Zabaione 2008 (II)

note scelte dal blog www.brotture.it

Fabio Brotto

 

I diritti dell’insalata. Gli Occidentali moderni sono giunti a formulare un pensiero inaudito: quello dei diritti degli animali. Molti di loro vedono qualsiasi uccisione di esseri viventi da parte di un umano come violenza, e ne provano orrore. Tanto che negli asili italiani la fiaba di Cappuccetto Rosso si racconta ormai col finale mutato, escludendo l’uccisione del lupo da parte del cacciatore. Uccidere un animale, infatti, è come uccidere un uomo, una volta annebbiata la differenza radicale tra i due. E oggi è annebbiata. Ma il concetto di assassinio è un concetto umano, come ogni concetto, del resto. Sei tu, umano, che condanni l’altro uomo che massacra gli animali, e lo fai in questa cultura presente, attraverso la quale vedi il mondo, mentre se fossi stato un azteco avresti sacrificato vittime umane al Sole. L’animale non può condannare costumi e non può rivendicare diritti, non può esercitare doveri e non può infrangere leggi, perché non gli appartiene il logos. E nemmeno sentimenti che a noi appaiono (erroneamente) naturali, come la pietà. Quando in natura due eserciti di formiche si scontrano (e i morti possono essere migliaia, e pur essendo solo insetti sono sempre animali, e abbastanza intelligenti se misurati secondo certe capacità di problem solving) non ci sono trattative di pace o ragionamenti a posteriori su chi aveva ragione e chi torto, è pura uccisione di massa, anche quando le risorse del territorio permetterebbero ai due formicai di convivere pacificamente.

È vero però che gli umani hanno sempre avuto la tentazione di umanizzare gli animali (e quella inversa di ridurre l’umano all’animale: ti schiaccerò come un pidocchio!). Questo è legato al fatto che noi siamo anche animali, col nostro carico di istinti, e nello stesso tempo esseri culturali.

Capire che ciò che differenzia l’umano è originariamente il segno significa, in questo quadro, non solo comprendere l’irriducibile differenza tra l’umano (culturale) e l’animale (istintivo), ma anche comprendere che ciò che caratterizza ab origine l’umano è la sua tendenza alla violenza da un lato, e dall’altro al suo differimento. E lo strumento con cui gli umani hanno da sempre differito la violenza che essi stessi secernono e che li minaccia è il SACRIFICIO. Capire questo è capire nel suo fondamento tutto il percorso storico delle religioni (fondate tutte sul sacrificio, reale o metaforizzato) e delle culture umane, e capire anche perché nella sua origine la cultura umana è sempre religiosa.

 

Per millenni gli umani non hanno mai assunto volontariamente la parte delle vittime, ma hanno cercato in tutti i modi di stare dalla parte del vincitore, del sacrificatore, o meglio di essere vittoriosi, mediante la forza. In questo sviluppavano culturalmente la pulsione animale al trionfo del più forte. Fino alla coerente tematizzazione suprema di questo, nel Mein Kampf di Hitler. Insomma, la logica darwiniana non la possiamo ignorare, la natura si basa su di essa, e la solidarietà in natura è uno strumento di lotta del gruppo (il branco di lupi o di babbuini).

Ad un certo punto della storia dell’umanità, sono emerse delle idee nuove, filosofico-religiose, che hanno iniziato, prima in modo incerto e oscuro, poi chiaramente grazie alla rivelazione giudaico-cristiana, a vedere la realtà e la storia (fin dalle origini, a ritroso) nell’ottica della vittima (umana). Il lungo processo culturale, in parte laicizzatosi, ha portato all’Occidente di oggi, in cui il rifiuto della vittimizzazione sta raggiungendo in alcuni gruppi e individui una condizione paradossale (nemmeno i vegetali viventi possono essere uccisi, e una pianta di insalata è vivente come me, perciò ha i miei stessi diritti)… La cultura contadina non ha mai avuto orrore del sangue (ricordate la festa dell’uccisione del maiale nell’Albero degli zoccoli?). Come non ce l’hanno gli islamici oggi, che celebrano la Festa del Sacrificio anche in Italia, lontani dai media e dagli animalisti.

Bellini. Ieri alla messa per il quindicesimo della morte di mio fratello Paolo. In una cappella della chiesa dei Frari, a Venezia. Sono stato irradiato dalla pala di Bellini. La madonna e il bambino sono dipinti, ma appaiono tridimensionali. E’ un miracolo d’arte. Di quando l’arte pittorica era anche pensiero e metafisica, di quando prendeva le anime.

Pronomi. Questa mattina, seguendo la rassegna stampa dei giornali sul terzo programma RAI, odo il giornalista usare il pronome lui in riferimento al Corriere della Sera, al Giornale, e ad altri quotidiani. Una personificazione interessante. Non mi stupisce: da tempo ormai la lingua italiana si sta semplificando, o meglio si stanno modificando le strutture mentali profonde che la sorreggono. Da tempo in Italia nell’uso dei pronomi non si tiene più conto della differenza tra persona, animale e cosa. Lui e lei si dicono parlando del giornale, della cagnetta, della caffettiera. Sarebbe necessario studiare questa eclissi della differenza linguistica insieme al crollo del congiuntivo, per comprendere cosa si stia modificando nella nostra società. Io penso che anche siffatti fenomeni vadano ricondotti alla grande dialettica centro-periferia, e alla questione del governo della circolazione del risentimento sociale, su cui si inserisce la potente spinta del vittimismo generalizzato. Il nostro mondo sociale è permeato dalla convinzione, coltivata e propagata in tutti i modi, radicalmente sbagliata ma pervicace e onnidiffusa, che la differenza sia fonte di violenza. E la differenza il nostro mondo sociale la combatte non tanto sul piano della realtà fattuale, dove inevitabilmente essa si ricrea, spostandosi eventualmente di luogo, quanto su quello verbale. Naturalmente questo avviene per lo più in forma non consapevole. La gente parla sempre più una lingua in cui le differenze sono smussate, annebbiate. Ma la differenza non può mai essere eliminata totalmente. Se lo fosse, crollerebbe la stessa significanza, perché senza differenza non v’è né segno né pensiero. E questo fa sì che oggi noi viviamo una situazione paradossale: siamo indotti a credere che il mondo migliore sia quello in cui ogni differenza è cancellata, ma nello stesso tempo siamo sollecitati a combattere i nemici della cancellazione delle differenze. Imperversano i cantori del meticciato, della fusione, della multiculturalità, della contaminazione, che però non possono essere pensati né attuati se non mediante l’espulsione di chi non li accetta, dei folli che rifiutano la mescolanza, la fine della differenza. Il meccanismo dell’espulsione è in realtà intrascendibile, semplicemente si ricolloca.

La sparizione di esso, essa , dei pronomi un tempo riferiti ad animali e cose, a segnare la differenza essenziale dell’umano, è un segno dell’oscurità che ci attende.

