Su Il derviscio e la morte di Meša Selimović
Fabio Brotto
Finalmente Baldini & Castoldi ha
ripubblicato (la prima edizione Jaca Book del 1983
era da tempo introvabile) uno dei grandi romanzi del
secondo Novecento, Il derviscio e la morte di Meša
Selimović (a cura di L. Costantini).
Storia di una
vendetta, del crescere graduale di un odio feroce nell'anima di un derviscio
(una sorta di "frate" musulmano) di Bosnia, come tutti i grandi romanzi l'opera dello scrittore serbo apre uno squarcio nel
cuore dell'umano, dove si annida quella malvagia passione del distruggere e
dell'essere distrutto che ha nome violenza.
Il derviscio di Selimović č un derviscio per modo di dire. La sua interiorità non è certo quella di un vero esponente
dell'ordine religioso, ma piuttosto quella di un intellettuale del Novecento,
di un tipico intellettuale del Novecento, quale si presenta in innumerevoli
romanzi dell'ultimo secolo: in contrasto col potere dominante, verboso,
tormentato, inconcludente, fortemente risentito e infine sconfitto. La collocazione storica della vicenda bosniaca narrata nel Derviscio
è imprecisata (forse il primo Settecento, con l'impero turco in conflitto con
quello asburgico, ma la cosa non è importante). L'io narrante del protagonista colloca la vicenda entro lo spazio di una coscienza, anche
se la citazione coranica iniziale e finale sembra aprire uno spazio religioso
che nel romanzo per sé manca (ma nella Jugoslavia titoista
del 1966, anno in cui il romanzo fu pubblicato, una narrazione veramente e
profondamente religiosa avrebbe riscosso il successo del Derviscio,
alcune pagine del quale entrarono subito nelle antologie scolastiche di quel
paese?).
Disumanità del
potere e insensatezza della vita (e della morte) umana sono il contenuto
dell'opera, che termina così:
I vivi non sanno nulla.
Insegnatemi, o morti, a morire senza paura, o almeno senza orrore. Perché la morte è un nonsenso, come la vita.
Si potrebbero
rubricare le molte bellissime vibranti pagine del Derviscio sotto
l'etichetta nichilismo lirico, un atteggiamento frequente nella
narrativa dell'ultimo secolo. Al protagonista è stato regalato un libretto, un
grazioso opuscolo dall'aria innocente…
Aprii il libro a caso
e mi imbattei nel racconto di Alessandro il Macedone.
L'imperatore, dice il racconto, ricevette in dono dei meravigliosi vasi di
cristallo. Il dono gli piacque molto e tuttavia egli li ruppe
tutti. "Perché? Non sono forse
belli?" gli domandarono. "Proprio per questo" rispose
lui. "Sono così belli che mi dispiacerebbe moltissimo perderli. Con il
tempo si romperebbero uno dopo l'altro ed io ne soffrirei
più di ora".
Il racconto è ingenuo,
ma mi lasciò sgomento. Il suo senso è amaro: l'uomo
deve rinunciare a tutto ciò a cui potrebbe affezionarsi, perché la perdita e la
delusione sono inevitabili. Dobbiamo rinunciare all'amore, per non perderlo.
Dobbiamo distruggere il nostro amore, perché non lo distruggano altri. Dobbiamo
rinunciare ad ogni legame, per evitare il possibile rimpianto. Pensiero
tremendamente disperato. Non possiamo distruggere tutto quello che amiamo; rimarrà
sempre la possibilità che ce lo distruggano altri.
Perché i libri sono considerati saggi se sono amari?
Questa domanda mi
pare assolutamente fondamentale. Per rispondere ad essa
è necessario aver letto intensamente l'Ecclesiaste e Giobbe,
averne bevuto il vino inebriante.
Ahmed Nurudin è il nome del
derviscio del libro di Selimović.
Nurudin significa "luce della fede". Nel
romanzo questa luce non c'è affatto. Allora per illuminare il buio riporto qui
una poesia del fondatore della "confraternita dei dervisci giranti", Gialâl ad-Dîn Rűmî
(1207-1273).
TU
E IO
Felice
il momento quando sediamo, io e te, nel palazzo,
due
figure, due forme ma un'anima sola, tu e io.
L'acqua
di vita darà immortale gioia al Verziere e al canto degli uccelli,
quando
insieme incederemo nel giardino, tu e io!
Le
stelle del firmamento scenderanno a guardarci
e la
nostra splendida Luna mostreremo a loro, tu e io!
Tu
e io senza più tu né io ci uniremo nell'estasi,
lieti e
felici e liberi dalle vane parole, tu e io!
E
gli uccelli celesti s'addolciranno di zucchero il becco
nel luogo
ove noi così a gioia rideremo, tu e io!
Ma
ben strano è che io e te stretti in un solo nido
siamo, in
questo momento, uno in Irâq e uno in Khorâsân, tu e io!
In
una forma su questa terra, e, pure, in altro disegno,
nel
paradiso eterno di dolcissima gioia, tu e io!
Da Poesie
mistiche, a cura di A. Bausani,
Rizzoli, Milano 1980
[agosto 2001]