CRONICA  XXXVIII

Fabio Brotto

brottof@libero.it

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CHI INSEGNA SI RACCONTA. Come già accadde per la Cronica XXXIII[1], uno dei periodici ritorni in Italia del mio carissimo amico Alberto Astolfi, che da qualche anno insegna negli Stati Uniti, mi ha consentito di discutere con lui di argomenti che riguardano la scuola italiana. In quest’ultima occasione ci siamo scambiati le nostre opinioni su di un libro che abbiamo entrambi appena letto, La mia scuola, edito da Einaudi[2], uscito da qualche mese. Ho registrato la nostra discussione. La riporto qui, fedelissimamente.

 

Brotto. Caro Astolfi, eccoci di nuovo qui a discutere di un libro. Questa volta è uno dei tanti che si scrivono sulla scuola. Escono, per qualche settimana se ne parla di qua e di là… In generale, mi pare che non siano molto letti dagli insegnanti, e che la situazione generale della scuola non ne sia minimamente influenzata.

Astolfi. Questo libro, però, mi sembra diverso dagli altri, e particolarmente significativo, perché raccoglie tantissime testimonianze di persone diverse per età, formazione culturale, esperienza di vita, ideologia, ecc. Insegnanti di ogni tipo, insomma, che raccontano se stessi e il modo in cui vedono la scuola. Si può forse tentare di cogliere un qualche punto unificante, che consenta di illuminare la condizione attuale degli insegnanti, e della scuola italiana.

Brotto. Non so se una vera illuminazione sia possibile. Temo che una delle più potenti immagini del libro sia fornita a pagina 121 da Giannino Marzola, nella sua testimonianza dal titolo Testate contro il muro: “Forse se dovessi cambiare la scuola italiana comincerei dalla luce: via i neon… lampade pendenti… una luce più calda e familiare. Le luci al neon a me ricordano gli ospedali; e gli ospedali non sono luoghi in cui ci si possa sentire a proprio agio, soprattutto se degli adolescenti ci devono passare buona parte del loro tempo per gli anni «più belli» della loro vita”. Sull’importanza della qualità dell’illuminazione delle aule per l’attività scolastica mi pare che pochi abbiano riflettuto. Io il neon non lo sopporto proprio, è una luce massimamente irreale, radicalmente falsa. Temo, peraltro, che abbia a che fare con la natura della scuola contemporanea. Bene. Quale tema ti ha colpito maggiormente nel libro? Potremmo cominciare da lì.

Astolfi. Il tema della fatica. Questo grande oggetto di oblio nello pseudopedagogismo contemporaneo e nei programmi ministeriali, un oggetto che nel libro emerge con forza. Fatica di insegnare da parte di tutti i docenti che qui raccontano di sé, fatica di dare un senso al proprio stare a scuola da parte degli allievi; assenza, però, della fatica accettata come prezzo da pagare per un vero apprendimento. Lo dicono già i due curatori a pag. 6, riferendosi ad una ricerca sociologica: “E il permissivismo, che un decennio fa apparteneva a una minoranza di nuclei familiari, è diventato oggi un modello educativo di massa, così come un tempo lo era l’autoritarismo. Il tema della fatica dell’educare e dell’essere educati è assente”. Questo si intreccia col tema del conflitto di valori tra la scuola e la società mediatica, che contrappunta tutti i racconti del libro. I due curatori affermano a pagina 11, riportando il pensiero di un’insegnante: “La fatica non è più di moda e la cultura nella gerarchia dei valori della nostra società non è più un valore riconosciuto”.

Brotto. In effetti, la società mediatica tende a oscurare la stessa esistenza del lavoro faticoso e logorante. Non fa spettacolo. Pensa, caro Astolfi, al semplice e bruto fatto che dell’esistenza in Italia, e della vita, di 1.600.0000 metalmeccanici i giornali e le televisioni si occupano in una sola occasione, e cioè quando per ottenere il rinnovo del contratto scendono ad azioni di protesta molto forti. Nel nostro Sistema solo le fatiche piacevoli e veloci debbono avere visibilità sociale, cioè televisiva. Come quelle dei calciatori. L’apprendimento di vere conoscenze è lento, per sua natura, e avviene con fatica. Pertanto è essenzialmente antitetico alla weltanschauung di cui sono portatori i mass-media. Come nel libro scrive a pagina 76 Maria Grazia Calcagno, nel suo pezzo Slow school, nella scuola spesso si dimentica … “l’unica cosa veramente importante: insegnare ai ragazzi ad affrontare i problemi con fatica e lentezza, a riflettere”). Ci si può, tuttavia, domandare se un’istituzione sociale possa andare in controtendenza rispetto ai valori della società per la quale essa deve preparare i giovani…