 

Libri di storia. “I libri di storia, ancora oggi condizionati dalla retorica della Resistenza, saranno revisionati, se dovessimo vincere le elezioni. Questo è un tema del quale ci occuperemo con particolare attenzione”. Sembra che Dell’Utri abbia detto questo. Non è la prima volta che cose del genere vengono dette. Io non sono un uomo di sinistra, non sono un resistenzialista e detesto la retorica politica, ma penso che Dell’Utri abbia proferito una solenne corbelleria.

Si sa che la materia scolastica che ai politici (non solo italiani) interessa di più è la storia. Perché è la più ideologica e la più strumentalizzabile, quella che ha più a che fare con l’identità nazionale e ha natura politica di per sé. Solo che sbagliano bersaglio. Infatti, i politici italiani pensano che i libri di testo siano fondamentali nel formare le idee dei giovani. Nel pensare questo mostrano una ignoranza abissale di ciò che accade nella scuola, e non ricordano nemmeno la propria esperienza scolastica. I libri di testo, nella realtà fattuale delle cose, non contano nulla. Gli studenti non li leggono autonomamente, quasi sempre non li leggono affatto. Le poche idee che gli si accendono nella zucca si accendono per opera degli insegnanti. In realtà, è già molto se gli studenti leggono le pagine che il loro professore ordina loro di leggere. Anche perché gli stessi insegnanti non trovano piacevole la lettura dei libri di testo, se sono insegnanti intelligenti, poiché i libri di testo sono deprimenti. E gli insegnanti stupidi (ce ne sono molti, eccome) non influenzano nessuno. Insomma, il libro di testo è mediato dal docente, oggi più di ieri. La polemica sui libri di stato è dunque stucchevole, superata in partenza e del tutto beota.

Tuttavia, sotto l’affermazione dell’amico di Berlusconi scorgo una realtà problematica. L’Italia del dopoguerra si è fondata infatti, per quanto riguarda il senso della sua legittimità politico-civile, sul culto della Resistenza. Questa è stata però un’esperienza solo del Centro-Nord, dalla quale il Sud è stato forzatamente escluso. Per un siciliano sentire la Resistenza è davvero difficile. E questo è un problema della nazione intera.

 

Tibet. Che nei torbidi del Tibet che hanno scatenato la questione olimpica vi siano stati elementi di “pogrom anticinese”, come si è sostenuto da qualcuno, mi pare difficile negarlo. Le prime immagini giunte sui circuiti internazionali, con giovani tibetani simili a black-block che incendiavano auto e spaccavano vetrine, erano eloquenti. Fenomeni simili sono spesso avvenuti in territori marginali, con usi e costumi fortemente differenziati, annessi a vasti imperi o a stati più grandi. In fondo, una qualche analogia la presenta il nostro Alto Adige. Conquistato di slancio dalle truppe italiane durante la ritirata austriaca del 1918, quel territorio non era mai stato italiano. Le genti che lo abitavano erano di lingua e costumi tedeschi. Ma l’Italia, anche quella democratica, non si è mai sognata di rinunciarvi, poiché nessuno Stato, per grande o piccolo che sia, può mai donare un pezzo anche piccolissimo del suo territorio. Così è del Tibet: si potrà, col tempo, avere qualche autonomia locale, occorre negoziazione e pazienza. In ogni caso, mediazione politica anzitutto interna allo Stato cinese. Che è una superpotenza militare, non solo un gigante economico.

 

Gli attacchi alla fiamma olimpica, nel contesto odierno, sono altamente significativi. Anzitutto, di una dislocazione della sacralità, che sembra oggi rifuggire da ogni concentrazione simbolica. La fiamma viene attaccata e spenta perché, evidentemente, non è più sacra. Occorre chiedersi perché. Probabilmente perché quel sacro era finto, una convenzione sportivo-mediatica cui si crede solo per forma. Inoltre, fin dall’attacco palestinese alle Olimpiadi di Monaco (chi se lo ricorda?) il simbolo olimpico è un potenziale bersaglio, lo sono gli atleti stessi. La guerra è divenuta una faccenda asimmetrica, e anzitutto mediatica, in quelle Olimpiadi tedesche. Inoltre, occorre tener conto che sovente l’attacco viene portato a simboli sostitutivi perché e solo perché non si è in grado di attaccare il referente mondano del simbolo stesso: i casi delle bandiere israeliane e americane continuamente bruciate nel mondo sono eloquenti. Ma mentre in questo caso il rapporto è semplice, in quello della torcia olimpica le questioni sono più aggrovigliate. Come è aggrovigliata nella nostra mente l’immagine della Cina. Tanto più risibili, in un mondo in cui la Cina stessa ha in mano mezza economia planetaria, appaiono le argomentazioni di filosofi residuali come Gianni Vattimo e Domenico Losurdo, che tiene anche un blog, nel quale si parla del Tibet come di uno strumento dell’imperialismo contro la Cina (la quale in Africa e Sud America non sarebbe a sua volta imperialista, mah….).

 

Fame. Fin dai miei primi anni ho amato la pesca. Il mio primo fiume è stato quello che scorre attraverso il paese in cui sono nato, un paese dal nome strano: Zero Branco. Il fiume si chiama Zero. Le sue acque non sono più pulite come un tempo, quando i ragazzini del luogo vi facevano il bagno, e sono anche meno profonde, ma continua ad ospitare una numerosa popolazione di pesci.

A parte qualche luccio, si tratta di pesci non particolarmente nobili: alborelle, triotti, scardole, cavedani, rare carpe. Io amo la pesca con l’esca artificiale, la caccia ai pesci predatori, la pesca di movimento: un lancio qui, uno lì, con lunghe scarpinate sulle rive. Qualche volta, però, mi piace ritornare all’infanzia, e allora canna lunga, ametto, galleggiantino, larvette, e pesca per ore fermo in un punto, tirando su un pesce dopo l’altro. Quasi tutte alborelle, buone da friggere e da mangiare con polenta e radicchio amaro.

Qualche giorno fa, vicino ad un ponte, detto il Ponte del Tasca, mentre pescavo ho avuto un colloquio con un anziano che passava sull’argine, e si è fermato per una chiacchierata. Si è rivelato un lontano parente. Abbiamo parlato di caccia e di pesca, e delle trasformazioni del territorio. Le siepi scomparse, la bellezza svanita, la ricchezza dei contadini un tempo poveri, la scomparsa anche della fame. Perché qui, ancora negli anni ‘50, c’era fame, e la gente andava in America. Ora ci sono il radicchio rosso igp spedito in Giappone, le fragole, gli allevamenti di tacchini e maiali, le mercedes degli agricoltori, le piccole aziende e i capannoni come funghi. Mi ha raccontato che negli anni ‘50, quando sua madre la sera non aveva nulla per la cena, mandava lui e i suoi fratelli in giro per i fossi col carburo. Il carburo nell’acqua esplodeva, stordiva i pesci che venivano a galla: qualche chilo di carpe e tinche, magari un’anguilla, e la cena era pronta. Tempi lontani, terribilmente vicini. Chi loda i tempi antichi, la civiltà contadina, di solito ignora la fame, o, nella sua sazietà, le attribuisce un significato minimale. Opinioni: semplici e confortanti, nella complessità del mondo.

