Dialogo tra Caterina Edwards
e Jacqueline Dumas
(traduzione dall’inglese di Egidio
Marchese)
CATERINA EDWARDS – Tutt’e due siamo cresciute parlando una lingua in casa e un’altra fuori. Il conseguente senso che ci sono differenti modi di dire e anche differenti modi di vedere le cose, è stato essenziale per la nostra narrativa. Io sono stata sempre sospettosa di una sola verità, di un’unica direzione.
JACQUELINE DUMAS – Anch’io. Forse è perché entrambi i tuoi e i miei genitori erano immigrati di prima generazione (nel mio caso francofoni). Io scrivo in inglese, ma ho il senso dell’importanza di ogni parola. Crescere con più di una lingua spinge ad esaminare ogni parola. Come Bechett che scrisse in modo succinto perché scrivere in francese lo portava a considerare ogni parola che metteva giù. Tu sai come le parole possano essere fraintese. Parlare più di una lingua ti rende privilegiata, perché hai più di una visione del mondo, in quanto la lingua non è separata dalla cultura. È un modo di vedere il mondo, di essere nel mondo. Essere consapevole che ci sono diversi modi di essere è importante per uno scrittore. Alimenta la tua immaginazione.
C. E. – Esatto, l’esperienza di due lingue ci fa vedere anche la difficoltà della comunicazione. Ti è stato chiesto perché non scrivi in francese. Perché non lo fai?
J. D.
– Non lo faccio perché il mio
ambiente è inglese. Ho vissuto la maggior parte della mia vita con l’inglese,
perciò mi sento più ad agio a usare questa lingua. Se
vivessi in Quebec o in Francia, dopo cinque o sei anni
probabilmente comincerei a scrivere in francese. Ma ora è più naturale per me
scrivere in un inglese ch’è influenzato dalla
mia originaria base culturale francese. Un inglese con echi francesi. È così che sono.
C. E.
– Il mio italiano non sarebbe buono
abbastanza per scrivere in italiano, a meno che non
vivessi lì per un lungo periodo. Tuttavia sarei
interessata a fare delle traduzioni dall’italiano.
J. D.
– Per me era importante,
particolarmente nel primo romanzo, catturare la cadenza francese. Nella tua
commedia e nel tuo primo romanzo c’è decisamente una
cadenza italiana.
C. E. – Dapprincipio, quando ho cominciato a studiare la letteratura italiana, mi sono resa conto che veramente non conoscevo l’italiano. Anche quand’ero in Italia e parlavo italiano, specialmente in Sicilia, gli amici spesso correggevano il mio modo di parlare. Ma poi, quando ho cominciato a leggere di più, ho capito che veramente non parlavo un italiano scorretto, ma il veneziano. Posso anche capire l’istro-veneto ch’è parlato in Istria e ch’è nella lista dell’UNICEF delle lingue ufficiali in via di estinzione. Ora converso di più nell’italiano standard, ma ancora se non sto attenta mescolo le lingue.
J. D. – Quand’io ascolto un’espressione francese, non sono sicura se è un’espressione dell’Alberta o una che ho sentito dai miei nonni francesi, o se è di Montreal o di Parigi. Ho l’accento di mia madre, che è francese, ma ho un vocabolario canadese. Due dei miei nonni erano di differenti parti della Francia, del Nord e della Savoia, e gli altri nonni erano del Quebec, un vero miscuglio. Tutti sanno che non sono di qui, quale che sia questo qui. È questa la mia identità.
C. E. – Che grande linea di discendenza. Tutt’e due come scrittrici ci concentriamo su personaggi che sentono di non avere propriamente un senso di appartenenza, in qualsiasi luogo si trovino. Eppure sutt’e due cerchiamo anche di rimanere legate alla nostra rispettiva “madrelingua.” Tu continui a leggere scrittori contemporanei francesi. Trovi che leggere il francese influenzi il tuo modo di scrivere in inglese?