Astolfi. Che un’intera istituzione possa andare in controtendenza mi pare, in verità, cosa assurda, che non potrà mai essere. Potrà accadere bensì che degli insegnanti si pongano come antagonisti, e presumo che saranno perdenti. Il loro, probabilmente, è destinato a rimanere un mondo di vorrei. Nel senso in cui scrive Alessandra Bellò nel suo intervento Noi dei tecnici, a pagina 55: “ Vorrei che i miei allievi ritrovassero la soddisfazione di un risultato positivo conseguente a una «fatica»; vorrei che apprezzassero la sensazione appagante di un successo guadagnato, di un lavoro ben fatto; vorrei che rimanessero incantati dalla magia dell’esercizio metodico e costante (….); vorrei che si accorgessero che chi li tratta con eterna indulgenza, chi li condanna all’impunità, chi cerca a tutti i costi il loro immediato consenso li sta prendendo in giro”.

Brotto. Belle parole davvero! Ma le famiglie stesse non richiedono ai figli la fatica, in nulla. Altro che esercizio metodico e costante. Del resto, le famiglie, intese come genitori, sono una cosa strana. Da un lato non partecipano alle elezioni degli organi di governo della scuola, come i consigli di classe e di istituto, delegando di fatto una ridotta minoranza a delegare a propria volta una minoranza ridottissima a rappresentare gli interessi e le intenzioni dei genitori tutti, dall’altro esercitano pressioni in vari modi, più o meno coperti e privati, spesso condizionando i Dirigenti. Sempre difendendo i propri pargoli, perdonando, acquiescendo… Mi viene in mente un passo della scrittrice vietnamita Duong Thu Huong, che testimonia, fra l’altro, che certi problemi si danno dovunque, anche ad Hanoi:  “Uno o due genitori, ma anche tre o quattro o addirittura quattordici non sono rappresentativi della volontà di tutti i genitori. E anche l’opinione di tutti i genitori messi insieme non rappresenterebbe necessariamente la verità”[3].

Astolfi. La verità? La verità non può che aver un rapporto assai conflittuale con la scuola della menzogna, come la definisce nel suo duro intervento Prop. Uff. Andrea Del Ponte (“un’istituzione, cioè, dove molto, quasi tutto, è dominato dall’ipocrita finzione dell’utilità di ciò che è inutile e della verità di ciò che è falso” – a pagina 99). O meglio, non può vivervi che una vita alquanto grama.

Brotto. Sono d’accordo, alludevo all’eclissi di ogni verità quando prima dicevo del neon. Nella mia vita scolastica, ormai più che trentennale, ho conosciuto molti Dirigenti. Tutti, o quasi, molto ben disposti verso i luoghi comuni di volta in volta imperanti, e verso una comoda ed economica concezione relativistica della realtà. Relativismo italiota, ben s’intende, quello che sta assai bene insieme al familismo amorale che caratterizza, pare, la nostra stirpe. Quello per cui si pensa che gli insegnanti non abbiano, in realtà, nulla di veramente importante da insegnare. Per cui tutto è, infine, teatro. Devi stare al gioco delle parti anche tu insegnante. Soprattutto non devi pensare di possedere delle vere conoscenze, che possano avere un vero valore. “Ma cosa vuoi sapere tu, in fondo sei solo un insegnante!” Io penso che una delle convinzioni più radicate nei genitori e, ahimè anche nei Dirigenti (che sono tutti degli ex insegnanti), sia quella che gli insegnanti siano solo degli insegnanti. Percezione sociale pervasiva e transnazionale, di cui dà conto il graffito metropolitano statunitense riportato da Antonio Ferrero a pagina 105: “Dio non ha creato niente di inutile, ma con le mosche e gli insegnanti ci è andato vicino” .

Astolfi. È proprio la coscienza di questa bassa valorizzazione sociale quello che rende dura la vita dell’insegnante, spesso chiamato a imprese impossibili. In effetti, nel libro di cui stiamo parlando si vede un grande impegno da parte dei docenti, chiamati a combattere spesso battaglie perdute in partenza, con scarsità di mezzi e di linee guida chiare e praticabili ma circondati da discorsi retorici, nebulosi e vacui. Eppure compiono sforzi eroici. In quello che forse è lo scritto più drammatico fra tutti, Non siamo don Milani, a pagina 115, Silvana La Porta inizia così: “Agli insegnanti, da quando la scuola italiana, con l’estensione dell’obbligo, è diventata un’istituzione veramente democratica, sono state fatte delle richieste assurde e ai limiti dell’impossibilità”. Sei d’accordo anche su questo, no?

