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RESENTO Antonio D’Alfonso*. Anzitutto la sua Introduzione al volume In Italics / Cursivi italici, dove egli parla della propria identità. Ho estratto e posto all’inizio la parte finale dell’Introduzione col titolo Autoritratto, che originariamente era stata scritta separatamente come Self-Portrait (in La Bella figura, 1988-1992: A Choice, a cura di Rose Romano. San Francisco, Malafemmina Press, 1993). Presento a parte anche l’articolo In difesa dell’etnicità, in cui il multiculturalismo o interculturalismo e l’assimilazione o melting pot e il meticciato sono al centro del suo pensiero: il tema, cioè, della convivenza sociale di diverse etnie, tanto dibattuto in Canada e in Europa oggigiorno. La stessa vita personale e culturale di D’Alfonso è – usando delle espressioni di Pasquale Verdicchio - una “traiettoria nomadica” alla ricerca di uno “scordato principio di identità” sempre in progresso. Successivamente presenterò vari articoli su Antonio D’Alfonso che, tra tanti riconoscimenti, ha ricevuto quest’anno anche il premio letterario Trillium Award per la sua ultima opera Un vendredi du mois d’août. (e.m.)

Introduzione a Cursivi italici

Di Antonio D’Alfonso
(Traduzione di Silvana Mangione)

AntonioDAlfonso@cs.com

 

 

AUTORITRATTO

 

Nato a Montreal nel 1953, sono cresciuto da ragazzino molisano. Mia madre e mio padre sono nati a Guglionesi ma hanno dovuto lasciare l’Italia per sposarsi a Montreal nel 1952, il che significa che mia madre ha dovuto vivere con mio padre prima del matrimonio. Lo dico per dimostrare che tipo di donna meravigliosa è mia madre: decisa e convinta delle sue azioni. Mio padre era un saldatore. Amo questa immagine, perché è proprio questo che mi ha spinto a voler unire laddove regna la divisione.

Essere italiano fuori d’Italia o italico, come preferisco dire, è espressione del mio desiderio di unità contro la ghettizzazione e la divisione. Sono diventato italiano. Prima d’allora non avevo coscienza di me stesso, di chi ero. Fino a quando ho vissuto e studiato nelle Piccole Italie di Montreal, non ho mai messo in dubbio la mia identità. Nel 1970, quando ho sbattuto per la prima volta contro un vero anglosassone, mi sono reso conto di non essere per niente inglese.

Mentre crescevo in un quartiere francese, mi chiamavano wop, col dispregiativo usato per gli italiani. La mia identità mi ha fatto soffrire più di tutto all’università. Il confezionamento della mia sessualità in stereotipi è ciò che mi ha fatto capire che ero «diverso». Che cosa fosse questa diversità l’avrei capito molto più tardi.

Sebbene abbia sempre studiato lingua e cultura italiane, non mi ero mai considerato italiano sul serio. Pensavo di essere canadese. Ma avrei imparato ben presto che, anche volendo, non avrei potuto essere canadese. Ad ogni persona viene data soltanto una possibilità di essere canadese o di avere qualsiasi altra nazionalità. E quella possibilità si presenta nella forma dell’assimilazione. Se per caso ti rifiuti di parlare a favore dell’assimilazione quella possibilità ti viene immediatamente tolta. La ragione di questo ostracismo è facile da capire: la nazionalità e la libertà di adottare qualsiasi nazionalità sta nelle mani di pochissimi gruppi di elite. L’accettare una nazionalità implica l’automatica accettazione della tradizione vista come fenomeno stagnante. Ma le tradizioni culturali non sono mai ad un punto morto. Improvvisamente qualunque cosa tu dica suona strana all’ascoltatore che sta affondando nelle sabbie mobili della cultura statica. Quando ho cominciato a sentire che quello che dicevo come scrittore o editore veniva sistematicamente rigettato (o passato sotto silenzio) dai critici, ho capito che era arrivato il momento di prendere coscienza di chi ero. Una minoranza. Un etnico.

Nel 1973 sono andato in Italia e mi sono scoperto debole e stupido. Molto semplicemente non ero pronto a portare il peso di una nuova identità. Ci sono voluti altri cinque anni prima che potessi affrontare l’immagine che mi rilanciava lo specchio. Allora è nata Guernica.

Vivere come minoranza a Montreal, Città del Messico, Ponteix (Saskatchewan) e Roma mi ha profondamente sconvolto. Dal 1978 in poi ho promesso a me stesso che le Edizioni Guernica avrebbe offerto uno spazio a scrittori e scrittrici che desiderano essere se stessi senza doversi svendere all’assimilazione.

Ora c’è davvero bisogno che noi tutti gruppi etnici entriamo in possesso di nostri mezzi di produzione culturale, in modo da poter fare quello che vogliamo e parlare di noi stessi in tutti gli svariati modi possibili.

