CRONICA  XXXIII

Fabio Brotto

brottof@libero.it

bibliosofia.net 

 

 

UN LIBRO. Questa Cronica è diversa dalle altre. La occupa interamente una discussione del romanzo Il sopravvissuto di Antonio Scurati (Bompiani, Milano 2005). Si tratta indubbiamente di un ottimo romanzo, ben costruito, ben scritto e intelligente, un romanzo problematico, e che invita alla riflessione e al dibattito. E io ne ho discusso col mio amico Alberto Astolfi, che ha insegnato a lungo greco e latino nei licei italiani ed ora—beato lui (?)—svolge la sua attività nel dipartimento di lettere occidentali antiche del John Truthful College di Grousehunting, nel Maine. Ecco qui la nostra discussione, come si è svolta il 13 maggio, registrata per filo e per segno.

 

Astolfi. Parliamo dunque del romanzo di Scurati, mio caro Brotto.

Brotto. Ti dico subito che a me il libro è piaciuto molto. A te è piaciuto?

Astolfi. Sì. L'ho trovato forte, stimolante, una cosa da discutere, il che non capita spesso coi romanzi italiani che leggo.

Brotto. Parliamone, Astolfi. Io ho diverse cose da dire su questo libro. Anche tu, immagino.

Astolfi. Sai che io ho comunque sempre delle cose da dire. A volte mi trovo fin troppo loquace. I nostri, del resto, son tempi di chiacchiere, e io mi ci adeguo in qualche modo.

Brotto. Noi siamo entrambi insegnanti, io al liceo e tu all'università. Forse è per questo, anche, che il romanzo di Scurati ci ha preso. La scuola nella vicenda è determinante, ed è la scuola italiana di oggi, quella della cittadina di Casalegno, una squola con la q, allo sfascio. Mi pare che la situazione del liceo del prof (senza puntino, che è altra cosa dal prof. col puntino) Andrea Marescalchi, questo professore di storia e filosofia che è il personaggio principale, sia una situazione del tutto nera, senza rimedio, come io penso della scuola italiana in genere. Tra l’altro ho provato una forte empatia nei suoi confronti quando ho letto del suo modo di vivere i colloqui con i genitori, a pagina 298. “La mattinata era cominciata con il ricevimento dei genitori degli studenti. La mia ora settimanale riservata ai colloqui con i parenti l’ho piazzata alle otto, con l’intento di scoraggiare il più possibile le visite. Ho sempre ritenuto, infatti, che l’inter­ferenza di padri e madri, soprattutto delle madri, nel rapporto tra docente e discente, fosse una calamità. La santa alleanza tra scuola e famiglia, sin dai suoi albori al principio degli anni Ot­tanta, mi è sempre parsa avere una vocazione reazionaria. La recente trasformazione della scuola in azienda erogatrice di ser­vizi formativi, delle famiglie in clienti, ottusi ed esigenti, e dei ragazzi in prodotto, prodotto scadente e senza mercato, ha con­fermato in pieno i miei sospetti di vent’anni fa. Per questo mo­tivo, durante il ricevimento dei genitori mi rintano in un an­golo in fondo al corridoio del secondo piano, dove fa freddo d’inverno e caldissimo d’estate, e spero che non venga nessu­no. Forse a causa delle elementari leggi di mercato —più è rara la merce, più acquisisce valore c’è sempre la fila”.

Astolfi. Sì, è una scuola allo sfascio, quella di Andrea: il dirigente scolastico (vulgo preside) soffre di una grave depressione; i docenti appaiono figure deboli o individui spregevoli, o gente che tira a campare; i ragazzi sono ovviamente studenti che non studiano, ostili agli insegnanti e al mondo adulto in genere. Neppure sembrano in lutto per il massacro dei loro docenti, la strage nella palestra da cui inizia la vicenda.

Brotto. Al mondo adulto, hai detto. E qual è questo mondo adulto? Qui c'è un bel problema. A me pare che anche il prof Marescalchi non sia poi cresciuto del tutto… 

Astolfi. Già, questo è un punto problematico. Una questione epocale, anzi. Un sistema scolastico è anzitutto una trasmissione continua di valori. I valori adulti e le conoscenze che li sorreggono e li rendono possibili debbono esser fatti passare dalle vecchie alle nuove generazioni. La scuola ne è il tramite. Ma oggi la generazione adulta sembra non avere alcun valore da passare ai giovani. Anzitutto, gli adulti non credono che la conoscenza sia un valore. Come possono passarlo ai giovani? Poi, gli adulti credono che non esista nulla per cui valga la pena di morire. Quindi i giovani muoiono per cose che non valgono. Si uccidono (e talora uccidono) per nulla.