Brotto. Certamente. Ti dirò, caro Astolfi, che a mio giudizio tutte le assurdità da cui ci vediamo oppressi hanno origine dalla crisi dell’ultimo paradigma della scuola italiana, quello che ha seguito immediatamente il paradigma post-sessantottesco, e che definirei paradigma della scuola modernizzata e flessibile.

Astolfi. Per paradigma intendi, io credo, non solo un complesso organico di presupposti, di metodi e strumenti…

Brotto. In senso ampio, un insieme di convinzioni socialmente condivise, di certezze comuni, di valori dati per indiscutibili, di idee che appaiono incontestabili. Ci si trova all’interno di un paradigma e si tende ad accettarlo… Il paradigma è in relazione all’orizzonte di plausibilità di cui parla la sociologia, per cui ad un uomo del medioevo appariva plausibile che il diavolo insidiasse la vita degli umani, magari anche facendo cadere una pietra sulla testa di uno scolare, mentre oggi appare plausibile che la più grande felicità stia in un rapporto erotico. Credo che un libro che dovrebbero leggere tutti quelli che si occupano di scuola sia questo libro che ho in mano, caro amico, e che di scuola non parla affatto: Babbo Natale, di Nicola Lagioia[4], che mostra come la comunicazione pubblicitaria contemporanea abbia ormai la capacità di creare orizzonti di plausibilità e di senso. Una potenza che la scuola non ha, e dalla quale è soverchiata. La domanda inquietante che Lagioia pone a pagina 15 dovremmo porcela tutti. “Come è possibile … che istintivamente rischiamo di dare più fiducia a uno spot pubblicitario che a una fonte storica? Che ci ritroviamo con la spiazzante, singolarissima facoltà di sapere e, contemporaneamente, non sapere?”

Astolfi. Penso che la nostra società non sia affatto la prima nella storia in cui si sperimenta il sapere e insieme non sapere. Ogni mitologia, infatti, contiene l’aspetto dell’occultamento e dello svelamento. Qui abbiamo la conferma che nessuna società può sussistere senza miti. La differenza rispetto alle società del passato è che in quella moderna i miti possono essere creati tecnicamente, come aveva spiegato a suo tempo Furio Jesi, e come mostra, mi par di capire, anche il libro che hai costì. Ma, per tornare al testo di cui stiamo discutendo, tu dunque vedi emergere la crisi dell’ultimo paradigma della scuola italiana? A me pare però che nel libro i punti di vista degli insegnanti che si raccontano siano anche abbastanza differenti.

Brotto. Le differenze sono da riportare all’esplosione del paradigma. Credo che alla base di tutto ci sia la radicale crisi del paradigma IV della scuola italiana. In breve, essendo un paradigma un sistema di riferimenti globale (dentro il quale trovano senso coloro che vivono nell'ambiente sociale in cui si esprime il paradigma stesso), si sono succeduti: paradigma I (scuola post-unitaria, carducciana); paradigma II (scuola gentiliana); paradigma III (scuola post-sessantottesca critica); e paradigma IV, in cui viviamo, (scuola modernizzata e flessibile ovvero  caotico-burocratica). Questa si pensa come scuola che cambia, in perpetuo inseguimento della modernità che si forma al suo esterno e di nuovo sempre le sfugge, ma mancando di punti di riferimento generalmente condivisi si configura come una sorta di antiparadigma. Al suo interno è strutturalmente mancante un criterio di valore. Nella visione berlingueriana proprio questo doveva essere il suo punto di forza, ed invece è la sua tabe. Infine, entro questo antiparadigma la classe docente non è tale, cioè classe, ma insieme di individui senza speranza di miglior vita, e privi ovviamente della forza di generare un nuovo paradigma. Anche perché l’insegnante svolge un lavoro intellettuale, ma non è considerato un intellettuale.