 

La Jolla, Marzo 1994

 

INTRODUZIONE

 

Questi saggi e interviste, originariamente scritti in italiano, inglese e francese nell’arco di quasi vent’anni, sono stati raccolti in modo che le idee sviluppate in un saggio potessero liberamente rimbalzare contro quelle di un altro e finire per agglomerarsi nell’unità flessibilmente connessa di questo volume. Per quanto non sia da intendersi come l’opera di uno studioso, tuttavia offre testi teorici che per qualche ragione sono maturati più da un’esperienza poetica che da un corso di laurea e sono quindi intimamente connessi ad un ambito principalmente emotivo. Un’immagine ha portato ad un’altra e, gradualmente, invece di trovarmi davanti agli occhi una poesia o un racconto, sono stato guidato nel regno dello scrivere non narrativo. Non narrativo? Non ne sono così sicuro. Se i saggi interessano la mente, è proprio perché sono opera dell’immaginazione. E l’immaginazione, in narrativa o al di fuori di essa, è l’Utopia di ogni scrittore.

            Dato che ho rifiutato di limitare la mia analisi della cultura al campo della poesia, mi sono trovato ad entrare involontariamente nelle librerie a cercare le opere critiche di alcuni dei miei poeti, artisti e registi preferiti. È perché mi piacciono le opere creative di T. S. Eliot, Ezra Pound, Roberto Rossellini, Federico Fellini, Pier Paolo Pasolini, François Truffaut, Jean-Luc Godard e Paul Schrader che sono stato attratto dai loro saggi. L’ansia di sapere di più del loro modo di pensare mi ha costretto a scoprire che cosa infiammava la loro particolare esigenza di capire.

            Questi saggi non hanno lo stesso respiro filosofico che si può trovare in questi straordinari artisti. I miei sono testi semplici, occasionali, scritti perché mi era stato chiesto di collaborare ad un numero speciale di una rivista o perché ero stato invitato a presentare una relazione ad un convegno. Mi sono meravigliato io stesso nel notare quanto testardamente interconnessi fossero alcuni filoni di pensiero.

            Fin dall’inizio il mio stimolo principale è stato costituito dal  preconcetto che l’artista deve essere essenziale, vale a dire vicino al proprio io quando affronta la narrativa. In realtà, ciò che mi affascinava di più era l’identità dell’artista piuttosto che la sua maschera. L’immagine proiettata dall’artista in qualche misura mi annoiava, mi rendeva sospettoso delle sue intenzioni creative. In ogni caso il bisogno di sentire l’identità di una persona mi ha portato fino a questo punto.

            Che cos’è l’identità? L’etimologia della parola, secondo l’American College Dictionary è il vocabolo latino identitas, che deriva da identi– (come in identidem, che significa «ripetutamente»), idem (che significa «lo stesso») e –tas (il suffisso –ty in inglese, – in italiano). Così arriviamo alla definizione attuale: lo «stato o fatto di rimanere la stessa persona, in presenza di vari aspetti o condizioni; la condizione di essere se stessi e non altri; la condizione o il carattere dell’essenza di una persona o di una cosa; lo stato o il fatto di essere lo stesso...».

            Ognuno di questi significati mi soddisfa e tuttavia non posso non chiedermi che cosa succederebbe se invece di dividere «identità» in identi-tà io la dividessi in id-entità. Improvvisamente il significato sembra vacillare. Ciò che era incontestabile di colpo appare fragile e inconsistente. Quale sarebbe dunque la sua definizione? Prima di tutto c’è l’id, quella «parte della psiche che risiede nell’inconscio, che è la fonte dell’energia istintiva». Poi c’è l’entità, quel «qualcosa che ha un’esistenza reale; cosa; essere o esistenza; natura essenziale». Possiamo dunque dedurne che identità è di fatto la natura essenziale nell’inconscio? 

Ma non sarebbe questo precisamente il significato opposto di identità che, tradizionalmente, ha finito per denotare «la condizione di essere se stessi»? Essere me stesso: è questa la natura essenziale del mio inconscio? E ciò implica dunque che la mia identità è determinata dal mio inconscio? Questo almeno era ed è ancora vero per molte persone che affermano di essere chi sono semplicemente perché credono di essere quello che sentono di essere.

Sfortunatamente, l’unica cosa buona che potrebbe emergere  dall’esistenza infernale alla quale ci ha condannato il ventesimo secolo, è l’insegnamento che i sentimenti di una persona non sono affatto sufficienti a costruirne il carattere. Sentimenti non imbrigliati possono condurre agli estremi del massacro. Un sentimento, un certo senso di se stessi è valido se, e soltanto se, viene guidato dalla mente attiva, vale a dire dalla forza della ragione. In altre parole, l’identità di una persona dovrebbe essere l’espressione conscia del suo inconscio (dato che l’inconscio è qualcosa che per sua essenza rimane inconscio).