C. E. - Io
trovo che traggo sempre più piacere a leggere più
spesso l’italiano. Ho avuto un meraviglioso piacere a leggere degli scrittori
di Trieste, una città notevolmente multiculturale. Mi
ha interessato vedere come scrivevano in italiano autori
che facevano parte di una minoranza etnica. Ma la più grande affinità
l’ho trovata con Enrico Palandri, che scrive in
italiano ma vive in Scozia. Il suo romanzo La via
del ritorno narra il ritorno di un dottore che aveva lasciato l’Italia nel
periodo del terrorismo, il cosiddetto periodo di piombo degli anni 1970. Egli è
molto interessato ai temi dell’emigrazione e dell’italianità. Palandri usa la struttura del viaggio in treno da Londra a
Roma nell’ordine del libro. D’allora l’ho trovato sempre commovente: per tutta
la mia infanzia, mia madre ed io viaggiavamo su quella
linea ferroviaria, tornavamo proprio su quel tragitto. Conoscevo perciò ogni
fermata, il panorama fuori del finestrino. Ma quello che mi ha
sorpreso furono le sue frasi. Sentivo che quel ritmo che c’era nelle sue
frasi, quel ch’egli cercava di ottenere, era lo stesso
nelle mie frasi, sia per il ritmo che la volontà che c’era dietro. (Benché lui scrivesse in italiano ed io in inglese.) Leggendo
il suo libro, ho sentito un’intensa emozione di riconoscimento.
J. D. – In
termini di discordanza culturale, una delle cose che ho notato nella tua
narrativa, particolarmente in The Lion’s Mouth, è un senso di disintegrazione del vecchio, e
allo stesso tempo un senso di bruttezza del nuovo.
C. E.
– Le mie osservazioni non sono giuste, non è vero?
J. D. – Non
sono sicura se sono giuste o no. Il punto è che si
tratta del Canada che scoprono i tuoi personaggi. Dove
ti vedi a questo proposito?
C. E.
– Penso di avere un senso del
Canada aldilà del centro commerciale della West Edmonton, non solo negli splendori della natura, ma nella
bellezza di città come Vancouver o la vecchia Montreal.
J. D. – Ma nessuna di noi due descrive quel tipo di città nei nostri
libri. Forse perché tutt’e due crediamo che il ruolo
dello scrittore, almeno in parte, sia quello di far riflettere il lettore, che
il nostro lavoro sia quello di far dubitare la gente, far dubitare noi stessi,
far dubitare la società e mettere in dubbio le nostre supposizioni. Il nostro
lavoro è insieme quello di sviluppare la nostra immaginazione e aiutare a
stimolare l’immaginazione del lettore e la sensibilità per la bellezza.
C. E. - Calvino ha detto che la letteratura è
necessaria alla politica “quando dà voce a qualsiasi cosa che sia senza una
voce, quando dà un nome a ciò ch’è senza un nome.” La
letteratura può toccare tutto ciò ch’è escluso o
represso sia nell’individuo che nella società. Questo non è il solo scopo della
letteratura, ma nondimeno uno scopo importante.
J. D.
– Sì, esattamente. Quello che io
cerco di fare nella mia narrativa è chiarire anzicché oscurare. E questo non significa essere semplicistici.
C. E.
– Niente affatto. Calvino in
“Lezioni americane - Sei proposte per il prossimo
millennio” menziona la qualità della leggerezza nella letteratura, che per lui
è come un tipo di chiarezza. Egli inoltre mette in enfasi il bisogno della
molteplicità. Leggerezza, rapidità, esattezza, consistenza, visibilità,
molteplicità.
J. D.
– Le Sei proposte di Calvino
è un libro tanto perspicace. E utile.
C. E.
– In The last
Sigh, Isabella, che ha rigettato il
Canada, dice ogni sorta di cose sgradevoli dei canadesi. Quanto siano animati da cattiveria, al di sotto della gentilezza [niceness].
J. D. – Sì, credo che ci sia realmente un mito sulla nostra gentilezza.
Abbiamo questa idea di noi stessi, non siamo
americani, né razzisti, né questo né quello. Quell’idea nega tante cose. E le
storie dei nostri genitori e dei nostri nonni che arrivano e coltivano la
terra, ignorano quella ch’è la vera storia: che qui
c’erano già altri.
C. E.
– Ignorano anche quanto le loro
fatiche fossero glorificate.