Astolfi. Il livello di consapevolezza e la capacità di analisi e di narrazione che emergono da questo libro a molte voci dovrebbero, al contrario, convincere che la scuola è piena di intellettuali. Ma, a proposito dell’esplosione del paradigma di cui tu parli, Flavio Pusset nel suo intervento Mantenere la coerenza, a pagina 138, scrive che “…le richieste che questa società fa alla scuola sono lo specchio delle sue contraddizioni. Ogni gruppo sociale, ideologico, e al limite ogni singolo utente ha una sua idea di scuola che desidera si affermi”. Temo che sia cosa vana il pensare che possa affermarsi un nuovo paradigma condiviso, e più valido del precedente, in una situazione di reale frammentazione sociale, in cui il collante che tiene insieme il tutto è il continuo chiacchiericcio dei mass-media. Infine, caro Brotto, che cosa dovrebbe uscire dalla scuola? Che tipo umano? Un cittadino? Che tipo di cittadino? Un consumatore? Un cittadino-consumatore? Un teledipendente? Un imprenditore di se stesso? Un antagonista antisistema? O che altro?

Brotto. Dalla mia scuola vorrei che uscisse un lettore. Concordo con quel che scrive a pagina 133 Carlo Pigato, nel suo Il supermercato della conoscenza: “Le uniche cose che gioverebbero sono l’esatto contrario di quello che si va facendo: la prevalenza della disciplina su ogni altra attività, la continuità didattica, la riduzione delle iniziative didattiche, poche e chiare, il potenziamento dello studio individuale e la conseguente riduzione dell’orario scolastico, la stabilità dei gruppi e delle relazioni e, sopra ogni cosa, insegnare a leggere.

In un Paese in cui tutti parlano, illudendosi o facendo finta che molti ascoltino, bisogna ribadire che la cultura passa essenzialmente attraverso la lettura, che è lo strumento più potente che l’essere umano abbia a disposizione per apprendere”.

Astolfi. Credo sia una impresa difficile quella di far nascere lettori. Richiede molta arte, di cui non tutti gli insegnanti sono dotati. La scolarizzazione di massa in Italia non ha aumentato molto il numero dei lettori di libri. Questo è un dato sul quale occorre riflettere.

Brotto. Io non sono ottimista. Però, come ripeto ai miei studenti, poiché la vita non può essere felice, che almeno sia eroica. Se è vero che non si può chiedere agli insegnanti di essere dei don Milani, si può domandar loro di credere con forza. In quello che indica ancora Andrea Del Ponte a pagina 101 “… credo con forza che la scuola non possa e non debba coincidere in tutto con la società e con il cosiddetto mondo esterno. La ragione è semplice: per me, il primo obiettivo della scuola dev’essere quello di e-ducare, cioè, etimologicamente, «trarre fuori» da ogni studente, che si presuppone ancora grezzo e informe, la sua umanità più autentica, così da renderlo un buon cittadino, una persona realizzata in tutti gli ambiti (lavorativo, affettivo, relazionale) in cui vorrà impegnarsi. E questi mattoni con i quali ciascuno costruisce la sua personalità non possono trovarsi nella cronaca, nelle mode, nel transeunte; stanno proprio nello studio, nell’impegno, nel sacrificio, nel godimento intellettuale o pratico per quel che si riesce a far bene dopo aver imparato l’«arte» e aver sconfitto i propri limiti e le difficoltà della materia”.

Astolfi. Io non insegno in Italia da dieci anni. Penso però che, se la scuola nel suo complesso sta affondando, il singolo insegnante possa ancora godere di un fattore umano fondamentale, il rispetto degli allievi. Se sarà baciato dagli Dei e avrà questo dono, potrà sentirsi nei panni di quell’insegnante di cui parla Ernst Jünger : “Fontane … per indicare il rispetto di cui godeva un insegnante, scrive in Frau Jenny Treibel: «Quando egli entrava in classe si udiva la sabbia cadere nella clessidra». Occorre invero una grande finezza di udito per percepirne il rumore”[5].

Brotto. Mi hai fatto venire un’idea, caro Astolfi. Mi comprerò una clessidra per regolare i tempi del colloquio durante i prossimi esami di maturità…

 

21 gennaio 2006 A.D.

 

 

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[1] http://www.bibliosofia.net/files/CRONICA_33.htm

[2]  La mia scuola. Chi insegna si racconta, A cura di Domenico Chiesa e Cristina Trucco Zagrebelsky, Einaudi, Torino 2005.

[3] (Duong Thu Huong, Oltre ogni illusione, p. 158 – romanzo su cui si può leggere una nota in http://www.bibliosofia.net/files/DUE_LIBRI_65.htm ).

 

[4] Nicola Lagioia, Babbo Natale. dove si racconta come la Coca-Cola ha plasmato il nostro immaginario,  Fazi Editore, Roma 2005.

[5] Ernst Jünger, Il libro dell’orologio a polvere, Adelphi, Milano 1994, p. 155.