Sarebbe tuttavia sbagliato illuderci credendo che l’inconscio sia materia intoccabile. Al contrario ci sarà sempre una parte controllabile dell’inconscio che può essere trasformata in materia conscia. Non ho le qualifiche necessarie ad elaborare le tecniche psicoanalitiche che possano consentire questo trasferimento da una sfera all’altra. Sono tuttavia interessato a studiare certi aspetti di questo trasferimento di elementi, perché questo è il modo in cui si forma l’identità di una persona.

Sebbene nelle prossime pagine io parli soltanto di istanze culturali, sarebbe sbagliato da parte mia nascondere o anche soltanto minimizzare l’importanza dell’analisi psicologica nel trattare i temi della cultura. La cultura è, per sua stessa natura, una cosa artificiale. Sebbene la cultura possa essere nata in modo accidentale, si tratta di un prodotto dell’uomo che ha bisogno di essere memorizzato per continuare ad esistere. L’esistenza della cultura dipende dalla capacità di richiamare alla mente e riconoscere l’impressione delle cose naturali e di quelle create.

Le immagini della guerra e della povertà, il flusso inarrestabile del denaro e il desiderio sempre vivo nelle persone di emigrare non soltanto hanno indebolito la nostra capacità di rivivere le impressioni, ma ci hanno anche lasciato in mente tracce indelebili di ciò che deve e ciò che non deve continuare ad esistere. Una delle questioni contro le quali reagisco visceralmente è l’ascesa del fervore nazionalistico. Può darsi che sia dovuto al fatto che i miei genitori, che sono partiti da un’Italia piagata dalla guerra, mi hanno insegnato a diffidare di qualunque sentimento nazionalista. Forse perché sono nato all’interno di una minoranza (italiana) dominata da un’altra minoranza (francese) che si sentiva colonizzata da una prepotente maggioranza (britannica). Che la ragione sia reale o immaginaria, sono diventato allergico a qualunque cieca fedeltà ad un’identità che si fonda su sentimenti nazionalisti.

Fin dalla Guerra del Golfo mi sento sotto pressione. Non ne conosco la causa, ma per qualche motivo mi sono convinto che bisogna affrontare in modo diverso le istanze relative alla lingua, la letteratura, la cultura, la cittadinanza e la nazionalità. Non mi vanto di aver trovato la soluzione alle domande che mi sono posto o che mi sono state chieste. Tuttavia sento che è arrivato il momento di fare un passo avanti nella nostra analisi dell’identità e della cultura, anche se rischiamo di inciampare in alcuni concetti complessi e contraddirci nel cammino verso quella che chiamo identità conscia.

Le idee crescono e cambiano nel tempo. Le immagini che una volta erano appropriate, diventano inopportune o addirittura sbagliate. Ci sono idee che si allacciano naturalmente ad altre idee e convergono nella formazione di concetti più forti. Infine ci sono immagini che, invece di collegarsi ad altre in un flusso scorrevole, si congelano in inquadrature fisse profondamente allarmanti. Sono cosciente che molte teorie articolate in questo volume daranno fastidio ad un certo numero di lettori. Questi saggi non costituiscono un attacco a singoli individui o convinzioni. Nelle prossime pagine troverete i percorsi, finora non intrapresi da nessuno, che ho seguito per arrivare al punto in cui mi trovo oggi. Da giovane ero chiassoso ed eternamente in discussione con gli amici su qualunque argomento venisse affrontato. Anche quando la mia posizione era incerta o perfino sbagliata continuavo a  sostenere il mio punto di vista, non perché non volevo perdere la faccia, ma perché sentivo che era mio dovere spingere la conversazione fino al punto cruciale in cui ci potessimo trovare tutti a riconsiderare ogni singolo fatto anche se era, come dicono i francesi, coulé dans du roc.   

Una delle cose che ho imparato da tutti questi bisticci insignificanti è che quel che conta non sono i fatti e le cifre di per sé, ma la maniera di interpretare fatti e cifre in modo che l’orrore nascosto sotto queste «verità» possa essere rivelato più violentemente. Una cosa è sedersi intorno ad un tavolo e parlare delle guerre mondiali e del numero dei caduti, ben altra cosa è cominciare a tirar fuori le fotografie dei mutilati. Queste pagine espongono immagini di vittime di altro genere. Per la prima volta nella storia dell’umanità un numero crescente di persone ha rifiutato l’assimilazione di massa. Il nazionalismo ha soltanto un modo di trattare gli stranieri e le minoranze: distruggerli. Io volevo unirmi agli uomini e alle donne che protestano gridando contro la prassi delle soluzioni definitive.