J. D.
– Venne gente che pensò di dover
costruire una mini-Europa, e portarono
i loro pregiudizi e la loro oscurità. Noi siamo gente
ipocrita. Non vogliamo vedere la nostra oscurità. Cerchiamo di raccogliere
benefici senza pagarne il prezzo. Trovo più interessante esplorare queste cose,
che accettare semplicemente tutti i miti.
C. E. - Torniamo al tuo punto, che il nostro lavoro come scrittrici è quello di suscitare dubbi. Ho notato che in Madeleine and the Angel, in termini di discordanza culturale, il tuo personaggio Maria Goretti rimane legato alla sua base culturale etnica, quella francese, più di sua sorella Pauline. Pauline rigetta la comunità perché la ricollega ai suoi genitori.
J. D.
– È vero. Il solo modo per lei di
ritrovare se stessa è di rigettare tutto e ricominciare daccapo. È come una positiva disintegrazione.
C. E. – Dunque siamo tutt’e
due interessate al processo di disintegrazione e ricominciare di nuovo.
Rileggendo il tuo romanzo ho sentito emotivamente che Maria
Goretti e Pauline sono
configurate come due aspetti di una stessa persona. Anche se
hanno un diverso approccio con la loro base culturale francese.
C. E. – Una parte inefficiente [ineffectual].
C. E. – È difficile non leggere questo simbolicamente. Leggi un articolo accademico sulla prevalenza della duplicità nelle opere di scrittori che si sentono legati a due culture, e pensi che questo non abbia nulla a che fare con te e la sua narrativa. Certamente tu non progetti di usare i doppi. Ma essi tuttavia sono lì.
J. D. – Parlando della cultura della duplicità, mi sono divertita a leggere The Lion’s Mouth dove hai Marco, l’architetto, che si oppone al progetto turistico al Lido. Ma poi hai Raponi che vuole demolire tutto quello ch’è in vista, mentre ha addosso una colonia che odora dell’albero di pino, conserva nella bottiglia il sentore esterno. Erano venuti dal Canada, gli alberi di pino.
C. E. – Ma quello è un sentore artificiale. Un’altra cosa che abbiamo in comune è che tutt’e due scriviamo di Maria Goretti e della sua influenza.
J. D. – Quando eravamo giovani lei era la principale santa che veniva innalzata davanti a noi da emulare. Ero preoccupata da bambina di essere aggredita come lei. E quale sarebbe stata la mia scelta? Sarei stata abbastanza coraggiosa da morire, anzicché sottomettermi?
C. E. – Io ero piuttosto sicura che non sarei stata abbastanza coraggiosa. Quello che non vedevo allora e che vedo adesso è che lei allora era undicenne.
C. E. - Alle volte in Europa ho la sensazione di non avere abbastanza spazio.
J. D. – In molte tue scene, come la famiglia a tavola da Tarquinio, ognuno ha un proprio ruolo. Sembra che tu voglia dire che la gente lì abbia più libertà nei suoi ruoli.
C. E. – Infatti penso che lì abbiano più libertà. Penso che la gente in Italia esca fuori dai suoi ruoli, ma questo comporta una maggiore lotta, perché la famiglia è tanto forte e la posizione di ognuno è tanto importante.
J. D. – Vedo questo come una trama in tutte le tue opere. L’importanza di uscire da un ruolo, da quello che è previsto, fuori da quello che ci si aspetta da te.
J. D. – Nonostante tu metta in rilievo che gli italiani siano legati alle tradizioni, in The Lion’s Mouth Bianca dice che ci sono delle tradizioni qui che ci condizionano d’inverno. Se tu sei cresciuto nelle praterie, ci si aspetta che tu scriva della tua lotta contro l’ambiente.
