafo al Lido, poi con l’autobus alla spiaggia più economica – parlare per delle ore. Stare distesi al sole, mangiare ai caffè, guardarti suonare la chitarra seduti in camera tua. Ore dopo ore. “Bambinona.” Tu eri il primo uomo che si curava di me, che mi ascoltava.
In quel primo tentativo di un romanzo, tuttavia, il tuo ruolo era preminentemente simbolico. Il mio primo interesse era di raccontare la storia di una “sensibile ragazza italiana” che emigrò, coi suoi genitori, nelle praterie, ch’emigrò nella solitudine e nell’isolamento e, più ancora, in un dissolvimento successivo fisico e mentale. Lei infatti era distrutta dal paese ostile e freddo. C’erano lì molte abitazioni e senza senso di contraddizione esse erano nel mezzo di in vuoto senza fantasmi e insieme in mezzo all’ostilità e la crudeltà della prateria. Molto tempo dopo avrei scoperto che i miei commenti personali, profondamente sentiti, “la crudeltà di una linea diritta,” “le montagne mostruose,” erano i più comuni dei cliché. Non avevo mai letto un libro canadese, eppure riproducevo non solo i temi, ma le immagini e le linee.
Tu - Gianni era il nome che ti avevo dato - rappresentavi Venezia perduta. Gianni era anch’egli un immigrato, un compagno dall’”anima sensibile,” ma che riteneva, meglio, promuoveva gentili memorie, vecchie usanze e costumi. Nondimeno, Gianni rifiutò di salvare la mia condannata eroina, abbandonando lei e i suoi resti per l’Europa e una nuova e brillante carriera di cantante dell’opera.
Rileggere quel primo tentativo è imbarazzante. Non mi piace ricordare la mia istrionica adolescenza. Così tediosa! Ma, sospiro, dobbiamo riconoscere quello che eravamo insieme a quello che siamo. D’altra parte, viene illuminata la profondità dello shock che mi causò l’emigrazione della mia famiglia da Venezia al Canada. Infatti la mia vita fu divisa in due apparentemente nemiche metà, non solo tra il prima e il dopo, ma attraverso gli anni della mia crescita: l’Italia d’estate, il Canada d’inverno. L’Italia era il luogo chiuso, il bozzolo, il conforto di un posto sicuro tra cugini, zie, zii, nonni. C’era sempre un eccesso di rumore, di sollecitazione, di consigli: di mani che raddrizzavano il fiocco sui miei capelli, un afferrarmi per un abbraccio. Un eccesso di regolamenti: “non puoi bere quello, è troppo freddo; non puoi uscire da sola, non puoi indossare quel vestito; non puoi, non puoi. Non si fa.” Un eccesso di voci che rimbalzavano nella vaga oscurità di quelle stanze con le imposte chiuse contro il sole ed il caldo estivo. Forse perché ero la più piccina, tutti voi mi avevate tramutata in un animaletto della famiglia; una bambola da essere vestita e decorata. La mia scatola dei gioielli è ancora piena di catenine d’oro, braccialetti, anelli. Anche questo era parte della mia infanzia: quella vicinanza, attenzione, l’isolante coperta di protezione, tutte cose che sorgevano da una isterica percezione del mondo esterno. Pericolo in agguato ad ogni angolo, nella luce di ogni occhio estraneo.
Quando partii da Venezia la prima volta, sperimentai per dieci giorni la traversata dell’oceano, dieci giorni con gli occhi fissi sulle onde senza limiti, più tre ulteriori giorni esatti che non finivano mai in treno. Roccia e alberi, alberi e roccia. Niente case, niente gente per centinaia e centinaia di miglia. I villaggi e i paesi dove il treno si fermava sembravano sproporzionati, posati sulla terra anzicché sorgere da essa. Il solo cambiamento avvenne quando si aprì lo spazio delle praterie – una terra ai miei occhi inesperti ancora più monotona, più desolata. Lasciando Venezia, benché fossi con la mamma ed il babbo, mi sentii spogliata della famiglia, degli amici, delle mura ed edifici familiari, del proprio panorama. Ero esposta, sola nel nulla.
Anche i numerosi appartamenti e case (perché ci spostavamo costantemente dapprincipio) sembravano tutti stranamenete aperti e spogli: grandi finestre da ogni lato e siccome non potevamo permetterci appropriati mobili, un grande spazio di lucido legno di quercia.