 

Padre Pio. Il culto di Padre Pio è un fenomeno di massa e fortemente mediatizzato. La comunicazione di massa ha oggi una particolare fame di sacro, e lo cerca dappertutto, perché sa che il sacro attrae gli umani. Anzi, il sacro è propriamente l’essere attratti degli umani intorno ad un Centro, che acquista per questo la caratteristica di sacro, ma pretende nello stesso tempo di averla a priori. Uno dei paradossi del presente è appunto nella pluralità dei centri sacri che il sistema della comunicazione, tendenzialmente policentrico e sempre in movimento, illumina della sua luce che tutto unifica. Il sacro è carburante della informazione di massa. Ma la massificazione è anche abbassamento (o innalzamento) allo stesso livello di tutti i fenomeni. Del resto, succede qualcosa di molto differente nell’intimo di, poniamo, un malato che prima si rivolge a Padre Pio per un’intercessione, e poi si reca dal Mago xy perché gli tolga la negatività o il malocchio che causano il suo male, o viceversa? Questo pone il problema della superstizione, e della sua eterna dialettica con la fede religiosa. Poiché il confine è sottile, a volte sottilissimo, come nel culto delle reliquie, o nello stesso culto dei santi. Infatti nella visione cattolica il santo è anzitutto un exemplum, ma nella fede religiosa di massa il santo è anzitutto un patrono, ovvero una sorta di umano-divinità minore che può, se lo vuole, aiutare questo o quello dei suoi devoti. La Chiesa cattolica ha gestito il rapporto con la religiosità popolare (che anche a Gesù chiedeva miracoli e guarigioni) con capacità di mediazione, in una sorta di bilanciamento tra quello che essa sa che solo conta, la conversione del cuore, e la richiesta delle masse sofferenti e smarrite. Con alti e bassi.

In realtà, da un punto di vista cristiano, il criterio per distinguere la fede dalla superstizione è semplice: quello che spinge l’umano ad amare e adorare l’unico Dio è buono, ciò che allontana dall’adorazione dell’unico Dio è cattivo. Se il mio culto di Padre Pio mi spinge verso Dio è un culto buono, se non ha nulla a che fare con Dio e addirittura mi allontana dall’adorarlo è un culto fallace e idolatrico. Per questo, nella massa di coloro che si recano nel suo santuario (o a Lourdes, o in qualunque altro luogo di culto), vi saranno i superstiziosi e vi saranno gli autentici credenti. E forse con strane mescolanze all’interno di ogni anima. Ma anche gli intellettuali ( e qui non parlo dei laici) che guardano con senso di superiorità, o peggio, queste masse di fedeli dovrebbero ricordare che ai cristiani è lecito un unico ineguagliabile modello, che è il modello di tutti i loro autentici modelli. E dovrebbero ricordare che Gesù guardava alle masse smarrite e sofferenti del suo tempo, pronte nel loro cuore all’idolatria come quelle di oggi, con infinita misericordia.

 

Papa e America. Il Papa è stato in America. I numerosi antiamericani che allignano anche nel mondo cattolico italiano hanno seguito quel viaggio obtorto collo. Si sa che anche le parole e gli atti del Papa possono essere, per così dire, tirati da una parte o dall’altra, o colorati secondo le lenti dell’osservatore. Ma ci sono parole inequivocabili, come quelle pronunciate nella Sinagoga di New York, o queste, che Benedetto XVI ha detto ieri, all’Udienza del 30 aprile.

 

Nell’incontro con il Signor Presidente nella sua residenza, ho avuto modo di rendere omaggio a quel grande Paese, che fin dagli albori è stato edificato sulla base di una felice coniugazione tra principi religiosi, etici e politici, e che tuttora costituisce un valido esempio di sana laicità, dove la dimensione religiosa, nella diversità delle sue espressioni, è non solo tollerata, ma valorizzata quale “anima” della Nazione e garanzia fondamentale dei diritti e dei doveri dell’uomo. In tale contesto la Chiesa può svolgere con libertà ed impegno la sua missione di evangelizzazione e promozione umana, e anche di “coscienza critica”, contribuendo alla costruzione di una società degna della persona umana e, al tempo stesso, stimolando un Paese come gli Stati Uniti, a cui tutti guardano quale ad uno dei principali attori della scena internazionale, verso la solidarietà globale, sempre più necessaria ed urgente, e verso l’esercizio paziente del dialogo nelle relazioni internazionali.

 

Qui mi sembrano importanti due cose: il riconoscimento dell’ordinamento statunitense come un modello per quanto riguarda laicità e libertà religiosa, da un lato, e la missione di “coscienza critica” della Chiesa dall’altro. Come teologo, Ratzinger ha attraversato i decenni creativi della teologia tedesca del Novecento, protestante e cattolica, e, nonostante tutto, questa eredità ogni tanto riemerge. Ma non è un’eredità ben legata al patrimonio dogmatico bimillenario della Chiesa cattolica, e, per quanto concerne la “coscienza critica”, non proviene dal suo interno, ed è un qualcosa di eminentemente moderno. Qui si apre un problema apparentemente insolubile, o forse un paradosso: la “coscienza critica” non fa parte degli atteggiamenti interni ammessi dalla Chiesa stessa, mentre dovrebbe essere un suo atteggiamento esterno verso la realtà politico-sociale e le istituzioni altre. Ma una istituzione al cui interno la critica è bloccata può mai funzionare come “coscienza critica”? Ovvero, può davvero una istituzione essere “coscienza critica”? Poiché quello di una coscienza critica collettiva, o addirittura istituzionalizzata, mi sembra un concetto ambiguo e spurio, rimane alla radice la questione della coscienza critica individuale, delle sue prerogative e dei suoi limiti. Che all’interno della Chiesa sono strettissimi.

Il Corpo di Bossi. Le ultime elezioni politiche hanno visto un grande successo della Lega Nord, che nel governo dell’Italia avrà un peso molto forte. L’Italia è uno strano Paese. È un Paese che ama molto le parole, che spesso vede la parola prevalere sul dato fattuale, coprirlo e annebbiarlo. Un Paese di avvocaticchi, di azzeccagarbugli, di notai. Un Paese ciarliero, in cui la parola viene spesa senza limiti e riguardi, fino al punto che essa si priva di efficacia comunicativa, di valore pragmatico. E alla parola subentrano i corpi e le immagini dei corpi: di qui l’importanza che Berlusconi ha sempre attribuito all’immagine mediatizzata del proprio corpo, tenuto in efficienza con ogni tecnica, sapientemente rifatto, disposto ad un inossidabile sorriso. Il corpo del capo conta molto nella comunicazione. La singolarità di Umberto Bossi è che il corpo che viene da lui ostentato e dato alla folla dei suoi seguaci idolatranti è un corpo vulnerato dalla malattia, un corpo sofferente, paraplegico, che si esprime con difficoltà. Ma un “Roma ladrona!” emesso dalla bocca tesa in una smorfia è per i discepoli più confortante e potente di un discorso di analisi politica razionale. Tale è la dinamica di un movimento che ha in sé molto di sacro, e di un sacro sovversivo. La Lega non è affatto un partito italiano come gli altri. Anche perché è l’unico che non si senta italiano. È utile, in questo senso, visitare a fondo il sito ufficiale della Lega. Penso che pochi degli intellettuali italiani, gente salottiera e con la puzza sotto il naso, lo facciano: www.leganord.org . Là si trova anche lo statuto, che in un movimento politico è sempre importante, si pensi agli statuti di OLP e Hamas e a tutta la polemica sull’obiettivo della distruzione di Israele che vi era e vi è contenuto. E qual è il primo e fondamentale articolo dello statuto della Lega.  È questo.