C. E. – Siamo condizionati qui da tradizioni e idee acquisite, anche se non ce ne rendiamo conto.
J. D. – Ci compiaciamo a vederci come persone piene di speranza.
C. E. - Ho scoperto che c’è una risentita reazione se uno dice che le cose qui non sono perfettamente egualitarie. O che gli scrittori di differenti classi, razze o religioni non hanno uguale accesso ai mezzi di stampa della maggioranza. Alcuni critici fanno notare che molti scrittori etnici sono diventati famosi. E questo è certamente vero. Ma è molto probabile che uno scrittore etnico sia benvenuto nella corrente della maggioranza, se presenta l’immagine di un altro paese che confermi quello che il lettore canadese pensa già di quel paese. Uno scrittore dell’India che mette in rilievo l’esotismo, il caldo, la polvere, la povertà e la folla di gente diventa più famoso su piano internazionale di uno che scrive della “classe media.” È ancora difficile per uno scrittore o una scrittrice essere accettato/a se offre una nuova, diversa rappresentazione, spezzando gli stereotipi.
J. D. – Non credi che le cose siano cambiate?
C. E. – Le cose sono migliorate. The Lion’s Mouth è uscito nel 1982, quando gli scrittori etnici non erano ancora di moda. Se uno avesse rappresentata una Italia primitiva, con contadini e povertà, e racconti con molta salsa di pomodori e aglio, avrebbe avuto molto più successo. Avremmo vinto delle battaglie, ma non la guerra.
J. D. – È come il femminismo; i problemi sono sempre lì, e allora come si può parlare di post-femminismo?
C. E. – Ci sono troppe aspettative da parte della critica canadese e da quella italiana intorno alla narrativa italo-canadese. Quando la mia commedia, Homeground, fu presa in considerazione per la messinscena in altre città, diversi registi commentarono che i personaggi non avrebbero dovuto essere tanto articolati. Ho trovato che c’era tanta condiscendenza. Pensavano che in quanto immigrati dovessero parlare un inglese spezzato o con quello stereotipato accento “italiano.”
J. D. – Il mio editore fu sorpreso a scoprire che Madeleine and the Angel era considerato privo d’interesse per il pubblico del Quebec. Nel mondo dell’editoria c’è l’idea che i quebecchesi non abbiano interesse a leggere sull’esperienza dei francofoni in Alberta perché, ovviamente, noi non esistiamo. St. Boniface, Moncton, e basta. [Risate.] Come disse Lévèsque, noi siamo delle oche morte.
C. E. – Tutti gli scrittori italo-canadesi dovrebbero vivere a Toronto.
J. D. – Siamo ancora contro questi miti.
C. E. - Sospetto che abbia nuociuto a The Lion’s Mouth l’essere stato pubblicato da una piccola casa editrice regionale dell’Ovest, mentre nel libro c’era tanto dell’Italia e dell’essere italo-canadese. Ma non è così anche per te? Specialmente per The Last Sigh, che ha una tale forte attrattiva su piano internazionale ed ha luogo in Granada.
J. D. – The Last Sigh fu pubblicato da Fifth House, una piccola casa editrice del Saskatchewan. Penso che abbiano percepito che non fosse per loro un libro da pubblicare. Ebbero difficoltà a promuovere quel libro. Se lo avesse pubblicato Random House o un’altra grande casa editrice, sarebbe stato differente. Le case editrici regionali hanno le stesse difficoltà degli scrittori regionali ad attrarre l’attenzione nazionale o internazionale. La tendenza nell’industria editoriale di oggi è che vengano pubblicati e lanciati i libri di scrittori di una provata popolarità. Ogni editore sembra che oggi sia indirizzato a cercare uno scrittore nuovo, giovane e fotogenico. Ma gli scrittori che hanno fuori due o tre libri hanno veramente difficoltà a essere pubblicati. Cos’è successo della cura di uno scrittore? Grandi librerie, grandi editori sono interessati a grandi venditori di mercato. Una triste tendenza.
C. E. – Perché così tutto è reso omogeneo, così prevedibile. Nell’editoria ci sono delle aspettative di chi dovrebbe scrivere cosa e come dovrebbe essere.
J. D. – Oggi si pretende che gli scrittori facciano la promozione del libro. Perciò gli editori comprano la personalità invece dell’opera..
C. E. – Quando io cercavo di fare uscire il mio nuovo libro, Deadly Elements, diversi editori hanno espresso dubbi su come promuovere il libro sul mercato. Sembravano confusi, perché era insieme un giallo ed un romanzo letterario. Gli editori volevano catalogarlo sotto l’uno o l’altro genere. Credo che non gliene sarebbe importato niente se l’autore fosse stato molto famoso.