Brotto. E, in effetti, di tutto sembrano essere avidi gli studenti di Casalegno (di droga e sesso anzitutto) tranne che di sapere. Ma anche Andrea Marescalchi sembra scindere fin dall'inizio senso e verità. Credo che sia l'autore a pensare che i due possano non stare insieme. Come se uno potesse affermare sensato qualcosa che sa non essere vero. Marescalchi rimane traumatizzato dalla strage che è all'inizio di tutta la vicenda, compiuta proprio dall'allievo che gli è più caro, e ne cerca il senso. Risulta chiaro che il senso della strage non c'è. O meglio, se un senso c'è, non è svelato dal testo.

Astolfi. Forse da un lato la storia, con Vitaliano Caccia che compare davanti alla commissione di maturità armato di pistola e uccide tutti gli insegnanti tranne Andrea, rimanda alle famose stragi nel cortile della scuola, di cui ha scritto Dawn Perlmutter nel suo Iconoclastia postmoderna, che tu hai anche tradotto nella tua pagina web http://www.bibliosofia.net/files/ICONOCLASTIA__POSTMODERNA.htm , dall’altra allo scatenamento della violenza dell’11 settembre. Nell’ultima pagina del romanzo, Andrea tornerà a scuola il 10 settembre 2001. Sicuramente la data non è casuale.

Brotto. Parliamo dunque di questo prof Andrea Marescalchi, mio caro Astolfi. Come professore di liceo come lo giudichi, come interpreta il ruolo? A me pare che abbia capito alcune cose fondamentali, come si arguisce leggendo a pagina 18, quando Scurati descrive la sua entrata in scuola. Il prof ode la sirena di una fabbrica, che “Gli ricordava che anche lui, in fondo, andava a lavorare, come gli operai alla fabbrica di solventi. L’idea che anche il suo lavoro fosse fatica brutale, ricollegandolo alle ancestrali ed elementari necessità della vita biologica, glielo rendeva molto più tollerabile di quanto non facessero le chimere di una velleitaria e querula condizione di professionismo, alla quale i più vanesi dei suoi colleghi dicevano di ambire.” Questa puntata contro i docenti che si crogiolano nella loro autoconsolatoria idea di essere dei professionisti dell’istruzione mi piace molto.

Astolfi. Mah, sì, però per i miei gusti Andrea è uno che vive la scuola in modo sbagliato, soprattutto per quanto riguarda il rapporto con gli studenti. Troppo uterino, verrebbe da dire, non sufficientemente mediato. Li ama, e vorrebbe in qualche modo salvarli. Ma non sa esattamente da che cosa e come, e soprattutto per che cosa. Infine, lui stesso è attratto dalla morte, e sfiora il suicidio! È convinto che le sue lezioni in classe non significhino per gli allievi sostanzialmente nulla, che essi non siano bisognosi di sapere ma di senso (appunto, ma quando il senso non è ancorato ad un sapere diventa aleatorio, vagabondo ed arbitrario). È affascinato dal giovane Vitaliano (vitale nella sua bellezza, forza fisica ed erotismo irresistibile) perché Vitaliano rappresenta la giovinezza. Anche, e in particolare, la sua stessa giovinezza perduta. Infatti, Andrea è stato un bel ragazzo, che però nel campo dell’eros non ha agito come ora fa Vitaliano. E durante la gita a Parigi…

Brotto. Il professore sta lì per andare a letto con la ragazza di Vitaliano, da cui è attratto…

Astolfi. Ahi, sì. È così. A me non è mai passato per la testa di provarci con un’allieva, neanche quando ero un giovane professore di liceo, e a 27 anni avevo allieve di 19. E adesso che insegno in America, dove le studentesse del campus sono disponibilissime, ancora meno.

