CRONICA  XXXIV

Fabio Brotto

brottof@libero.it

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MEKNES. La scuola è come la stazione centrale di Meknes, di cui scrive Tahar Ben Jelloun ne La preghiera dell’assente (1981, trad. it. di M. Matarrese, Edizioni Lavoro, 3ª ed. Roma 2003). “La stazione centrale di Meknes è una corte dei miracoli. Come tutti i luoghi di arrivi e di partenze, è anche un luogo di enigma, di gioco, di risa e di violenza” (p. 87). Spesso, aggiungo, nelle stazioni si perdono i treni, e si vivono lunghe attese, nella noia più profonda. Ma la scuola è una corte dei miracoli in un duplice senso. Perché nella scuola c’è di tutto, certo, e la fauna dei docenti, degli studenti e degli ATA è varia, e variamente acciaccata nel fisico e nello spirito. (E basterebbe entrare in un’aula magna durante uno dei frequenti collegi, e sentir parlare alcuni docenti, per rendersene conto). Ma ogni scuola è anche una corte nel senso non traslato, una vera e propria piccola corte (con Dirigente-Sultano, Ciambellani, Cortigiani, Dame—pochi o nulli Cavalieri, però—e varia Servitù), nella quale avvengono sovente dei miracoli: come l’apparire di insegnanti-insegnanti e di allievi che (miraculum!) studiano.

 

LOTO. “Non posso narrare quel che accadde a Hócin nelle lontane terre russe. Non perché non ricordi, bensì perché non voglio. Non vale la pena raccontare di terribili massacri, della paura dell’uomo, della bestialità degli uni e degli altri, non bisognerebbe ricordare né compiangere né glorificare. La cosa migliore è dimenticare, affinché muoia il ricordo umano di tutto ciò che è brutto e i bambini non intonino canti di vendetta”. Così le prime righe del cupo romanzo La fortezza di Mehmed Meša Selimović (1970, trad. it. di Vesna Stanić,  BESA Editrice, Nardò 2004. Su di lui in questo sito vedi http://www.bibliosofia.net/files/DERVISCIO.htm ). Che la memoria sia sempre cosa buona, infatti, non è vero, perché anche la vendetta ha bisogno di una memoria, e senza memoria non c’è alcuna vendetta. Non posso restituire bene per bene, ma neppure male per male se non ricordo ciò che ho vissuto, o hanno vissuto i miei padri. Dobbiamo pensare che neppure l’oblio sia sempre cosa buona, però, se non vogliamo assimilarci ai “Lotofagi, che mangiano un cibo di fiori” (Odissea IX, 84 ). Ma la memoria non è neppure libera. In ogni gruppo umano la memoria è regolata, orientata, manipolata. In una società come quella italiana di oggi, della cui ideologia ufficiale fa parte il perdonismo oblioso, pensare la questione della memoria è, tuttavia, quasi impossibile. Come la vendetta, il perdono reale implica sempre il ricordo; la nostra è la società del Lotto e del loto (due facce della stessa trista medaglia).

 

ADDIO. “L’amore nasce per ragioni incongrue, ogni tanto per equivoco, è intempestivo, non è contemporaneo di se stesso e certe volte solo per caso si rivela” si legge a pag. 76 del bel romanzo di Elisabetta Rasy La scienza degli addii (Rizzoli, Milano 2005). Questo si può dire dell’amore tra due persone, ma anche dell’amore per un’attività, come quella dell’insegnante. Possiamo amare però solo quello che ai nostri occhi appare bello. Di qualunque bellezza si tratti, magari solo illusoria (me perché quel “solo”, ogni bellezza non è illusione?). E la frattura del tempo è sempre associata alla bellezza, di cui si afferra la presenza solo quando essa si oscura e svanisce. Saper dire addio a ciò che abbiamo amato intensamente proprio perché era perduto, e forse illusorio fin dalle origini, è una delle forme superiori di sapienza.

 