J. D. – Si chiede agli scrittori di scrivere delle proposte promozionali. Tutto deve essere visto come un affare commerciale, anche le università. Ma questa è una terribile maniera di accostarsi all’arte. È tutto parte dell’americanizzazione della cultura.
C. E. – Credo davvero che ciò è di detrimento a ciò che si produce. Sei punito se non rientri in un quadro restrittivo prestabilito.
J. D. – Non cercare neanche di essere sperimentalista, all’avanguardia. Davvero una delle grandi differenza tra il Nord America e l’Europa è lo stato dell’artista. In Spagna io ero rispettata perché ero una scrittrice, non nonostate ciò. Quello era il mio posto nella società.
C. E. - Ho avuto una simile esperienza quando scrivevo The Lion’s Mouth. Ero bene accolta in qualsiasi posto andassi a Venezia e potevo fare qualsiasi domanda volessi, perché ero una scrittrice. Non avevo ancora pubblicato un libro allora, ma ero già trattata con rispetto. Non qui. Credo che qui l’attitudine provenga dall’immagine romantica che si ha dell’artista come un essere anormale. E invece, come artista, tu fai parte della società; non sei né meglio né peggio di qualsiasi altro.
J. D. – Qui uno è rispettato se ha venduto molti libri. Se nessuno ti ha comprato, non vali niente. Non sei considerato perché hai aperto gli occhi alla gente o l’hai fatta pensare in modo diverso. O hai introdotto la bellezza nel suo mondo. Penso anche che l’atteggiamento verso la cultura abbia a che fare col passato pionieristico di questa provincia. L’arte è vista ancora come una frivolezza.
C. E. – Questo è pure l’atteggiamento di molti immigrati. Quel che importa è fare più soldi possibile. Avere la migliore casa.
J. D. – Stiamo generalizzando, naturalmente. Tuttavia la gente che si sistemò qui spesso perse più che la sua cultura. Perse l’idea della cultura.
C. E. – Hai menzionato ch’io nei miei lavori faccio una quantità di riferimenti all’arte. Lo faccio perché credo nell’importanza dell’arte. La memoria delle statue etrusche in Whiter Shade of Pale spinge il narratore a riflettere sulla sua vita. Quelle statue dicono che quello ch’è essenziale a una buona relazione tra uomo e donna è l’uguaglianza, la tenerezza, la gentilezza. L’arte anche da un’epoca lontana può parlare a te ancora oggi.
J. D. – Ma i politici di oggi sembra che pensino che l’arte possa dire solo quello che loro vogliono che dica, che dovrebbe glorificare la nostra società così com’è. Ma la narrativa è una delle migliori maniere di creare dubbi.
C. E. - Hai detto che hai avuto differenti esperienze quando sei stata intervistata dai media di lingua francese ed inglese.
J. D. – È vero. Nelle interviste inglesi alla stazione radio tu stavi seduti dall’altra parte di un grande tavolo, l’atmosfera era molto fredda, e l’intervistatore ti faceva poi delle domande molto personali, circa mia madre e se degli eventi nel libro fossero realmente accaduti. Nelle interviste dei media di lingua francese, l’intervistatore siede molto vicino a te, e va avanti in un modo caloroso ed intimo. Ma le domande non erano invasive, vertevano sul romanzo, sullo stile e la sostanza. Il mio primo romanzo tratta della violenza sessuale e la violenza fisica. Ho scritto sull’argomento con tatto, senza specifici dettagli visuali. A volte ho avuto l’impressione che i media inglesi avrebbero avuto piacere se mi fossi aperta durante la trasmissione, che fossi venuta fuori con quel tipo di dettagli. Molti non erano interessati al romanzo in sé.
C. E. – Eccoci di nuovo a doverci vendere. Se piangi o esprimi forti emozioni, allora sei un autore che si può vendere.
J. D. – Un programma radiofonico nazionale decise di non intervistarmi quando dissi che non avrei parlato della mia vita personale.
1 aprile 2006
LETTERATURA CANADESE E ALTRE
CULTURE