Anche se a volte appaio nichilista quando parlo duramente di come le istituzioni culturali non siano tanto democratiche quanto pretendono di essere, quando vengono confrontate da istanze che riguardano i diritti individuali e collettivi, non ho alcuna intenzione di chiedere formalmente la chiusura di queste istituzioni. Quello che bisogna fare per rimediare alla mancanza di comprensione sensibile e intelligente da parte dell’«altro» non deve portare a tattiche accusatorie o alla caccia alle streghe. L’etica in questione non ha nulla a che fare con la ricerca di supremazie etniche o religiose. Il potere deriva da complicati intrighi storici e, paradossalmente, da battaglie spesso giustificate. Ciò che critico non sono gli strumenti del potere, ma la maniera in cui il potere ha minato i campi in cui in circostanze normali dovrebbero verificarsi scambi, cooperazione e compromessi. Credo che molte istituzioni sociali e culturali abbiano la tendenza a cristallizzarsi nei divoranti robot privi di pietà ritratti negli anni ’20 nel film Metropolis di Fritz Lang e Thea von Harbou.

Queste pagine sono state scritte avendo in mente uomini e donne che non vogliono cancellare o abbandonarsi dietro le spalle ciò che erano e che considerano parte di sé, soltanto per abbracciare il miraggio di un compiacente crogiolo delle razze e delle etnie. Questa disgustosa metafora gastronomica ha sempre evocato in me immagini di cannibalismo. Quando si tratta delle politiche relative ai diritti delle minoranze, bisogna imparare ad essere vegetariani. È triste notare quanti intellettuali moderni (e anche post-moderni) continuino a ridurre la società a questo atto di barbarie. Sono giunti a concepire metodi senza cuore e senza precedenti per scegliere ciò che meglio si addice alla pentola dove bolle la zuppa nazionale. È arrivato il momento di chiedere loro: «Che cosa è successo ai cadaveri scartati?». Agli uomini e donne smembrati che hanno detto no quando tutti quelli che li circondavano urlavano un diabolico sì. Ci sarà sempre un manipolo di individui esasperati che continueranno a mormorare: «Riciclate i corpi e trasformateli nei cucchiai e nelle forchette che rimestano i contenuti della nostra grande nazione!».

La nazione è morta. E se non è morta, preghiamo per una sua rapida sparizione, perché se la nazione persiste non avrà nient’altro da offrire che varie forme di camere a gas e campi di concentramento culturale. L’impresa più difficile che la società contemporanea dovrà affrontare è il superamento delle sue macchine «uniformanti» che si creano da sole. Con questo, non voglio invocare l’eliminazione del diritto di proprietà, della legge o della religione, né considero implicito lo schiacciamento dei diritti individuali da parte dei diritti collettivi ed il soffocamento della vita collettiva da parte delle tirannie individualistiche. La mia mancanza di conoscenza delle leggi dell’economia mi impedisce di sostenere soluzioni ideologiche. Infatti è probabile che non ci siano soluzioni a lungo termine, soltanto una restituzione a breve per le ineguaglianze che si sono realizzate a causa della cattiva amministrazione.

Questo libro presenta una ricerca profondamente personale sulle direzioni che potrebbero prendere coloro che vogliono collaborare alla creazione di una società giusta basata non sulla cancellazione delle etnie o la territorializzazione, ma su identità coscienti. C’è la speranza che un maggior numero di persone qualificate voglia continuare ad elaborare metodi per collegare futuri centri, disparati e discreti, di attività economiche, culturali, educative e politiche. I più letali nemici della democrazia sono l’ignoranza e la disinformazione. Ci sono in giro molti libri «che fanno tendenza» dedicati allo studio della cultura. Mi fanno inarcare la schiena come quella di un gatto pronto ad attaccare. Sono meravigliato di trovare tanti studiosi e intellettuali, apparentemente importanti, che la fanno franca malgrado offrano un’enorme quantità di incomprensibile farfugliare razzista e di analisi piene di odio razziale che vengono accolte come pietre miliari nel campo della ricerca sociologica.

Ovviamente sarebbe del tutto sbagliato da parte mia il non riscontrare in questi lavori necessari un qualche tipo di validità. Il diritto alla libertà di espressione permette ad ognuno di noi di imparare molto dal talento impressionante di un autore famoso nel descrivere le più delicate istanze razziali o dall’affascinante capacità di un rispettato teorico di dedurre teorie limpide come il cristallo da caotici dettagli empirici. Ciò che la libertà di espressione non è ancora riuscita a fornire è l’abilità di far conoscere gli scrittori meno noti del ventesimo secolo e di quelli precedenti. L’arroganza con la quale i nostri giornali, radio, televisioni e scuole difendono il canone «di moda» non è più per me ragione di polemica, è diventata una barzelletta privata e personale per la quale rido più sonoramente del solito per evitare di  piangere. La televisione, per esempio, non riflette mai le realtà quotidiane della città da cui trasmette. La monolitica Toronto presentata in TV non è la Toronto vibrante nella quale viviamo: la nostra è più interessante. Non c’è da meravigliarsi che la gente odii Toronto.