Art. 1 - Finalità

Il Movimento politico denominato “Lega Nord per l’Indipendenza della Padania” (in seguito indicato come Movimento oppure Lega Nord o Lega Nord - Padania), costituito da Associazioni Politiche, ha per finalità il conseguimento dell’indipendenza della Padania attraverso metodi democratici e il suo riconoscimento internazionale quale Repubblica Federale indipendente e sovrana.

Se uno Stato moderno possa accettare tranquillamente che al suo interno e nel suo parlamento esistano, senza alcun problema, movimenti politici che si propongono la fine dello stato medesimo e della sua sovranità (perché questo è, indiscutibilmente, il senso dell’articolo 1) mi pare una questione a cui si deve dare una risposta. Ma la lettura di questo articolo conferma la mia tesi: che nell’Italia di oggi le parole non sono prese sul serio da nessuno. Non è detto che sia un bene.

Del bruciare bandiere.  Mi interessa molto il gesto del bruciare bandiere. Capita spesso che si dia fuoco, durante manifestazioni di piazza qua e là per il mondo, e talvolta anche in Italia come nei giorni scorsi, a delle bandiere. Sono quasi sempre bandiere USA e israeliane. Il significato del gesto mi pare lampante. Si tratta di un atto sostitutivo, che comunica il desiderio di bruciare, cioè di nientificare, la realtà che il simbolo-bandiera significa.

Ciò che si vorrebbe compiere sul piano della realtà, e che non si può compiere perché l’oggetto è più forte di noi, noi lo attuiamo sul piano simbolico, scambiandoci reciprocamente, all’interno del gruppo unificato dal comune nemico, il segno del fuoco che consuma l’ente odiato. Di ciò che si odia, America e Israele, si desidera l’espulsione, la più radicale, la negazione del diritto di esistere. Per questo, chi brucia bandiere è in preda all’odio più profondo, quello che travalica la semplice ostilità, poiché col nemico si può trattare, e si può trattare se gli si riconosce il diritto di esistere. Ben differente sarebbe il senso del gesto di bruciare altre immagini: che so, fotografie di carri armati israeliani. Esso significherebbe guerra sì, ma non desiderio di annientamento totale. Infatti la bandiera rappresenta il tutto di una nazione, non le sue forze armate o la sua politica militare. Nessun esercito ha mai bruciato le bandiere di un esercito nemico: piuttosto, esse erano considerate trofei. Il bruciare bandiere, dunque, è un emblema della tragica deriva nichilistica del tempo presente.

 

Ministri. Ho sempre giudicato i Governi appena costituiti guardando alla qualità della persona cui veniva affidata l’Istruzione. Nel tempo mi sono fatto l’idea che in Italia l’istruzione sia considerata dalla classe politica un tema secondario, e secondario quindi il Ministero relativo. Nulla di paragonabile all’Economia o alla Politica Estera.

Infatti, mentre a quei Ministeri vanno sempre personalità pesanti, all’Istruzione può andare un pinco pallino che di scuola e università non si sia mai occupato nella vita. L’ho detto due anni fa per Fioroni, ma lo dico a maggior ragione per questa trentacinquenne Mariastella Gelmini. Che ne sa di scuola? Nulla. Avvocato, si è occupata d’altro. Dunque, secondo i nostri criteri politici è adatta al Ministero in questione, tanto, si sa, per quel che riguarda l’istruzione ai politici italiani interessa solo la questione del finanziamento della scuola privata, in un senso o nell’altro, e della laicità o non laicità, ovvero la questione per loro è tra il finanziario e l’ideologico. Il tracollo del livello culturale del Paese, benché abbia conseguenze di enorme portata sull’economia e sul funzionamento generale dello Stato, sembra non importare ad alcuno. Invece è, senza confronti, la prima emergenza nazionale. L’unica cosa giusta è che il ministro sia una donna, visto che fra poco non esisterà un solo insegnante di sesso maschile, e forse propriamente alcun insegnante, visto che non si insegna più, e non si impara.
Ci sarebbe un provvedimento urgente, da prendere immediatamente: ritornare all’esame di maturità con commissioni esterne, quali erano prima dei devastanti interventi di Berlinguer, che come unico scopo reale avevano il risparmio di soldi. Ma il provvedimento costerebbe, quindi non sarà preso. Il declino continuerà inesorabile, fino alla fine dell’Istruzione italiana come realtà, e la sua sostituzione con la fiction. Poiché siamo il Paese della Commedia dell’Arte, del Melodramma, e delle TV, in cui il tragico, che pur esiste, viene costantemente de-realizzato sul piano della pura immagine e della retorica sottostante. Tra Veltroni e Berlusconi ci sono i Cesaroni.

 

Cancro. Ogni giorno noi in Italia facciamo esattamente l’esperienza che Guicciardini faceva nella sua Firenze: nella nostra Repubblica i premi e le pene non sono distribuiti secondo un ordine razionale, ma secondo un ordine che, usando l’espressione che l’Italia stessa ha regalato al mondo, io chiamo mafioso. Perciò è rarissimo imbattersi in cittadini che si possano a buon diritto chiamare buoni.

Quest’ordine mafioso è insieme localistico e perversamente comunitaristico, e universale, poiché pervade l’intera società esprimendo ovunque il prevalere degli interessi particolari e locali. Il suo imporsi è favorito potentemente dal crollo di due delle istituzioni fondamentali di uno Stato: Giustizia e Istruzione. La loro corruzione impesta l’Italia in modo molto più perverso della spazzatura materiale di Napoli. Dirò solo una cosa dell’Istruzione. Il fatto che in Italia non uno dei concorsi universitari sia un concorso vero, perché in tutti, senza eccezione, i vincitori sono predeterminati dalle consorterie e dai poteri accademici, e che conseguentemente questo patente imbroglio sia accettato come inevitabile da tutti, priva il ceto intellettuale italiano che occupa l’Università di qualsiasi prestigio morale, e di qualsiasi possibilità non solo di impartire lezioni, ma anche solo di dare indicazioni che abbiano una minima relazione con l’etica. Si tratta di un cancro morale, che sta portando l’Italia allo sfacelo etico. E senza una sostanza etica una nazione non si regge, non è tale, non è nemmeno un popolo, ma è quel vulgo disperso che nome non ha che Manzoni ci mostra nell’Adelchi.

 

Gli uomini sono naturalmente inclinati al bene; in modo che a tutti, quando non cavano piacere o utilità dal male, piace più el bene che el male; ma perché la natura loro è fragile, e le occasione che gli invitano al male sono infinite, si partono facilmente per interesse proprio dalla inclinazione naturale. Però non per violentargli, ma per ritenergli in sul naturale suo, fu trovato da’ savi legislatori lo sprone e la briglia, cioè el premio e la pena; e’ quali quando non si usano in una republica, rarissimi cittadini di quella si truovano buoni; e noi ne veggiamo in Firenze tutto la esperienzia.