La Mamma e il Babbo, come molti immigrati qui, vennero non con il sogno di una nuova terra, di un nuovo mondo più libero, ma con la fantasia di un rapido profitto, di un veloce successo. Le perdite finanziarie causate dalla guerra e la conseguente svalutazione della lira dovevano essere recuperate. Come la maggior parte qui, il Babbo lavorava lunghe ore. La Mamma trovò presto che stare a casa, nell’ultima casa vuota dell’ultimo vuoto sobborgo era intollerabile.” Non posso neanche andare fuori per una passeggiata con questo freddo. Così sto a fissare quel biancore tutto il giorno. Non vedi mai una persona vivente camminare in giro. Neanche un povero cane.” Le sue mani tremavano. Ogni volta che serviva la minestra o versava il latte in un bicchiere, una parte colava giù ai lati. Cominciò a lavorare come cameriera diverse sere alla settimana. Non lo disse a tua madre o a Zia Elsa. Forse si vergognava un poco. Lei era quella istruita, e ora era ridotta a questo. In seguito avanzò più in alto a fare un lavoro di segretaria. Ad ogni modo, durante quei primi pochi anni, tra il lavoro straordinario del babbo e le sue classi d’inglese, ed il lavoro di cameriera della mamma, mi sembrò di passare la maggior parte del mio tempo sola, isolata.
Qui la gente stava anche lontana gli uni dagli altri. All’inizio la barriera della lingua mi isolava dai miei compagni di classe. Ricordo i miei primi viaggi nell’autobus della scuola. Noi stavamo in una fattoria vicino Calgary con dei lontani parenti da parte del Babbo. Io stavo presso la porta, vicino all’autista, incapace di far muovere le mie gambe avanti, farle muovere oltre quei sedili pieni di ragazzini e ragazzine penzoloni che rimbalzavano e litigavano. Erano così diversi dai bambini di Venezia tanto ben vestiti e controllati, che io immediatamente li giudicai selvaggi e pericolosi, come gli animali che a quanto mi dicevano vagavano ai piedi delle colline e delle montagne. Il loro odore collettivo, così totalmente nuovo, al di là di ogni definizione, mi assaliva facendomi torcere lo stomaco. Da adulta ancora cerco di analizzare le componenti di quel caratteristico odore ovunque lo senta nell’autobus o presso aree da giochi. Mi elude sempre. C’è certamente della polvere, del cibo scadente, forse e anche dell’altro; mi fa torcere ancora lo stomaco, mi dà alla testa da svenire.
Poi, quel primo giorno,
ero sicura che avrei svergognato me stessa. Sentirsi
male lì, davanti a tutti. L’autista mi parlava, indicandomi un sedile di
dietro. Spostavo avanti con attenzione ciascuno dei due piedi grevi. Era
difficile mantenere l’equilibrio con le oscillazioni, e non potevo toccare un
sedile, casomai venissi a contatto con una di quelle piccole mani aliene. Le
loro parole sembravano buttate, lanciate contro di me, ma mentre cercavo di
coglierne i suoni, esse scivolavano, serpeggiavano via. Un angolo. Sbatto con
forza contro un sedile, facendo cadere la secchia con la colazione che mio
cugino aveva insistito che portassi. Un grosso
ragazzino al finestrino con un sudicio giubbetto rosso aprì e chiuse di scatto
la bocca. Allora gli altri erano lì a ridere e ridere, guardando, mentre io ero
piegata sulla secchia della colazione. Tirandomi indietro potevo sentirla,
distante da me. Più strano. Le risa continuavano, alimentate
di nuovo dal ragazzo col giubbetto. Le risa non cessavano,
premevano troppo da vicino, troppo persistenti.
Ricordo che cominciavo a capire le parole. La mia prima insegnante canadese, una bella, affascinante creatura con le unghie dipinte di rosso e tre pollici di tacchi, disse alla scolaresca, pensai, di portare dei lacci da scarpe per legare i quaderni coi disegni incollati che avevamo fatto. Sono tornata alla fattoria allegra in modo inconsueto. Avevo capito – senza ripetizione, senza pantomima. Mia madre trovò per me un paio di lacci da scarpe marrone. Ma quando a scuola arrivò il momento giusto e io li tirai fuori dalla mia cartella, scoprii che tutti gli altri bambini avevano tirato fuori dei nastri. Trine e velluti rossi, argentei, luccicanti d’oro: una profusione di bei nastri brillanti e i miei opachi lacci di scarpe marrone. Non avevo sbagliato del tutto. Avevo capito l’dea generale. Non potevo negarmi il piacere che stavo imparando. Ma il trionfo era misto alla consueta vergogna, il senso di essere stata colta pure ancora una volta in fallo.
Seguì gradualmente la padronanza delle parole e la corretta comprensione. Per la padronanza della pronuncia occorse più tempo. Era particolarmente difficile Th. Quand’era il mio turno di leggere a voce alta sentivo, tra le mie parole esitanti, delle risatine smorzate a metà, e alzando lo sguardo vedevo lo scambio di occhiate allusive, il cerchio che si chiudeva contro di me. “Senti questa. Dis. Senti questa.” Intorno e intorno – risate, mormorii, segreti, regali, compleanni – tutto condiviso. Io ero tagliata fuori, a guardare.