Ogni persona studia tipi diversi di teorie per raggiungere il suo obiettivo individuale. Ogni persona può imparare da ogni libro od opera d’arte e concepire la propria visione del mondo, a prescindere da quali idee buone o cattive abbia trovato lungo il tragitto. Alla fin fine quello che conta è essere capaci di distinguere le delicate sfumature che si presentano durante l’evoluzione del ragionamento. In ultima analisi quello che conta è il paragonare le idee più che studiare a fondo una sola idea particolare.

Ecco perché desidero dissociarmi dall’attuale esigenza di diffondere nel mondo l’ignoranza attraverso la censura. E per censura non intendo soltanto l’atto di bandire «opere oscene o non grate», ma più precisamente il silenzio su opere che non si collocano nell’ambito della «moda letteraria» del momento e il «riconoscimento» di altre, perché che cos’è «la canonicità della moda letteraria» se non l’artificiale ripetizione di nomi e stili di vita? Non si tratta del fatto che alcune opere siano più appaganti di altre. Potrebbero anche esserlo. Ciò che è sbagliato e costituisce un atto di censura è la maniera in cui il sistema educativo e i mass media decidono di dare rilievo soltanto ad alcuni scritti senza mai menzionare, e men che meno offrire agli studenti la possibilità di scoprire e studiare, altre opere meno conosciute.

Fino a quando  vengono negati i diritti dell’individuo e fino a quando le collettività vengono asservite da questa sorta di forme consentite di censura non potrà mai esserci alcun tipo di democrazia nel mondo. È la sintesi intelligente di questi due livelli (l’individuale e il collettivo) di interazione sociale che porterà alla creazione di solide fondamenta per una società giusta. La libertà di scelta è più importante di qualunque legge che agisce come coprifuoco della volontà delle persone. Allevato come cattolico italiano sono rimasto sorpreso nello scoprire che ci sono molte cose buone da ricavare da quanto viene considerato cattivo e molte cose cattive in ciò che consideriamo buono. Ma per tutta la vita mi sono attenuto ad una verità molto semplice, ben definita da Camille Paglia: evitare «la nuova tirannia del gruppo, che afferma di parlare per il bene dei singoli individui, mentre in realtà li schiaccia».(1)

 

*

 

Ciò che il lettore scoprirà nelle prossime pagine è un lungo processo di presa di coscienza. Spesso scherzo sulla maniera in cui sono diventato italiano, non alla nascita, ma a trentadue anni. Che la gente prenda o no sul serio quest’affermazione non mi da più fastidio. Quando scrivo un saggio non ho in mente idee preconcette. Di solito scrivo come reazione a qualcosa che ho letto o sentito. Lo scrivere (ed il riscrivere) è il metodo mediante il quale i miei pensieri acquistano una forma definitiva.

Molte idee di cui parlo sono state fraintese quando sono state pubblicate per la prima volta. Riunendo i testi spero di riuscire a rendere più chiara la direzione in cui si muovevano le mie idee. Non parlo a nome di alcun gruppo. Parlo soltanto per me stesso. La principale contraddizione che tento di sanare è capire la reazione dell’individuo che si trova seduto in una platea che ospita altri individui che gli assomigliano.

Questo non è un libro che tratta di politica. Questi sono saggi sull’essere umano, sulla cultura e sul modo in cui la cultura di una società influisce sul singolo individuo. Questi testi avevano lo scopo di guidare il lettore ignaro in ambiti mai toccati dai giornali: al di là dell’immagine stereotipa delle minoranze e dentro l’ologramma della realtà vissuta ai sensi di un altro tipo di spirito. Diventerà ovvio al lettore attento che, quando si tratta di democrazia etnica, la mia tesi primaria è che senza «esperienza dall’interno» non potrà mai esserci libertà di parola. Non ha importanza né porta conseguenze la risposta alla domanda se un uomo bianco possa scrivere di una donna afro-americana e viceversa, se un’ebrea possa scrivere di un mussulmano e viceversa, se un indù possa scrivere di un indiano nordamericano e viceversa. La questione vera è il fornire a tutte le minoranze metodi per produrre en masse e per controllare i mezzi di produzione delle opere del proprio immaginario (l’imaginaire).

Il problema per quanto riguarda maschere, voci e appropriazione della cultura sta nel fatto che spesso trascuriamo l’obiettivo principale: in che misura i nostri strumenti culturali sono accessibili a tutti? Proprio come i valori della morale puritana sono fondamentali per il benessere di alcuni, così i piaceri nichilisti della decadenza possono essere assoluti per altri. E cosa dire della qualità e dei meriti delle opere delle arti figurative? Parlando a titolo personale, ammetto che quelle che molti considerano grandi opere d’arte mi hanno spesso lasciato del tutto indifferente, mentre, al contrario, opere che molti giudicano minori e di seconda categoria mi hanno generalmente sollevato a nuovi livelli di comprensione dello spirito umano.