(Francesco Guicciardini, Ricordi I, 1)

 

Uomini e topi. Se si considera la figura del topo nell’immaginario occidentale dell’ultimo secolo, quale appare mediato dal cinema e dalla televisione, non si può non rimanere stupiti. Dal Topolino di Disney a Geronimo Stilton passando per Topo Gigio e per una moltitudine di roditori umanizzati, tutti appaiono eroi positivi, mentre i loro principali antagonisti, i gatti, svolgono il ruolo di villains.

Ora, questo è un colossale rovesciamento della realtà, ove il topo nelle sue varie specie, dal topolino delle risaie al ratto delle chiaviche, è stato per l’umanità una peste, che consuma le risorse alimentari, porta malattie, rovina i libri, ecc. ecc. Un animale da cui l’umanità si è sempre dovuta difendere. Mentre il gatto è stato un animale benefico, non a caso compagno dell’uomo da migliaia di anni. Qui ovviamente non regge l’obiezione che in natura c’è posto per tutti, perché nel suo meraviglioso ordinamento anche il topo e la zanzara svolgono un’utile funzione: l’umano non è naturale, e non lo sono nemmeno i film. Qui il problema sta nell’ordine culturale.

Le mamme che portano i bimbi a vedere il film Ratatouille, quando tornano a casa aprono per il loro gattone una scatoletta di salmone, mentre se vedessero in un angolo della cucina un piccolo topino si metterebbero a strillare come aquile.
Mi pare che si possa affermare che il rovesciamento dei ruoli nello spettacolo ha un significato apotropaico-rituale. Si inserisce in quell’universo di pratiche con cui l’umanità rappresenta il reale in forma rovesciata proprio per scongiurare che ciò che è rappresentato esca dal piano della pura rappresentazione e si incarni nella sfera del mondano.

 

Museruole. In questi giorni si dibatte sui cani pericolosi. Prevalgono, ovviamente, le posizioni più irrazionali, tra le quali la più ricorrente ed esemplare è quella che si condensa nella frase “non sono i cani ad essere pericolosi, ma i loro padroni”: ovvero non esistono razze più o meno aggressive, ma “anche un barboncino può mordere”. Potrebbe essere ritenuto sorprendente che in una fase storica in cui tutti i comportamenti animali ed umani (compreso l’orientamento sessuale) vengono ricondotti a fattori genetici, questi siano esclusi a priori dal discorso sull’aggressività canina, che invece deriverebbe solo dalla relazione (dis)educativa imposta dal proprietario. Il tutto non si può comprendere se si prescinde dal vasto quadro offerto dal prevalere nell’Occidente contemporaneo di logiche vittimarie, secondo le quali ogni fenomeno negativo deriva dall’oppressione esercitata dai poteri consolidati, su categorie sociali, sull’ambiente, sugli animali, sui diversi, ecc. ecc. La vittimizzazione è universale, e universalmente rifiutata. Ma questo genera il venir meno di ogni differenza. Come le razze umane sono uguali, anzi non esistono più, per cui non si può nemmeno dire che i Finlandesi sono biondi e chiari e gli Aborigeni d’Australia hanno tratti somatici inconfondibili, così anche le razze animali. Fra poco anche per i cani non si potrà più parlare di razze, ma bisognerà usare un altro termine corretto socialmente accettabile, e non si potrà nemmeno sostenere che vi siano tipologie di cani con differenti attitudini. Per cui infine, ad esempio, la museruola è strumento inaccettabile, e infatti a dispetto di recenti norme nessun proprietario la impone al suo cane, fosse anche un dogo argentino a spasso tra i giochi dei bambini in un parco pubblico. 

Ma la genetica (quello che si chiamava il sangue) e la selezione non sono uno scherzo. Si può forse andare a caccia di quaglie con un pastore tedesco? No, per quando lo si addestri, non ha la disposizione alla ricerca e alla punta degli uccelli. Ugualmente, un setter non imparerà mai a guidare un branco di oche verso un recinto, come fa un border collie, perché la selezione gli ha conferito altri istinti, su cui l’educazione potrà lavorare, ma solo assecondandoli. Se desidero un cane da addestrare per la mia difesa personale non posso acquistare un esemplare di una razza qualsiasi, ma dovrò sceglierne una che sia predisposta a ricevere un addestramento che implica, in determinate circostanze, l’attacco all’uomo. Idem per la guardia. Vi sono razze come i cani da slitta che non hanno alcun senso del territorio, e altre che sono iper-protettive e ipervigilanti, e così via. Vi sono razze selezionate per combattere (contro lupi e orsi a protezione del gregge, o contro altri cani), e quindi particolarmente portate alla lotta, vigili e aggressive. Vi sono i cani da presa, il cui morso è micidiale, e che una volta azzannatato un rivale o un uomo, non mollano più. Dire, come anche ha affermato la sottosegretaria Martini, che “anche un barboncino può mordere”, è una fesseria. Come infatti si può paragonare, guardando alle conseguenze, il morso di un barboncino a quello di un mastino? E provi la stessa sensazione entrando in una casa in cui ci sono due bassotti (che alla tua gola non arriveranno mai) e in quella in cui ci sono due rottweiler, che se gli gira storto possono farti a pezzi? Io sono un cinofilo, e amo i cani, ma proprio per questo so che bisogna usare accortezza. Se passo accanto ad un giardino dove un setter irlandese viene a scodinzolare ai passanti so che posso tranquillamente accarezzarlo, ma se il cane è un pitbull non allungherò la mano.

Olympia. Le Olimpiadi di Pechino confermano l’idea che lo sport di per sé non abbia alcuna relazione con la democrazia. Infatti tutti i regimi autoritari e totalitari l’hanno sempre esaltato e incentivato. Ieri quelli hitleriano e staliniano (e quello fascista), oggi quello comunista cinese. Lo sport è infatti celebrazione non della libertà, ma della volontà e della potenza.Se nello sport fosse questione di libertà, i regimi illiberali lo avverserebbero. Dunque lo sport sta al di là dei regimi politici e delle ideologie. Come il conflitto tra umani, da cui scaturisce. Non intendo affatto dire che la volontà e la libertà siano antagoniste: si può volere la libertà. Intendo affermare che nello sport la libertà non è in gioco: se fosse un fattore importante nello sport, chi è contro la libertà sarebbe contro lo sport. Ma i regimi totalitari sono quelli che esaltano maggiormente l’attività sportiva. Ergo…

Gelminodia. “Tornano i voti”. “Torna il voto in condotta”. “Torna il maestro unico”. Per un conservatore-reazionario come me questi strilli dei giornali e delle televisioni dovrebbero essere dolce musica, ma non è così. È musica, ma nel senso di una musica sgangherata, un abominevole rap che ben conosco. L’unico filo rosso che unisce i continui cambiamenti (reali o immaginari) che la classe politica ha inflitto alla scuola negli ultimi vent’anni è il criterio del risparmio. Certamente oggi si pensa che maestro unico significhi meno maestri, meno materie significhi meno insegnanti, e così via. L’unico risparmio che sanno immaginare. I provvedimenti dei Governi piovono sulla scuola senza che essa abbia alcuna parte nel gioco.