Stavo sola nel freddo cortile. Le altre ragazze
saltavano con la corda nei pressi della scuola. Io avanzavo poco a poco verso
di loro. Forse avrei potuto infilarmi dentro, perdermi impercettibilmente
dentro il magico cerchio. Ma quand’ero accanto in silenzio, i loro occhi si
puntavano su di me. La loro canzone al salto della corda si mutava da “Spanish dancers do the kicks” (“I danzatori spagnoli danno i calci”) a “We don’t want
no DP’s” (“Non vogliamo nessun D.P.) [“Dislocate
Persone”, detto di immigrati, spregiativamente]. Ero
adulta quando scoprii il significato di quelle lettere. Mi categorizzavano alquanto accuratamente.
Sarebbe stato molto più facile se non ci fossimo spostati tanto in quei primi anni. Besicker, Calgary, Leluc, Edmonton, Calgary. Dodici scuole in sette anni. Anche quando la mia voce, le mie parole erano come quelle degli altri, non ebbi mai il tempo di disarmarmi della naturale diffidenza. Sarebbe stato più facile se i miei genitori fossero venuti qui con l’idea di rimanerci. Mia madre in particolare – beh, tu sai quanto può essere testarda, ed era decisa ch’io dovessi rimanere una ragazza italiana. “Vuoi essere come una di queste canadesi? chiedeva retoricamente, il che significava: vuoi essere senza stile, senza maniere, senza senso? Tutti i canadesi ti appellavano con il solo nome appena ti incontravano, mangiavano del cibo orrendo in barattoli, servivano l’acqua delle stoviglie invece di caffè, e a tavola bevevano rye whiskey coi pasti, ragione per cui si ubriacavano immediatamente in modo disgustoso. Tuttavia, ubriachi o no, ti davano manate sulle spalle e mettevano i piedi sui tavolini.
Ogni mancanza di galateo, un “graze” dimenticato o una forchetta presa sbadatamente nel verso sbagliato, suscitava il commento - con puntuale sospiro – “stai diventando una di loro.” La supplicavo di non farmi indossare i vestiti che aveva portato da Venezia: un cappotto di cammello col colletto di velluto nero, vestiti di lana scuri, scarpe di pelle morbida. Io desideravo giubotti da sci, jeans, scarpe di plastica lucida come tutti gli altri. Ma lei era irremovibile. “Tu non sei come una qualunque. Dovresti essere orgogliosa di questo. Anche in Italia...” A scuola, naturalmente, ero in contatto anche con altri bambini immigrati, ma i miei genitori li qualificavano allo stesso livello di “questi canadesi.” Non serviva a niente rimarcare che la madre di Lucia le lasciava indossare un paio di jeans. La madre di Lucia era del sud. Puoi immaginare la Mamma: “Non sai mai da quale spelonca escono fuori. Non lo sai, Bianca. Cannibali. Al di sotto di Roma e sei in Africa.”
Mi rifugiavo nel mondo delle fiabe delle mie favorite letture. Popolavo la distanza tra me e gli altri, con nani, giganti, fate e folletti. Lo spazio vuoto fra le nostre varie case diventava alternativamente il mare, un prato, il centro di un forte montano, la stanza di una torre. Le coinvolgenti storie riempivano il silenzio delle lunghe ore che passavo da sola. La sola memoria di un paese, un luogo chiamato Settler dove abbiamo soggiornato alcuni mesi, era il mio ritornare a casa attraverso la neve. Un vecchio che sopraggiungeva dalla direzione opposta, si fermò e poi sorrise mentre io passavo. Dopo la metà dell’isolato successe lo stesso con una giovane donna. Solo allora mi sono resa conto che non avevo rievocato l’ultima favola solo nella mia testa, ma la recitavo a voce alta, declamandola ai soffi della neve, dilettandomi al suono delle parole.
In seguito abbiamo smesso di spostarci da un posto all’altro. La Mamma e il Babbo comprarono una casa in un’altra nuova zona di Calgary. Hanno cominciato a stabilire un cerchio di conoscenze, anche amici, la maggior parte del Veneto. Benché non ci fosse propriamente nessun altro di Venezia. “I veri veneziani non emigrano. Viaggiano, ma non si stabiliscono,” pronunciò mia madre, “eccetto i pazzi come noi.”