Se non altro, la comunicazione di massa e le nuove tecnologie hanno ampliato la portata di quanto, in passato, veniva etichettato come «grande». Il ventesimo secolo ha reso possibile leggere le lettere di Seneca mentre si guarda un film di Frank Capra con Frank Sinatra alla televisione e si ascolta Broadway the Hard Way di Frank Zappa. Più di quanto sia mai successo prima sta a noi collegarci a piani paralleli del tempo e dello spazio senza farci prendere dalle vertigini. All’individuo si chiede di decidere da sé che cosa è «grande» nel mondo dell’arte. 

Ovviamente, e su questo mi trovo d’accordo con il filosofo francese Alain Finkielkraut, un paio di stivali non è paragonabile a un dramma di Shakespeare. Tuttavia devo confessare che a scoprire le liriche di Dante o di Baudelaire mi ha incoraggiato molto meno la «cultura alta» del Canada che non le canzoni di Willie Dixon, Muddy Waters, B. B. King, John Lennon/ Paul MacCartney e Mick Jagger/Keith Richards. Ascoltare, suonare e ballare i blues, il rhythmn’ blues, il rock ‘n’ rock ha aperto la mente, confusa ma piena di curiosità, del giovane che ero in modo così immediato e permanente che la mia sete di conoscenza mi ha portato a leggere i numerosi autori che gli artisti pop citavano nelle loro «sciocche canzoni d’amore».

Il primo album di Leonard Cohen mi è capitato fra le mani nella pila di dischi di stelle del pop che la sorella più grande di un amico teneva vicino al giradischi. Ho sentito parlare per la prima volta di Léo Ferré che cantava i poemi di Rutebeuf, Baudelaire, Verlaine e Rimbaud in casa di un nazionalista quebecchese. Sebbene a scuola ci insegnassero a leggere poemi ed opere teatrali nulla sembrava infiammarmi quanto il matrimonio ideale di musica e poesia che tanti chansonniers, come Jacques Brel e Georges Brassens, riuscivano a stringere in Francia e in Belgio.

Molti insegnanti semplicemente non hanno la capacità di trasmettere il senso della bellezza della letteratura ai loro studenti. Ho imparato di più sul modo di scandire un verso ballando senza scarpe in una palestra di scuola al soul beat di James Brown che ascoltando le noiose spiegazioni su Pope o Donne fatte da docenti abulici con sterili dottorati di ricerca. Gli insegnanti dovrebbero consigliare di leggere Sylvia Plath o Maria Luisa Spaziani soltanto dopo averle affiancate a Patti Smith o Gianna Nannini.

Il gusto del bello si acquisisce, sì, ma questo è vero anche del gusto di imparare. Molti miei insegnanti e professori non mi hanno mai fatto venire la voglia di imparare. Tutto quello che ho imparato ho dovuto trovarlo da me: attraverso la cultura popolare, dato che quella era la cultura più a portata di mano. Da bambino non ho avuto un papà o una mamma che sapessero suonare Bach o Chopin al pianoforte. Tuttavia, nel loro modo privo di pretese mi hanno insegnato ad apprezzare le arie che per caso si trovavano in un’opera del grande Verdi.

L’arte sublime deve essere resa attuale. Ascoltando le canzoni «inebriate» di Dean Martin e il jazz di Frank Sinatra e di Tony Bennett con i miei genitori ho capito per la prima volta come la mia italianità potesse interagire in modo vivo e vitale con il mondo anglofono che mi circondava. Il «rumore» delle parole italiane nel testo inglese di una canzone mi dava coscienza che anch’io potevo essere vivo e vitale in questo continente americano. Il valore e il peso del genere umano, grazie al cielo, non sta più nelle mani di pochi esseri fortunati.

Vorrei far notare che c’è una continua rivalutazione di termini chiave dall’inizio alla fine di questo libro. Tanto per cominciare, se abbandono la definizione canadese a favore di italo-canadese e, più avanti, quest’ultima a favore di italo/americano e italiano fuori d’Italia è perché l’esperienza etnica acquista un senso lato ed universale quando viene incorporata nel più ampio contesto americano. Limitare l’etnicità ad un solo paese equivale a minimizzare la più alta componente del suo significato, vale a dire che l’etnicità è cresciuta ed è diventata un’esperienza così complessa di superamento di confini che le parole emigrato ed immigrato non riescono più a contenerla.