E chi sente dire che torna il voto in condotta ovviamente non capisce: era forse scomparso? Quando? E come tornerà? La pseudoinformazione regna sovrana. Sento alla radio che verrà immessa la materia “educazione alla salute”. Fisica o mentale? Al posto di quale altra?

Gran baccano sugli insegnanti meridionali. Nessuna considerazione seria circa il fatto che il sesso maschile tra i docenti si sta estinguendo. Avremo tra qualche anno una classe docente femminile e di origine meridionale. L’autonomia degli istituti (trasformati in fondazioni, una follia) al Sud si tradurrà ancor più che al Nord in clientelismo, localismo forsennato, disastro culturale assoluto. Quello che unificava la scuola italiana e costituiva il massimo incentivo e la forma di controllo migliore, l’esame di maturità con commissioni esterne dalle Alpi alla Sicilia, quello no non tornerà, né domani né mai. Costa.

 

Sulla razza. “Le razze umane non esistono, esiste solo la razza umana”. Una frase che si sente ripetere infinite volte, e che rappresenta forse il massimo del politicamente corretto. Rappresenta anche l’assoluta incapacità di accettare il diverso se non mediante la sua riduzione al medesimo. Così oggi non si può affermare che i neri riescono meglio nella pallacanestro e nella corsa, e peggio nel nuoto, a motivo della loro costituzione fisica. Bisogna dunque pensare che un pigmeo nel basket abbia le stesse possibilità di un watusso (tanto per restare tra i neri). Ogni affermazione che evochi la razza viene vista come razzista. E in giro si vede una spaventosa confusione tra i concetti di razza, di tipo umano, di specie, di cultura.

Homo sapiens sapiens è una specie, non una razza. Parlare della razza umana equivale a parlare della razza canina. Invece il cane è uno, ma esiste l’alano come il bassotto, e l’umano è uno, ed esiste il pigmeo come il mongolo. Chiamiamole varietà o tipi, l’importante è salvare la differenza.

La cosa acquista oggi un sapore particolare con la candidatura di Obama. Che, avendo madre bianca e padre nero, viene detto afroamericano, che significa nero, e non mulatto, come una volta si diceva. Per motivi socio-culturali, e non certo scientifici, essendo al 50 per cento bianco. Ora, è chiaro che stiamo scontando una reazione alle mostruosità razzistiche del secolo scorso, e a quella mentalità che vedeva una razza come superiore per natura ad un’altra. Ma qui sta passando l’oblio della differenza, che si inscrive nell’attuale processo vittimario di omologazione universale, e non può portare che nuovi conflitti e nuova violenza.

Violenze domenicali. Del significato antropologico delle violenze degli ultras del calcio ho scritto qui . Ciò che è avvenuto domenica tra Napoli e Roma fa risaltare una situazione perversa, in cui sono messe in discussione legalità, sicurezza dei cittadini e controllo dello Stato sul territorio. Quello che si vede è qualcosa di infinitamente più grave di tutta l’immigrazione clandestina, con annessi e connessi. È qualcosa che già si sapeva, perché fatti come blocchi stradali e ferroviari, spesso spalleggiati o addirittura organizzati dai sindacati, nelle più diverse circostanze avevano già mostrato che il nostro è uno Stato imbelle, la cui cifra è l’8 settembre (a mio parere, 8 settembre 1943 e Rotta di Caporetto dovrebbero essere feste nazionali - ci si potrebbero aggiungere Adua e Lissa). La verità è che alcune centinaia di persone determinate e pronte alla violenza in Italia possono ottenere molto, e se sono ultras del calcio possono ottenere tutto. In ogni caso la passeranno liscia. Possono, ad esempio, impadronirsi di un treno cacciandone i passeggeri che hanno pagato il biglietto, farsi portare dove vogliono, avere a disposizione alla stazione d’arrivo un numero enorme di pullman con cui raggiungere, senza pagare, lo stadio, entrarci gratis con il loro armamentario, sfasciare mezzi e locali pubblici, danneggiare lo stadio, e tornarsene a casa felici, contenti, ubriachi e impuniti. Mentre tra le autorità è scaricabarile, come sempre, perché i responsabili sono sempre altri, e infine nessuno. E saremmo governati da una Destra, tutta legge e ordine? Sì, da una Destra il cui capo possiede un club di serie A.

Differenza. Il mio ultimogenito è autistico. Il suo è un autismo grave, accompagnato da forte deficit cognitivo. Tra le altre cose, non parla. Frequenta la classe quinta della scuola primaria, con maestro di sostegno e addetta all’assistenza. Maestro maschio, attualmente, ovvero una stranezza nell’Italia di oggi. Nel contesto della sua classe la sua è una differenza assoluta, nessuno potrebbe essere più diverso di lui: la condivisione del mondo dei segni, anche al livello più elementare, ovvero di ciò che ci consente la compartecipazione alla comune sfera dell’umanità, è per lui estremamente problematica.

Fin da piccolissimo è stato privo della capacità di imitazione, in lui i neuroni specchio sono sicuramente inattivi da sempre. Ovvero il suo cervello non funziona. Perciò qualsiasi tipo di gioco simbolico, come fare brum brum con un’automobilina, gli è interdetto. Propriamente, non sa giocare. E in qualsiasi luogo non recintato e protetto occorre tenerlo per mano, altrimenti scappa di corsa, col rischio di gravi incidenti perché non ha alcun senso del pericolo reale.

 

L’anima razionale, la mente, non è un prodotto del cervello. Però richiede che il cervello sia perfetto. Così come una sonata di Beethoven non è il prodotto del pianoforte, ma ne richiede uno che abbia tutte le componenti in ordine e funzionanti. Questo mi sembra ben espresso da Dante, e lì, nella sostanza, io rimango.

 

Ma come d’animal divegna fante,
non vedi tu ancor: quest’ è tal punto,
che più savio di te già errante,

che per sua dottrina disgiunto
da l’anima il possibile intelletto,
perché da lui non vide organo assunto.

Apri a la verità che viene il petto;
e sappi che, sì tosto come al feto
l’articular del cerebro è perfetto,

lo motor primo a lui si volge lieto
sovra tant’ arte di natura, e spira
spirito novo, di vertù repleto,

che ciò che trova attivo quivi, tira
in sua sustanzia, e fassi un’alma sola,
che vive e sente e sé in sé rigira.

 

Cattolicesimo. Sul Covile è ripreso un interessante articolo di Pietro De Marco, un articolo sociologico-politico che contiene vari elementi di interesse. Sostiene che oggi l’Italia è governata da cattolici, non del tipo virtuoso, cioè orientato e riflessivo, come lo definisce l’autore (mi è venuta in mente, chissà perché, Rosy Bindi, e, parallelamente, anche il senso di disagio per  certa avversione tradizionalistica al ceto intellettuale), ma modali, “quei cattolici che non siedono nelle prime panche delle chiese, non operano nei consigli parrocchiali, non leggono saggi di teologia, ma credono nella morale cattolica anche se la praticano con difficoltà, fanno frequentare ai figli l’ora di religione nelle scuole (diversamente dai cattolici progressisti, che non lo fanno) e non amano sentire dire dai catechisti che il diavolo non esiste e neppure esiste il peccato”.