E la figlia di una di queste coppie, Loretta, una rotonda, scura ragazza coi grandi occhi espressivi, divenne la mia prima amica. Circa una volta al mese, la domenica pomeriggio, gli adulti sedevano nel nostro salotto discutendo gentilmente del passato e del futuro dell’Italia, ispirati dal dolce vermout e biscotti di ammoniaca. Loretta ed io ci barricavamo in camera mia, per tenere lontani i tre fratelli più giovani e giocare secondo le nostre ultime fantasie con le mie bambole di carte, Natalie Wood (lei) e Sandra Dee (io).
Un pomeriggio d’inverno, fuori la loro casa la terra e il cielo interamente bianco-grigi; raccontavo dentro a Loretta la storia di una principessa. Questa principessa portava il nome di Loretta e le sue caratteristiche generali, per interessarla alla mia storia, ma la trama era tutta per me. La principessa era stata sequestrata dal suo palazzo da una strega e imprigionata in un freddo castello, in una terra arida. Lei aspettava il suo principe, il re di Venezia. Non sono andata oltre. Loretta non stava più seduta quieta davanti a me; andava intorno raccattando in fretta pezzi del meccano che i fratelli avevano sparso per la stanza.
“Non ho finito.”
“Sei una draga, una gigantesca draga.”
“Una draga.”
“È sempre Venezia questo e Venezia quello... Tutti sanno che è solo un posto marcio che affonda.”
“Che affonda? Tu non capisci.”
“Sì che capisco. Il Babbo dice che voi Mazzin avete bisogno di svegliarvi un po’.” I fratelli stavano dietro la porta, attratti dalla prospettiva di una baruffa. “Se l’Italia sarebbe per voi così grande come voialtri dite, perché non siete rimasti là? Hug? Non potete sentire la vostra sporcizia, questo è il vostro problema.”
Ora stavo in piedi anch’io, affrontandola. “Beh, mia Mamma dice che voi siete quel tipo di gente che non ha avuto mai nulla. Avete strisciato fuori dalle montagne rocciose e ora...”
“Non potete sentire...”
A questo punto stavo tirandole i capelli, sperando di poterle strappare quegli spessi riccioli fuori dalla testa. Lei non lottò di rimando, solo strillava, ma tutti e tre i fratelli, anche l’infante, mi tiravano calci e pugni alle gambe e al corpo, gridando: “Boriosa”, “Testa di cacca”, “Torna là da dove sei venuta.” Io ho lasciato andare Loretta. Ho cercato di apparire dignitosa mentre indossavo il cappotto e gli stivali, ma desideravo che avessi tirato con più forza. Quando mi sono girata a guardare la casa dal marciapiede, Loretta e i fratelli erano alla finestra in fila, ciascuno con la faccia distorta dall’intensità con cui tiravano fuori la loro lingua.
La nostra amicizia sopravvisse. Ero adulata che ognuno pensasse che mi sentivo superiore. L’amicizia dei genitori, comunque, non sopravvisse. Pochi mesi dopo, la Mamma raccontava al padre di Loretta della visita di diversi giornalisti italiani venuti a fare una serie di articoli sul West. Tali gentiluomini, non si trovano simili tipi qui. Tutti mi hanno baciato la mano, prima di andarsene.”
“E il tuo sedere? Si sono dimenticati di quello? fu la replica. Una effettiva rottura.
Spesso anch’io sparavo fuori un rude commento in quegli anni. Cominciavo a sentire anch’io un abisso tra i genitori immigrati ed i loro figli. Cominciavo a rispondere alla domanda della Mamma “Vuoi essere come uno di questi canadesi?” con “Sì, sì, sì.” Non avevo rigettato Venezia, ma volevo un colore protettivo, volevo camuffamento, diventare simili anzicché diventare. Le maniere dei miei genitori ci rendevano esposti. In seguito, attraverso Jody e la sua famiglia, ho cominciato a vedere che i giudizi sui canadesi di Mamma e di Babbo erano fuori posto, e per di più che il codice di regole, il metodo di comportamento che cercavano di imprimere su di me, qui era inappropriato.
Jody appariva come se fosse stata formata in uno stampo contasssegnato “perfetta ragazza canadese”. Aveva occhi blu, un impertinente naso all’insù, e i capelli biondi in una lunga coda di cavallo che si arricciolava alla fine in modo naturale. Aveva pure la più larga crinolina, la più grande scatola di matite, e la più persistente risatina nella classe. Ma era nella vita di casa sua che risiedeva l’essenza del suo fascino.