Tolgo il trattino e al suo posto uso la barra, come proposto per la prima volta da Anthony Julian Tamburri nel suo indispensabile saggio To Hyphenate Or Not to Hyphenate. (2) La barra unifica i due termini invece di dividerli semanticamente, come invece fa il trattino nella sua specifica maniera ipocrita. Tamburri ritiene, giustamente, che il trattino di fatto «castri» uno o ambedue i termini, mentre la barra crea un confronto attivo che mantiene vibrante il significato dei termini sia individualmente che congiuntamente.

 

*

 

Per ogni gruppo di artisti etnici, la battaglia che vale la pena di combattere è quella per il diritto di produrre con i propri mezzi di produzione un corpus di opere artistiche e teoriche in tale abbondanza che il loro senso di etnicità non possa più essere confinato dalla cultura di moda a questioni di «contenuto appropriato». Ciò che ogni individuo ed ogni collettivo deve cercare di raggiungere è l’espressione di un complesso spirito di differenza piena di dignità.

Che cos’è la grandezza? È l’emozione suscitata da qualunque oggetto che, anche per un solo istante, cattura l’atto dell’oggetto in sè mentre supera se stesso, passivamente o attivamente e, così facendo, diventa il contenitore di ciò che illumina lo Spirito dell’Essere, qualunque cosa esso sia. E non c’è nulla di più grande che notare un oggetto, fatto dall’uomo o no, che rifiuta di arginare questo straripamento di espressione entro i limiti di qualsiasi preconcetta ipotesi di «grandezza» accettata da scienziati o da stolti.

Ovviamente, alcune istanze politiche verranno sollevate dall’inizio alla fine di questo libro, come è tipico di tutti gli scritti che trattano di realtà ipotetiche. Ma non ci sarà mai una discussione politica fine a se stessa. Il principale obiettivo qui è investigare i ruoli fondamentali che la cultura e l’identità rivestono o rivestiranno nella società di oggi e di domani, e come i ruoli possano aiutare ciascuno di noi ad acquisire significato come persone. Una battaglia contro i mulini a vento, questa impresa? Può darsi. «Ma», come il Signore de La Mancha di Cervantes ci ricorda: «non v’è cosa più folle che vedere la vita com’è e non come dovrebbe essere».

 

I’m tired of being told to                                Sono stanca di sentirmi dire di

shut up and assimilate                                                star zitta e assimilarmi.

I’m tired of being stirred around                   Sono stanca di essere rimestata

in a melting pot as though                              in un crogiolo come se

I’m not a human being,                                  non fossi un essere umano,

but a plum tomato.                                          ma un pomodoro napoletano.

 

                                                                        Rose Romano

                                                                        Vendetta

 

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(1) Camille Paglia, Sex, Art, and American Culture (New York: Vintage Books, 1992), pag.29.

(2) Anthony J. Tamburri, To Hyphenate Or Not to Hyphenate: The Italian/American Writer: An Other American (Montreal:          Guernica Editions, 1991).

 

 

 

*Antonio D’Alfonso è nato a Montréal il 6 agosto 1953. Ha studiato dal 1970 al 1975 a Loyola College, dove ha conseguito la laurea B.A. in Arte della Comunicatione. In seguito ha frequentato l’Università di Montréal e conseguito la laurea Master’s Science Degree negli Studi della Comunicazione, specializzandosi in Semiologia con una tesi sul film Mouscette di Robert Bresson. Nel 1978 ha fondato la Casa Editrice Guernica Editions, dove sono stati pubblicati oltre trecento libri di autori da tutte le parti del mondo. Autore egli stesso, ha pubblicato una serie di libri propri in francese ed inglese. Egli ha pure contribuito con diversi scritti di critica letteraria in diverse riviste attraverso il Canada, sia in inglese che in francese. Inoltre ha prodotto tre cortometraggi e ha collaborato alla ripresa e al montaggio di altri film. Ha tenuto frequenti conferenze su temi di letteratura, cinema e multiculturalismo in Canada, Stati Uniti ed Europa. Nel 1982 insieme ad altri tre scrittori ha fondato la rivista trilingue Vice Versa. Nel 1986 insieme ad altri tre scrittori ha fondato l’Associazione di scrittori Italo-Canadesi. A partire dagli anni ’80 ha scritto e pubblicato/tenuto centinaia di articoli/conferenze attraverso il mondo in difesa della sua idea della Cultura Italica, di una Comunità di gente Italica. Nel 2002 la sua raccolta di poesie Comment ça se passe / Come va è stata finalista al premio Trillium Award, premio che ha poi vinto nel 2005 con la sua opera Un vendredi du mois d’août. Egli è membro del Consiglio di Redazione della rivista di lingua francese Virages. Egli vive a Toronto.