Essi, dice De Marco, sono cattolici in quanto consentono sull’essenziale visione cattolica del mondo. E quale sarebbe questa visione? Quali sono i suoi capisaldi irrinunciabili? Confesso che il mio intellettualismo mi differenzia da costoro. Io, ad esempio, non riesco a cogliere una cattolicità dei nostri attuali governanti. Per esempio, come fare a determinare la cattolicità di Berlusconi? A meno che essa non derivi semplicemente da un’affermazione del soggetto, che dice: io sono cattolico. Non mi sembra sufficiente, quando si tratta di un politico. Se  poi il comportamento degli elementi di maggior spicco di una classe dirigente non costituisce un buon esempio di cattolicesimo per quanto riguarda la propria vita sessuale e familiare (qualcuno è pure escluso dall’eucarestia) o per la promozione di modelli di vita edonistico-consumistici, ecc., in che senso  dovrei ritenerli cattolici? Perché sono stati battezzati o perché favoriscono alcuni aspetti della realtà cattolica italiana, come la scuola confessionale?

Quello di essenziale visione cattolica del mondo mi sembra un concetto molto vago e problematico, proprio all’interno del discorso di De Marco. Per riprendere il passo sopra citato, prendiamo uno che 1) non conosce, non dico la teologia, ma neppure il catechismo, e non sa nemmeno articolare la differenza tra il monoteismo islamico e quello cristiano; non ha mai partecipato alla vita ecclesiale a nessun livello; 2) ovviamente non ha mai letto la Bibbia (un libro che il cattolico all’italiana fugge come il diavolo l’acqua santa); 3) crede alla morale cattolica ma non la mette in pratica (qui sorge semplicemente il problema di cosa sia credere ad una morale senza praticarla, nemmeno come sforzo e tensione) anche perché forse la conosce pochino; 4) manda i figli al catechismo perché è la trafila normale e chissà che così i figli siano più buoni; 5) non ama sentirsi dire dal prete che non esiste il peccato, ma vuole che dica che esiste il diavolo con le corna (qui il discorso si fa addirittura rozzo, in realtà la storia è un po’ più complessa, e molti non amano sentirsi dire dal prete che non si debbono lasciare le case sfitte o pretendere affitti esosi, che si debbono accogliere gli stranieri, ecc.). Questo qualcuno, nondimeno, è un cattolico. Qualcosa mi sfugge, perché la sociologia non è teologia, e non può prendere in considerazione elementi soprannaturali, mentre mi sembra che la cattolicità di cui parla De Marco sia una categoria oscillante tra il sociologico e il dogmatico.

Conclusione: mi pare che De Marco scriva un articolo di sociologia all’italiana, ovvero non tanto per illuminare una realtà in spirito scientifico di ricerca, quanto per difendere l’attuale governo. In Italia o sei guelfo o sei ghibellino. Io faccio parte per me stesso, ergo non sono italiano. È vera però una cosa: all’interno della Chiesa il laico che pensa non ha vita facile.

 

Viaggi di distruzione e libri spazzatura. Si è dibattuto molto sulla scuola, nelle ultime settimane, e sempre all’interno dell’eterno scontro italiota tra guelfi e ghibellini. Sono tutti discorsi di facciata, che coprono la vera questione, quella del risparmio. La gara a chi taglia di più è iniziata anni fa, e non è ancora finita. La diatriba sul maestro unico è di una miseria allucinante.

Le colpe, in verità, sono universalmente distribuite, e tutti dovrebbero recitare il mea culpa, ma la maggior responsabile dello sfascio è la classe docente, di cui ho fatto parte fino ad un anno fa. Affetta da quello che per Platone è il maggior vizio, causa di infiniti mali, la viltà. Della viltà dei miei colleghi ho avuto infinite prove. In tutte le occasioni in cui c’era da rischiare qualcosina, tutti si tiravano indietro. Quando, nel 1993, ho segnalato un grave imbroglio durante gli Esami di Stato, mi sono trovato solo e accusato di infamare la scuola, e minacciato di sanzioni gravissime da un provveditorato mafioso, e solo mi sono trovato anche quando ho denunciato alla Direzione Scolastica Regionale un dirigente del mio istituto, incapace e maneggione. Tutti con una fifa folle di trovarsi nelle peste, di subire ricatti, di andare incontro a difficoltà. Tutti attenti non a quel che è giusto, ma a quel che conviene (nel senso più basso). Tutti gran gitaioli e gran promotori di acquisti sconsiderati di libri di testo.

Cosa intendo per gitaiolo? Per gitaiolo intendo l’insegnante che trova ovvio, naturale e buono che le classi vadano ogni anno in viaggio di istruzione. Da cui regolarmente gli allievi tornano fisicamente distrutti, e con ben poche acquisizioni culturali in petto, ma felici perché hanno potuto esprimere la loro scarica libidica. Si tratta di una coazione a ripetere da cui non v’è scampo, anche in questi neri tempi di crisi economico-finanziaria. Libri di testo orrendi e carissimi, e viaggi di distruzione. Questa diade impera e no, non v’è scampo. E capita che la famiglia che ha due figli agli studi sia salassata. Ma la cosa non importa a nessuno, questi non sono settori in cui si debba risparmiare: l’insegnante italiano stringe i denti e va.
E i libri di testo che adottano! Pesano tonnellate, zeppi di foto inutili, hanno forme differenti da un qualsiasi libro sano, sono libri deformi, malati, handicappati. Repellenti. Costosissimi. Con CD che non saranno mai usati. Lo studente ne leggerà qualche pagina, per liberarsene appena possibile. Sono spazzatura industrial-pseudoculturale. E molti sono scritti da insegnanti.

Ecco qua. La classe di mio figlio va in viaggio di distruzione anticipato a ottobre, di cinque giorni: costo di 350 euro, più 100 per le spese giornaliere. Contemporaneamente c’è l’acquisto dei libri di testo: 300 euro. Sono 750 euro in un mese, pagati per la scuola. Con gli stipendi e le pensioni che ci sono, c’è da riflettere. O no?

 

1490. Sta scritto nella Bibbia:

 

Così parla l’Eterno riguardo ai profeti che traviano il mio popolo, che gridano:Pace’, quando i loro denti han di che mordere, e bandiscono la guerra contro chi non mette loro nulla in bocca.

Perciò vi si farà notte, e non avrete più visioni; vi si farà buio, e non avrete più divinazioni; il sole tramonterà su questi profeti, e il giorno s’oscurerà su loro.