La sua famiglia sembrava il modello della calma e della razionalità. Non potevo mai immaginare che i suoi genitori potessero imbarazzare lei o sua sorella in pubblico. Loro parlavano a Jodi come se fosse un’adulta. Perfino bussavano alla porta prima di entrare nella sua camera. L’intera famiglia, anche la madre, trascorreva un incredibile periodo di tempo in attività fisiche, sciare a Banff, pattinare, curling, tennis, nuotare al club di campagna, equitazione nell’allevamento di cavalli. Jody aveva il proprio cavallo. La loro casa era grande e, per Galgary, antica, con pannelli di legno di quercia nella sala da pranzo e tappezzeria di tessuto scozzese in tutti i bagni, una veduta della città, un trampolino dietro la casa, e due Rolls Royces nella strada d’accesso privata. Il loro cibo, come aveva avvertito la mamma, spesso veniva da barattoli o confezioni. Ma non aveva avvertito del loro meraviglioso sapore. Brodo di pollo Lipton’s, salsa in bottiglia (ketchup), würstell hot-dog, fagioli cotti al forno, crostate con salsa di barbecue, Jello, torta di meringhe al limone, torta Duncan Hines al cioccolato con polvere di smeriglio Betty Crocker, gelato con marshmallow [caramella gommosa e gelatinosa] sopra – una vera rivelazione.
“Siamo delle Province Marittime,” il padre mi diceva a cena, benché tutti i bambini siano nati a Calgary. Mio padre e suo padre prima di me lavorarono alle miniere di carbone di Cape Breton. Ho lavorato lì anch’io. Un paio d’anni più grande di voi. Ogni estate durante la scuola secondaria superiore e la facoltà di giurisprudenza a Daldousie. Non l’avrei immaginato. E voi? È un buon paese questo. Senza limiti. Ti puoi fare da te. Paese del futuro.” Dava un’occhiata intorno alla tavola per essere sicuro che ogni bambino avesse seguito, registrato ancora il mito della famiglia. “Da minatore di carbone ad avvocato di corporazione.” I suoi occhi potevano scovare quelli di Jody. “Ricorda.”
Diverse volte la madre di Jody invitò mia madre a casa sua per un té. La madre canadese siedeva sempre diritta ma leggermente, cortesemente, inclinaae in avanti. Quella italiana stava rilassata, con le gambe incrociate, la testa che girava, a ispezionare la stanza.
E ogni volta, quella canadese, il sorriso fisso: “Desidera ancora del té? Un altro biscotto?”
Quella italiana, spingendo avanti un poco la tazza dalla sua parte, ricusava. “Oh, no, grazie, no. È stata molto gentile. Ma non posso. No.”
“Molto bene.” Lunga pausa. “Quella è veramente un bella camicetta (vestito, sciarpa). L’ha presa in città.”
“No di certo.”
E ogni volta, in seguito, avrebbe fatto le sue critiche, a lungo e a voce alta. Non potevo vedere quanto maleducata fosse stata quella donna? Mi ha offerto una cosa appena. E non ha mai espresso nessuna opinione su qualsiasi cosa? Noiosa, non c’è dubbio su questo. Cercavo di spiegare che la madre di Jodi era stata più che corretta, che la trama elaborata di parole cerimoniose qui non si usava, anche se in Italia era una maniera comune.
“Non dire a me quello ch’è corretto e quello che non è corretto. Non sono nata ieri. Ho frequentato la migliore gente. Non ti ho mai detto quanto fossi intima amica della Contessa di Toffoli prima di sposarmi?”
“Molte, molte volte.”
“E non solo lei. Ma come puoi sapere tu? Non saremmo dovuto mai venire in questa terra di barbari. Hai notato come ogni quadro in quella stanza fosse un vista della montagna? Non che ci siano altre viste rimarchevoli qui. Una faccia sarebbe stata piacevole.”
Eppure, tipicamente, la Mamma non era superiore a non usare la madre di Jodi come una autorità in una delle sue campagne. Era contraria a “sock hops”, le danze pomeridiane nella palestra per gli studenti dell’ottava classe. Io morivo dalla voglia di andare, anche se sapevo che nessuno mi avrebbe chiesto di ballare. (Solo pochi anni dopo, lottai per il permesso di uscire coi ragazzi, benché non fossi mai stata accostata da nessuno.)
“Quelle cose ‘hop-hop’ sono vergognose.”
“Cose hop-hop?” La madre di Jody aveva il sorriso fisso della mistificazione.
“Hops. Danze. Sono solo dei ragazzi – bambini. Ai miei tempi noi non avevamo queste cose.”
“Mamma,” non dovevo parlare, ma questo era troppo. “Tu sei andata a una scuola di solo ragazze.”
“E così pure tu il prossimo anno. Lontana da tutte queste cose hopping. Non sentireste parlare di queste cose in Italia.”
“Mamma, le cose cambiano anche lì. Comunque le scuole non hanno le palestre.”