Brotto. Perché noi due, caro Astolfi, abbiamo un fondamento morale che a Marescalchi manca. Se l’avesse non potrebbe essere un personaggio postmoderno. Per noi esistono il Bene e il Male, nonostante tutto il nostro cinismo. Per Marescalchi no. Infatti, anche il suo stesso suicidio non è pensato da lui nei termini di una alternativa etica, assolutamente. Ma torniamo alla gita a Parigi. Marescalchi è terribilmente attratto da quella ragazza, Bianca Loredan. Alla fine Vitaliano, che non era partito con la comitiva, la raggiunge di notte in albergo, dopo un pazzesco viaggio in moto, e pretende con la forza di entrare nella camera di Bianca, e lei lo accoglie, e Marescalchi lascia fare…

Astolfi. Sì, Andrea gli perdona tutto. Andrea appare estremamente debole nei confronti di Vitaliano. Non è per niente una figura paterna, quale dovrebbe essere l’insegnante-maestro, ma una figura fraterna, e perciò infine mimetica e rivalitaria. Eppure qui c’è, nel romanzo, qualcosa che non funziona…

Brotto. Credo di aver capito a che cosa ti riferisci. Vediamo se è la stessa cosa che ho pensato io.

Astolfi. È la faccenda dei giapponesi.

Brotto. Sì, pensavo proprio a loro.

Astolfi. Quel gruppo di insegnanti in minoranza nella scuola di Andrea. Siccome continuano a combattere una guerra già perduta, come quei combattenti nipponici rimasti isolati nella giungla di isole del Pacifico, sono chiamati i giapponesi. Andrea è uno di loro. Ma, francamente, non capisco… Perché la scuola che il Sistema vuole è proprio quella in cui gli insegnanti sono come Andrea: amici degli allievi, loro fratelli maggiori e assistenti socio-sanitari, che promuovono tutti a tutti i costi. Esattamente come Andrea, che non vuol bocciare assolutamente nessuno, mai. Come può Andrea essere un resistente? A che cosa? Questo nel romanzo di Scurati non si capisce del tutto.

Brotto. Pure, questo è il libro di uno scrittore che la scuola italiana di oggi la conosce, e bene. Infatti Scurati ha insegnato al liceo fino a due anni fa, credo. E l’ho sentito dire alla radio che in realtà il liceo lui non l’ha lasciato, perché ora l’università, a cui è passato, è ridotta ad un liceo.

Astolfi. Tuttavia, c’è un aspetto per cui Andrea è apprezzabile. La sua resistenza alle interpretazioni banali e rassicuranti della realtà, quelle di volta in volta fornite dai detentori ufficiali dei saperi costituiti, che appaiono orticelli chiusi, modi di vedere che non riescono ad afferrare la realtà, che servono, piuttosto, ad esorcizzarla.

Brotto. Non che Marescalchi afferri poi un gran che. E tuttavia quantomeno è irriducibile alla banalità. Tutti i giapponesi dovrebbero essere così. Devo dire che la descrizione che Scurati fa dei giapponesi è uno dei momenti del romanzo che mi hanno toccato di più. Leggendolo mi son detto che non posso non dirmi giapponese. Ecco qua, a pag. 186: “Ma non è stata la superbia del vincitore a darci questo no­mignolo. È l’astio degli sconfitti nei confronti di chi, battu­to anche lui, non si arrende all’evidenza della disfatta, ad averlo scelto per noi. La guerra per la pubblica istruzione è finita, la lotta per l’educazione delle nuove generazioni è sta­ta perduta da un pezzo, eppure noi, stupidamente, non ci ar­rendiamo. Ma quello che più fa rabbia a tutti gli altri nostri colleghi non è la superbia dell’invitto, bensì la tenacia del combattente. Il problema con noi giapponesi è che il nostro rifiuto di ammettere la sconfitta implica che duri ancora la lotta. Io sono considerato il capo dei giapponesi. Per la mia antica vocazione all’oltranza, o per la mia inettitudine a go­dere del vizio, unica arte degli sconfitti.

Durante i collegi docenti, mentre si discute fino all’esa­sperazione, come in questo momento, se le ore debbano es­sere di cinquanta o di cinquantacinque minuti, mentre si propongono mozioni per denunciare il mancato rimborso di diarie di viaggio inferiori al prezzo di un pacchetto di siga­rette, noi giapponesi ce ne stiamo in silenzio sul fondo del­l’aula. Non protestiamo, non c’insubordiniamo. Alcuni ma­nifestano il loro disprezzo leggendo un libro, il che è effetti­vamente un oltraggio nei confronti di un gruppo di analfa­beti di ritorno (quale è la maggioranza dei nostri colleghi), ma non partecipiamo.  È una resistenza passiva la nostra, una testimonianza silente di indignazione morale. Ci ritiriamo sul Golgota della nostra coscienza. Mi sento piuttosto vicino a questa prospettiva. Basta partecipare ad una qualsiasi riunione del collegio dei docenti di una qualsiasi scuola italiana per accorgersi di quanto pochi siano i giapponesi, e di quanto la stragrande maggioranza dei docenti sia immune dal pensiero. Mi pare però che in questo nostro collega letterario vi sia ancora qualcos’altro che mi inquieta…

Astolfi. Torniamo sull’eros?