SILENZIO. L’imperativo “silenzio!” è presentissimo sulle labbra degli insegnanti. Dalla prima elementare (prima primaria, ora?) alla quinta superiore. Pronunciato spesso con una rabbia mista a rassegnazione, è l’imperativo pronunciato da coloro che non hanno saputo mostrare il silenzio, a suo tempo, ai bambini con un atto ostensivo, e da coloro che non sanno mostrarlo neppure agli allievi più grandi. Ciò che non è mostrato, spiegato, non può essere appreso. C’è del resto silenzio e silenzio. C’è il silenzio buono degli allievi presi dalla lezione e attenti, persuasi, e quello momentaneo e non convinto dei ragazzi impauriti; c’è quello amorfo degli allievi disinteressati che non osano chiacchierare ma lo farebbero volentieri, e quello teso degli inizi di un compito; c’è quello sospeso che si crea nel momento in cui entra un insegnante nuovo e quello che precede l’annuncio dei voti assegnati: molte qualità differenti. Ma in genere nelle nostre classi il silenzio buono, creativo e produttivo, il silenzio della saggezza, manca. Gli insegnanti stessi non lo conoscono affatto, e per convincersene basta assistere ai loro collegi, dove la chiacchiera della burocrazia si libra sul chiacchiericcio dei presenti distratti. La scuola, ammesso che oggi abbia dei fini, non ha tra di essi quello di trasmettere saggezza, e giustamente, perché la saggezza non riguarda i giovani. E oggi, dato che nessuno vuol crescere e diventare pienamente adulto, non riguarda nessuno. Questo spiega perché nel nostro mondo non si può insegnare il silenzio, l’artefice delle strutture mentali. Questo spiega, anche, perché nelle scuole abbondino i comportamenti stoltamente irrazionali, in cui sono implicati tutti. Come scrive Raimon Panikkar a pag. 24 del suo La dimora della saggezza (Der Weisheit Eine Wohnung Bereiten, 1991, trad. it. a cura di M. Carrara Pavan, Mondadori , Milano 2005), per comprendere cosa sia la saggezza, occorre muovere dal suo contrario, la non-saggezza. Questa è legata al rumore, alla chiacchiera, alle molte nozioni, ad una sorta di falsa pienezza.  “Il contrario della saggezza non è l’incapacità o l’ignoranza, perché la saggezza non è l’incapacità o l’ignoranza, perché la saggezza non risiede solamente nel fare o nel sapere. Non è nemmeno la stoltezza. (…) Il saggio è spesso muto. È istruttivo e importante per il nostro tempo apprendere ciò che Eraclito ha formulato in opposizione alle migliori tradizioni occidentali: il contrario della saggezza è l’erudizione, la polymathia” (p. 24). Nella nostra tradizione scolastica, ai tempi d’oro che alcuni, nella loro vanità, rimpiangono, l’erudizione, nell’una o nell’altra delle sue tante variegate forme, nel tempo cangianti, è stata (ed è, nelle travestite e sminuite sembianze delle competenze ecc.) il massimo obiettivo che Ministri, Ispettori, Presidi e docenti si sono figurati, e il cui non conseguimento hanno continuamente lamentato. Avessero fatto e facessero, almeno, silenzio.

 

LEGALITÀ. Si è parlato molto, nella scuola e fuori di essa, di educazione alla legalità. Come di educazione alla salute. Su queste due educazioni nutro molti dubbi. Nutro molti dubbi, invero, sul fatto che nell’Italia di oggi esista qualcosa che meriti il nome di legalità. Se esiste, è un involucro vuoto, che appartiene alla sfera della rettorica, non a quella della persuasione. La legalità, come gli animali, ha bisogno dell’habitat che le si addice. Qui non c’è. Mi vengono, a questo proposito, in mente quattro fatti, senza nesso apparente tra loro, di cui uno abbastanza lontano nel tempo. Veda il lettore se un nesso possa essere intravisto.

 

1. Anni fa, nel tempo ormai lontano in cui l’ordinamento degli esami di maturità prevedeva le commissioni esterne, fui nominato commissario di italiano presso un noto liceo classico di Roma. Il presidente della mia commissione era un anziano professore universitario (c’erano anche questi nella maturità di allora, prima della grande caduta). Era un professore universitario di diritto, ed avvocato cassazionista. Una persona molto interessante, di grande esperienza. Impegnato anche nella revisione di processi di mafia. Una delle cose che mi disse, nel primo colloquio che seguì la reciproca presentazione, fu la seguente: “L’Italia, caro professore, non è, come molti pensano, la patria del diritto: è, invece, la patria della negazione del diritto”. E mi spiegò come la negazione del diritto fosse fondata anche sulla cialtroneria con la quale molte sentenze venivano redatte, con errori e vizi di forma che necessariamente portavano all’annullamento dei processi, con tutte le conseguenze del caso, soprattutto se il caso era di mafia. Qualche giorno dopo mi trovavo vicino all’entrata della scuola, in attesa dei colleghi, mentre il presidente era già nell’aula della nostra commissione ad esaminare le carte della giornata, quando mi si fecero davanti due individui vestiti di nero (col caldo che faceva), e con occhiali neri, e con accento siculo. Mi chiesero di poter parlare col presidente di commissione, dicendomi soltanto che lo conoscevano, che lui avrebbe capito. Pensai subito che fossero due killer mafiosi, venuti a intimidire l’avvocato o addirittura ad eliminarlo. Così andai precipitosamente da lui e gli dissi che lo cercavano due loschi figuri, e che forse sarebbe stato meglio che lui prendesse tempo e che io intanto avvisassi la polizia. Ma lui mi rispose: “alla mia età non si può avere paura”, e andò immediatamente da loro. Stetti in ansia per dieci minuti, aspettandomi di sentire dei colpi di pistola. Ma lui tornò sogghignando, e mi disse che si trattava di due ispettori ministeriali, venuti non già per controllare la regolarità dell’esame, ma per raccomandare un candidato. Aggiunse che a Roma questo succedeva normalmente. In effetti, nei giorni successivi, al telefono dell’albergo in cui alloggiavo insieme a molti altri commissari giunsero numerose telefonate: di raccomandazione, tutte da ambienti ministeriali, una addirittura da un sottosegretario…