 

PREMI E RICONOSCIMENTI

L’autre rivage (1987):  finalista al premio Prix Émile Nelligan.
1998: L’apostrophe qui me scinde: finalista al premio Prix Saint Sulpice.
2000: Fabrizio’s Passion: vincitore del premio Bressani Award.
2002: Comment ça se passe: finalista al premio Trillium Award.
2003: La passione di Fabrizio vincitore del premio internazionale Emigrazione in Italia.
2005: Un vendredi du mois d’août, vincitore del Trillium  Award.
(27 Avril 2005)

 

OPERE

La chanson du shaman à Sedna (poems, self-published, 1973)
Queror (poems, Guernica Editions, 1979) 2-89135-000-6
Black Tongue (poems, Guernica Editions, 1983) 0-919349-07-2
Quêtes: Textes d’auteurs italo-québécois (anthology, avec Fulvio Caccia, Guernica Editions, 1983)
2-89135-006-5
Voix off: Textes de dix poètes anglophones au Québec (anthology, Guernica Editions, 1985) 2-89135-009-X
The Clarity of Voices by Philippe Haeck (prose poems, translator, Guernica Editions, 1985) 0-919349-56-0
The Other Shore (prose and poems, Guernica Editions, 1986, 1988) 0-919349-66-8/0-920717-32-2
L’autre rivage (prose and poems, translation of The Other Shore, VLB éditeur, 1987) 2-89005-248-6 Finaliste du Prix Emile-Nelliagn.
L’Amour panique (prose poems, Lèvres Urbaines, 1988) ISSN 0823-5112
Avril ou L’anti-passion (novel, VLB éditeur, 1990) 2-89005-405-5
Julia (long prose poem, L’édition du Silence, 1992) 2-920180-25-8
Panick Love (prose poems, translation of L’Amour panique, Guernica Editions, 1992) 0-920717-63-2
Fabrizio’s Passion (novel, Guernica, 1995) 1-55071-023-0
In Italics: In Defense of Ethnicity (essays, Guernica, 1996) 1-55071-016-8

Il volume sarà presto pubblicato in Italia, col titolo: Cursivi italici, presso Cosmo Iannone Editore, Isernia.
The Films of Jacques Tati (by Michel Chion, translation, Guernica, 1997).
L’apostrophe qui me scinde (Le Noroît, 1998). 2-89018-398-X. Finaliste du Prix Saint Sulpice.
Duologue: On Culture and Identity (with Pasquale Verdicchio) (Guernica, 1998). 1-55071-072-9
L’autre rivage (Le Noroît, 1999) 2-89018-438-2
En Italiques: Réflexions sur l’ethnicité (essais, Balzac, 2000).2-921468-21-2
La paysage qui bouge (translator of the poems by Pasquale Verdicchio, Le Noroît, 2000) 2-89018-435-8
Fabrizio’s Passion (Guernica, 2000) 1-55071-082-6. The Bressani Award 2002.
Comment ça se passe (Le Noroît, 2001). Finaliste du Prix Trillium.
La passione di Fabrizio. (Traduit par Antonello Iannone Editore. Italia: Isernia, 2002.) The Premio internzaionale Emigrazione, 2003.
Getting on with Politics (Exile Editions, 2002.)
On Order and Things (by Stefan Psenak, translator, Guernica, 2003)
Dreaming Our Space (by Marguerite Andersen, translator, Guernica, 2003)
Antigone (Lyricalmyrical Editions, 2004)
Bruco (Lyricalmyrical Editions, 2005)
En Italiques: Réflexions sur l’ethnicité (essais, L’Interligne, 2005).
Gambling with Failure (Exile, 2005)
Un homme de trop (Noroît, 2005)
One Friday in the Month of August (Exile, 2005)
The Blueness of Light )(by Louise Dupré, translator, Guernica, 2005)

 

FILMS

L’Ampoule brûlée (short 16mm, black and white, 1973)
La Coupe de Circé (short 16mm, black and white, 1974)
Pour t’aimer (one-half hour 16mm black and white, 1982-1987)
The Minotaur (one-hour film project, 1992)
Antigone (feature film project)
Consent (unproduced screenplay co-written with Jennifer Dale, Feature film, funded in part by Telefilm).
My Trip to
Oaxaca (Video, 90 minutes, 2005)
Bruco (feature, video, 90 minutes, 2005)

MUSIC

Night Talks (1997, CD 50:49 minutes)
Songs, with Dominic Mancuso.
Passione e po’ di vino (poetry and music, 2001)

 

LINKS

Antonio D'Alfonso's Official Website. (http://www.antonio-dalfonso.com/ )

Guernica Editions (http://www.guernicaeditions.com/ )

"Fabrizio's Confusion" by Licia Canton. (http://www.athabascau.ca/writers/fabrizio.html )

Global Baroque: Antonio D’Alfonso’s Fabrizio’s Passion by Lianne Moyes (http://www.athabascau.ca/writers/barocque.html )

 

LETTERATURA CANADESE E ALTRE CULTURE

 

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