A questo punto, la madre di Jody di sporse un po’ di più in avanti. “Tutto cambia così velocemente, non è vero? Si rimane alquanto senza fiato. Guardate come Calgary cresce rapidamente!”
“Questa innocua frase era quello che serviva alla Mamma. Da settimane mi diceva che la signora Stewart l’approvava, ch’era d’accordo circa quelle danze.
Diversamente dalla maggioranza delle donne immigrate italiane, la Mamma aveva appreso l’inglese abbastanza rapidamente; vale a dire, aveva imparato a usare le parole, a fare i suoni appropriati, ma non apprese il contesto, la trama del significato sociale. Se le parole suonavano giuste, come lei sentiva che dovessere essere, il significato che intendeva lei doveva essere lì, non importa cosa dicessi io. “Ossa pazze,” lei mi chiamava con affetto, o mi dicevo “Ho lavorato come un alce.”
Per molto tempo non capii questo. Siccome vedevo che il suo giudizio sulle cose canadesi era sballato, siccome sentivo le sue distorsioni, credevo che tutto quello che lei diceva, il suo intero sistema di usanze e credenze, fosse falso, una fantasia privata, come le favole che io creavo per me stessa. Ma poi, durante le mie estati a Venezia, rimanevo sorpresa più e più volte a scoprire che lei poteva percepire sottili sfumature, che il suo metodo di giudizio era pertinente. Anche le sue storie di se stessa da giovane (le amicizie con gli aristocratici, i molti corteggiatori) erano confermate, testimoniate da Zia Elsa e sua madre.
“Ossa pazze. Perfetto. Tua madre è così divertente,” Jody insisteva, “non noiosa come la mia.” Ironicamente, mentre desideravo la vita di Jody ordinata, di colori tenui e luminosi, lei invidiava le mie estati a Venezia. “Dimmi ancora dei canali e della spiaggia. Dài. Dimmi.” Era interessata al cibo, i vestiti, i programmi alla TV, le zie, i cugini e, soprattutto, te. “Sembra gustoso, yammy.” Con Jody, per la prima volta, sentii come le due metà della mia vita potessero incontrarsi, la maschera e il mio io fondersi. Eppure, non avevo dubbi che quel mio proprio io fosse veneziano. Volevo essere di qui, ma ero sicura di non esserlo, ero, per usare una frase del mio primo romanzo, “in esilio in una terra amara.”
Ricordo quell’estate quando ho cominciato ad amarti; tu mi presentavi sempre ai tuoi amici come la mia piccola cugina canadese. Sono veneziana come il resto di voi.
Ma, naturalmente, non lo ero davvero. Una volta, al terzo piano di via Da’ Rezzonico, circondati da quadri della scuola di Longhi sulla vita di Venezia dell’Ottocento, hai cominciato a parlare dell’uso rivoluzionario del colore degli artisti veneziani, della tinta di fondo e dell’impasto, delle vernici trasparenti e delle tonalità dorate, e sei passato piano piano a parlare dei tuoi stessi quadri. “Fino all’anno scorso, ero convinto di essere un pittore. Su quella base mi perdonavo molte cose. Ero un artista. Dovevo vivere la vita interamente. Ma l’anno scorso ho cominciato a vedere che i miei lavori veramente non andavano... Strano abbastanza, questo cominciò proprio quando cominciavo a vendere alcune tele. Cominciai a sentire l’enormità dei miei limiti. Volevo dipingere la mia città – la luce, la fantasia. Dire che questo era già stato fatto prima è un’attenuazione. Cosa potevo mostrare che non fosse già stato mostrato prima? Di fronte all’autentico potevo solo vergognarmi... Dovevo rinunciare al ruolo d’artista. Ma cosa mi rimaneva? Non posso fare la vita di un inserviente di Hotel o una guida turistica. No, debbo avere un punto focale, una cornice entro cui mettere il resto di me. Debbo. Ma cosa?
Tutt’intorno a me, le donne di Longhi: capelli rossi, pallide facce appuntite, acuti occhi scuri dominanti. I miei capelli, la mia faccia, i miei occhi, anche il mio corpo rotondo riprodotto ancora ed ancora. Eppure, quando cerco di risponderti, le parole nella mia lingua sono inglesi. Mi arresto, balbetto, cerco le equivalenti in italiano. Ero abbastanza fluente con le frasi familiari a casa. Ma la teoria, i pensieri astratti, sembrano necessariamente inglesi, perché quella è la lingua che leggo. Mi fermo nel mezzo della frase pensando ai benefici di una maggiore educazione. “Non posso dire propriamente cosa intendo. È così frustrante.” “Al contrario.” Avevi preso il mio gomito, chiarendo subito la cosa e mi conducevi verso la scala. “Fai molto bene. Il tuo accento è incredibilmente vicino a quello giusto. Puoi appena dire che vivi all’estero.”