 

2. Un camion che trasporta confezioni di tè in tetrapak sbanda e si rovescia sul bordo dell’autostrada, non lontano da Treviso. qualche settimana fa. È notte. Sull’autostrada passano molte auto. E molte si fermano, perché un incidente desta sempre curiosità, e tutt’intorno al camion rovesciato è pieno di confezioni di tè (alla pesca suppongo, buono). Gli automobilisti fanno a gara a chi ne raccoglie di più. Alla mattina non ne rimane una.

 

3. Una pompa di benzina si rompe, non lontano da Treviso, qualche mese fa. È notte. Sulla strada passano diverse auto, qualcuna deve fare benzina. Un automobilista si accorge che il distributore automatico eroga senza bisogno di soldi o carte di credito, è rotto. Telefona subito ad amici e parenti, la voce si diffonde. Alla mattina il serbatoio è vuoto.

 

4. Esame di maturità, prova scritta di latino. Tutti gli allievi consegnano i telefonini, nel mio liceo di Treviso, qualche mese fa. Molti si tengono il secondo, mica possono essere perquisiti. Molti vanno al bagno, durante la prova, non possono mica essere trattenuti. Cosa succede? Chi lo sa… Una prova perfetta, poi, anche se palesemente uguale ad una versione uscita su Internet o in wap, non può essere contestata dalla commissione. O li becchi in flagrante o niente. In tutta Italia i telefonini hanno cambiato la realtà degli esami. Solo il Ministero finge di non accorgersi di nulla, dichiara che le prove sono state regolarissime, che le commissioni hanno vigilato, che i candidati hanno consegnato le loro strumentazioni, ormai vere e proprie protesi, prima dell’inizio delle prove… Verrebbe da dire, parafrasando Svevo: la scuola attuale è inquinata alle radici. Come la nostra vita. O no?

 

COSE VECCHIE. “Guarda invece là il sandolino”, proseguì—e mi indicava nel mentre, attraverso il vetro dello sportello che i nostri fiati cominciavano ad annebbiare, una bigia sagoma oblunga e scheletrica accostata alla parete opposta a quella occupata dallo scaffale dei pompelmi—. “Guarda invece là il sandolino, e ammira, ti prego, con quanta onestà, dignità, e coraggio morale, lui ha saputo trarre dalla propria assoluta perdita di funzione tutte le conseguenze che doveva. Anche le cose muoiono, caro mio. E dunque, se anche loro devono morire, tant’è, meglio lasciarle andare. C’è molto più stile, oltre tutto, ti sembra?” (Il giardino dei Finzi-Contini, ne “Il romanzo di FerraraMondadori,  Milano 1991, p. 446). Rileggendo Bassani, quest’estate, sono stato molto colpito da queste parole che l’amabile Micol indirizza all’autore-protagonista. In effetti, esse mi sembrano piene di senso. C’è qualcosa di antico e di perduto, forse per sempre, nell’idea che si debba uscire di scena con “onestà, dignità e coraggio morale”. Si tratta, ancora una volta, di applicare la sapienza del non attaccamento, che per essere tale deve riguardare tutto: persone, affetti, anche il nostro corpo, e le cose che hanno significato molto per noi in tempi passati, che sono associate a momenti di felicità, di realizzazione di noi stessi. A ogni cosa bisogna saper dire: è giunto il tuo momento, e va rispettato, ti lascio andare. Agli insegnanti che lamentano la loro “assoluta perdita di funzione” bisognerebbe dire che c’è una benedizione per chi viene, ma anche per chi va.

 

27 agosto 2005 A.D.

 

SCUOLA E NON SCUOLA