Brotto. Credo che in sostanza il prof Marescalchi sia dominato dall’invidia di Vitaliano. L’hai rilevato anche tu prima che tra i due vi sono mimetismo e rivalità. Tuttavia, penso che nel libro questo elemento non sia individuato con grande chiarezza. Vi sono delle oscillazioni. Certa è però una cosa: se il ragazzo compie il gesto enorme e spietato, anche il professore non appare veramente afferrato da sentimenti di pietà umana. Anzi, oserei dire di più, non si avverte nemmeno nello scrittore. Il macello nella palestra della scuola è reso come macello, in modo estremamente crudo, anche con dettagli che si sarebbero potuti risparmiare ai lettori. Come, del resto, i dettagli degli atti erotici poco ortodossi che il prof compie (o subisce?) con la collega (ma questo dei dettagli erotici è un elemento irrinunciabile della narrativa contemporanea, pare). Perché quello di cui è pietoso Marescalchi è sé stesso, in fondo, ma il sé giovane, non il Marescalchi di ora: e il sé giovane è proiettato in Vitaliano. Vitaliano, con la sua sessualità indomabile e il suo vitalismo sfrenato e anomico, è il giovane che Marescalchi amerebbe essere. Gli capita invece di dover rivestire il ruolo del suo maestro. Questa situazione è distruttiva: Vitaliano uccide tutti i membri della commissione, per i quali non prova nulla, e contro Marescalchi punta solo il dito, e scompare. È un’accusa? È un’elezione? Non si sa. Certo è una sostituzione, che deve essere interpretata in termini sacrificali.

Astolfi. Pare che tu prima o poi finisca sempre per tirare fuori il sacrificio…

Brotto. Certamente. L’uccisione di sette persone qui è un sacrificio. Un sacrificio di massa operato da un solo sacerdote, Vitaliano, per la sua divinità. Una strana divinità, che a sua volta lo adora. Un sacrificio umano, troppo umano…

Astolfi. Tu pensi che quando uno elimina dei fastidiosi insetti compia un sacrificio come se uccidesse ritualmente degli agnelli o dei buoi?

Brotto. Vuoi dire che tu non individui qui una dimensione sacrificale?

Astolfi. Non so, la cosa non mi sembra chiara. Forse quando la violenza esplode il limite tra il rito e la mera eliminazione, il puro annientamento, cade e…

Brotto. Si precipita nella violenza indifferenziata. Sì, è un circolo. Del resto, il sacro resta attaccato ad Andrea Marescalchi, il sopravvissuto contaminato dalla violenza, che durante la cerimonia funebre, ad esempio, viene trattato dalla folla come un toccato dal divino, addirittura come un taumaturgo, confermando ancora una volta il legame originario tra la violenza ed il sacro.

Astolfi. Caro Brotto, qui il discorso si farebbe troppo complesso. Rimandiamolo. Penso che tu abbia da fare per la scuola in questi giorni…

Brotto. Sì, caro Astolfi, devo completare il documento del 15 maggio. Sai, quella relazione che il consiglio di classe di ogni classe che sosterrà l’esame di maturità deve preparare per la commissione d’esame, che, a dire il vero, è costituita dai membri del consiglio di classe, i quali dunque la preparano per sé stessi, in modo da poterla leggere e poter quindi sapere che cosa essi stessi hanno fatto negli anni scorsi e quest’anno, come hanno inteso i programmi, che metodologie hanno usato, ecc. ecc. Perché la scuola italiana, infine, è governata da saggezza e razionalità, e bisogna riconoscere che, a parte qualche sfumatura negativa, qualche piccola imperfezione che noi pessimisti tendiamo per nostro vizio ad ingigantire, tutto procede benissimo, si dà vero progresso metodologico e metacognitivo, e allievi e famiglie guardano sorridendo un radioso futuro di sviluppo e crescente felicità. A presto, Astolfi.

Astolfi. Che la Forza sia con te, caro Brotto, certo ne hai bisogno.

 

27 maggio 2005 A.D.

 

SCUOLA E NON SCUOLA