Appena. Più tardi, ero in piedi davanti allo specchio e facevo pratica. Era nel movimento dei muscoli della mia faccia e della mia bocca che ero colta in fallo. Ma non potevo rilassare la mia mascella. La mia bocca non si apriva abbastanza per lasciare scorrere propriamente le parole. Lo stile canadese, stretto e riservato, era stato codificato nel mio corpo e non poteva essere disimparato.
Marco aveva il capogiro dalla stanchezza, ma appena si stese giù nel letto matrimoniale a quattro colonne si rianimò, le mani e i piedi contratti leggermente. Strano essere disteso lì senza Paola. Anche quando era rotta la tregua e la rabbia fra di loro era scoperta e amara ed egli stava disteso più vicino possibile al margine del letto per evitare ogni accidentale contatto con il piede o la mano di lei, si aspettava che lei fosse sempre lì. La sua presenza fisica lo proteggeva dai terrori notturni.
Una volta, Paola era andata a dormire nello studio. Il litigio era cominciato da un commento della madre di lui, se non ci fosse nulla da parte loro che potesse assere la causa dell’anormalità di Francesco. Paola non aveva fatto altro che ordinarle di uscire dall’appartamento. Benché egli fosse irritato che lei non prendesse con miglior senso di prospettiva i commenti di una persona anziana, aveva sentito la sua vulnerabilità. Ma la comprensione sparì presto, sotto il fuoco di fila di parole di lei. Infatti il suo attacco si spostò subito dalla madre su di lui.
Come osava sua madre, una donna ignorante che parlava ancora il dialetto? Era tutta colpa di lui – era lui che permetteva che la moglie fosse trattata come la suola di una scarpa. Egli non reclamava rispetto per sua moglie. Ma d’altra parte egli non era capace di reclamare niente, non è vero? Il vecchio cliché incombeva fra di loro, “se tu fossi un vero uomo –” Lei stava in piedi davanti la stufa a riscaldare del latte per fargli l’Ovaltine.
“Senza dubbio, non avrei da bere la mia Ovomaltine.”
Le guance già accese di Paola s’infiammarono ancora di più. “Perché non ascolti mai?” Marco fece le spallucce e cominciò a dirigersi verso la porta. “E che facciamo del tuo latte? Lo sai che il dottore ha detto –“
Marco girò gli occhi “La vuoi smettere di forzare. Il troppo è troppo.”
Paola lanciò uno strillo, afferrò il cartoccio del latte posato sulla stufa e glielo lanciò contro. Gli rimbalzò sul petto e cadde in terra, spargendo il latte sulle mattonelle. “Ecco – vedi cosa mi fai fare. Perché non puoi affrontare una volta la situazione?” L’intensità della sua rabbia e la mancanza di controllo erano insoliti in Paola. Marco non avrebbe potuto lasciare passare quel momento di debolezza. Offriva la possibilità di ristabilire l’equilibrio fra di loro.
Tornò indietro dalla porta, raccattò il cartoccio del latte e cominciò a leggere sul lato a voce alta in dialetto veneziano:
“Late, late, sempre late.” Latte, latte, sempre latte.
“Perché devi girare ogni cosa in una barzelletta?” Paula rimosse dal fuoco con uno scatto il tegamino del latte. “Se ti forzo un po’ col latte e col mangiare è per il tuo stesso bene.”
“Tante Zehte ancuo più che mai
Me par che i sia ben intossegai.”
Molta gente, più che mai,
Mi sembra ben avvelenata.
Paola aveva afferrato uno straccio ed era in ginocchioni a strofinare. “Non sei mai stato un marito per me, non uno vero e proprio. Piuttosto un bambino viziato.” Certamente lei non credeva a questo. Certamente le parole, come il suo didietro che ballonzolava, erano spinte dalla rabbia e dalla scenata.
“Se tu noti l’atmosfera
sia di Venezia che di Marghera
Il tuo desiderio di un cambio passerà.”
“Vuoi smetterla?” Lei stava in ginocchio accanto ai suoi piedi e all’improvviso gli appioppò un forte colpo al ginocchio destro.
Egli si trattenne dal sussultare e continuò a selezionare delle righe appropriate:
“De bever late, magari ogni ora
Ch’el sia pur di vaca bionda o mora.”
Bere latte, magari ogni ora
Purché sia di vacca bionda o mora.
Lasciò la sua voce indugiare su vaca staccando le sillabe, facendo scintillare la sua voce. Paola buttò giù lo straccio. C’erano lacrime nei suoi occhi. A fatica con la mano sulla tavola si tirò su in piedi. Con un ultimo sguardo, “Bastardo,” si diresse alla porta. Ma egli non si arrestò.
“Ogni momento è quello giusto per bere latte,
Purché sia marcato col segno del leone,” le declamava dietro.
Tuttavia non si convinse a seguirla, a continuare la schermaglia, ad assaporare la temporanea vittoria. Avrebbe dovuto. Egli si ritirava sempre troppo presto, sempre pronto a disarmare al primo segno di lacrime. Egli avrebbe dovuto spingere avanti, spingere entrambi avanti fino a cadere nel centro, nel cuore comune del loro labirinto di dolore. Affrontare qualcosa per una volta.
Quella notte era come se la sua mente fosse libera della presenza del corpo di lei; i sogni erano tanto folti e luminosi come foglie cadute. Ma era una libertà di cui non aveva bisogno. I sogni avevano tutti una fragile qualità che preannunciavano la fine, la decomposizione.
Immaginava Paola addormentata a Padova su un letto stretto, sconosciuto. La sua faccia finalmente rilassata sopra un cuscino bernoccoluto, la sua bocca aperta. Francesco in un lettino con le sbarre d’acciaio. Certamente gli avranno fatto una puntura per farlo dormire. Marco poteva vederlo solo sveglio, i suoi occhi vuoti, gonfi, sbarrati nell’oscura silenziosa stanza d’ospedale. Francesco sentiva a livello di certi animali che il suo destino era stato dibattuto e deciso? Marco dovrebbe essere lì con lui. Se il bambino era sveglio in tale luogo sconosciuto, solo. Francesco non aveva la ragione con cui allentare le zampe di terrore. Egli dovrebbe essere lì. Tenere la mano di Francesco. Quelle umide dita paffutelle.
“La bocca sollevò dal fiero pasto.”
Di nuovo le scure, tortuose calle di Venezia. Alla ricerca del centro del labirinto. Non era solo. Passando silenziosamente dalla gondola alla terraferma, muovendosi diritte lungo il margine dei palazzi di pietra c’erano delle figure coi mantelli e le maschere. Solo il movimento le rendeva visibili, perché quasi si confondevano con l’oscurità. Ogni tanto un luccichio della luce del canale illuminava il lungo, curvo naso di un Pantaleone o i crudeli, forti lineamenti di un Pulcinella.
“La bocca sollevò dal fiero pasto.” La voce di Elena. Ma dove? Una di quelle presenze mascherate che si affrettavano alla ricerca di privati, nascosti piaceri?
Campo. Vuoto e luci brillanti. “Salvami.” Le parole erano pronunciate con un piatto accento inglese. Dietro di lui, vestita col costume di Colombina, ma senza maschera, la sua cugina canadese.
“Bambinona,” egli chiamò, ma lei rimase immobile, guardandolo. “Dalla bocca del leone.” Guardando. Qualcun altro la raggiungeva. Una maschera con merletti agli orli, un mantello le incorniciava le spalle bianche e i seni bianchi, della misura di meloni. I seni di Paola. “La bocca...”
La voce di Elena. Altre figure si raccoglievano intorno a Bianca e Paola. I loro occhi guardavano luccicando dietro le maschere. Li conosceva e non li conosceva. Vide la bocca di Alfonso, l’atteggiamento di Tarquinio, le mani di sua madre, ma sembravano dei dettagli a caso invece di caratteristiche identificabili.
“Carnevale.” Le labbra di Bianca si muovevano appena. “Carnevale.” Trasportato via lontano da loro, verso l’alto in una lenta curva. La quiete si riempì all’improvviso di una bella musica sferragliante. Sù. Davanti alla folla, accanto a Bianca, Francesco. Anch’egli senza maschera. “Babbo.” La sua voce incerta fluttuava sù, attraverso il baccano. Più in alto. Più in alto. E sotto di lui adesso la città, rannicchiata, sinuosa, addormentata. Apice. La laguna, eterna, immota, all’incontro del mare e del cielo. Inizio. La curva all’ingiù era più veloce, la musica più forte. Era in una gigantesca ruota panoramica spenta. Carnevale. Senza via d’uscita. Giù. Giù. Musica rauca. Addio alla carne. Lo sapeva. Addio, adesso era carne, precipitando più velocemente, solo carne. Precipitando. Il rombo degli aerei che annegava... [.....]
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* La presente narrativa di Caterina Edwards
tradotta in italiano da Egidio Marchese, è tratta da The Lion’s
Mouth, Guernica Editions, 1993, pp.107-130, ed è
qui riprodotta per gentile concessione di Caterina Edwards
e dell’editore Antonio D’Alfonso.
1 aprile 2006
LETTERATURA CANADESE E ALTRE
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