I veggenti saran coperti d’onta, e gl’indovini arrossiranno; tutti quanti si copriranno la barba, perché non vi sarà risposta da Dio. (Michea 3, 5-7)

 

Troppi veggenti in giro, in questi giorni. Tutti si levano a profetare. Sono giorni, questi della crisi finanziaria globale, che ci dovrebbero richiamare al pensiero. Dovrebbe essere un pensiero libero dalle catene degli ideologismi di ogni sorta. Non ne vedo molto in giro: quello che vedo è ideologia pura, o quasi, difesa degli interessi e delle convinzioni radicate. E invasamento profetico di molti da parte di demoni e potenze oscure. In genere, quello che circola è un pensiero animato da un risentimento fortissimo. In genere, esso ignora che non ci può essere industria senza capitalismo, e che il fatto che questo sia di Stato o privato cambia poco nella sostanza. Ciò è reso evidente dalla transizione cinese. La verità immanente del capitalismo è che il capitale deve essere accumulato. E l’accumulazione implica sempre il sacrificio. Il capitalismo ha natura intimamente sacrificale: questa era più evidente ai suoi inizi, si è venuta oscurando nell’era tecnotronica del piacere immediato e della vita illimitata, ma la natura coperta da un velo quando il velo cade torna manifesta. La questione del mondo globale non è soltanto la finanza, è l’industrializzazione illimitata e inarrestabile, che può spostarsi da un continente all’altro ma deve crescere, come il numero degli umani. Grandi sconvolgimenti ci attendono, ma non possiamo sapere come le cose procederanno, perché non siamo veggenti, e gli intrecci sono complicati e innumerevoli. Ma possiamo almeno cercare di vaccinarci contro la febbre d’angoscia di fronte al trasmutarsi delle fortune ricorrendo alla saggezza disincantata di grandi del passato, come Guicciardini. L’incipit della Storia d’Italia è uno dei testi che ho sempre davanti agli occhi. Mi sembra di doverlo rileggere ancora una volta, pensando ai “consigli male misurati di coloro che dominano”.

 

Io ho deliberato di scrivere le cose accadute alla memoria nostra in Italia, dappoi che l’armi de’ franzesi, chiamate da’ nostri príncipi medesimi, cominciorono con grandissimo movimento a perturbarla: materia, per la varietà e grandezza loro, molto memorabile e piena di atrocissimi accidenti; avendo patito tanti anni Italia tutte quelle calamità con le quali sogliono i miseri mortali, ora per l’ira giusta d’Iddio ora dalla empietà e sceleratezze degli altri uomini, essere vessati. Dalla cognizione de’ quali casi, tanto vari e tanto gravi, potrà ciascuno, e per sé proprio e per bene publico, prendere molti salutiferi documenti onde per innumerabili esempli evidentemente apparirà a quanta instabilità, né altrimenti che uno mare concitato da’ venti, siano sottoposte le cose umane; quanto siano perniciosi, quasi sempre a se stessi ma sempre a’ popoli, i consigli male misurati di coloro che dominano, quando, avendo solamente innanzi agli occhi o errori vani o le cupidità presenti, non si ricordando delle spesse variazioni della fortuna, e convertendo in detrimento altrui la potestà conceduta loro per la salute comune, si fanno, poca prudenza o per troppa ambizione, autori di nuove turbazioni.

Ma le calamità d’Italia (acciocché io faccia noto quale fusse allora lo stato suo, e insieme le cagioni dalle quali ebbeno l’origine tanti mali) cominciorono con tanto maggiore dispiacere e spavento negli animi degli uomini quanto le cose universali erano allora piú liete e piú felici. Perché manifesto è che, dappoi che lo imperio romano, indebolito principalmente per la mutazione degli antichi costumi, cominciò, già sono piú di mille anni, di quella grandezza a declinare alla quale con maravigliosa virtú e fortuna era salito, non aveva giammai sentito Italia tanta prosperità, né provato stato tanto desiderabile quanto era quello nel quale sicuramente si riposava l’anno della salute cristiana mille quattrocento novanta, e gli anni che a quello e prima e poi furono congiunti. Perché, ridotta tutta in somma pace e tranquillità, coltivata non meno ne’ luoghi piú montuosi e piú sterili che nelle pianure e regioni sue piú fertili, né sottoposta a altro imperio che de’ suoi medesimi, non solo era abbondantissima d’abitatori, di mercatanzie e di ricchezze; ma illustrata sommamente dalla magnificenza di molti príncipi, dallo splendore di molte nobilissime e bellissime città, dalla sedia e maestà della religione, fioriva d’uomini prestantissimi nella amministrazione delle cose publiche, e di ingegni molto nobili in tutte le dottrine e in qualunque arte preclara e industriosa; né priva secondo l’uso di quella età di gloria militare e ornatissima di tante doti, meritamente appresso a tutte le nazioni nome e fama chiarissima riteneva.


Francesco Guicciardini (Storia d’Italia I, 1)

 

Una visione. Mi è capitato una sola volta di vivere un’esperienza RSM (RSME è l’acronimo sotto il quale vengono rubricate le esperienze religiose, spirituali e mistiche, ovvero tutte quelle che, in modi diversi e anche diversissimi pongono il soggetto umano di fronte ad una radicale Alterità). Queste esperienze possono essere innescate da assunzione di droghe, da situazioni di particolare stress, ecc.: vi è una letteratura immensa su tali fenomeni. La mia, invece, è avvenuta entro un contesto assolutamente normale, in assenza di qualsiasi anomalia.

Era il 1994, e mi trovavo a Gorizia per gli esami di maturità, come commissario di italiano. Colleghi simpatici, situazione gradevole. L’evento è accaduto al mattino, nella mia camera d’albergo. Avevo dormito tranquillamente tutta la notte, mangiato leggero la sera, nessun abuso di alcool. Stava per suonare la sveglia, e mi trovavo in quella piacevole transizione dal sonno alla veglia in cui uno ricorda ancora quello che ha sognato e che sta svanendo, e nello stesso tempo ha coscienza di sé, della propria identità, e, per così dire, della realtà reale.

All’improvviso mi sono trovato in Piazza San Marco a Venezia. In mezzo ad una folla percorsa da una corrente di gioia. C’era una luce splendida, tutta la chiesa e gli edifici intorno erano d’oro e d’argento, e il cielo sopra la Piazza era segnato da lunghe strisce di colori diversi. Vidi che erano bandiere, attaccate a lunghe aste, ma di tessuto leggerissimo, tanto da sembrare di pura luce colorata. L’aria era tutta pervasa da una musica meravigliosa, di cui non si vedeva la sorgente. Mi ricordai allora che nel 1961 ero stato nella Piazza, insieme ai miei compagni di quinta elementare, per le celebrazioni dell’Unità d’Italia. Eravamo su di un palco, e avevamo cantato inni patriottici. Mormorai fra me, in un sussulto di razionalità: “Sto rivivendo il 1961”. Ma una voce, di uno che era accanto a me, disse: “Non è quello”. A questo punto fui invaso da una felicità così intensa, che mi misi a piangere dalla gioia, cosa che nella vita reale non mi era mai capitata, e non mi sarebbe più capitata fino ad oggi. E quella voce disse: “Questa è la Piazza San Marco dello Spirito”. In quel momento mi sono ritrovato seduto sul mio letto, nella camera d’albergo, che piangevo e singhiozzavo dalla felicità. Una felicità schiacciante.

Fatto del tutto inspiegabile. Non mi è mai capitato nulla di simile e neanche di lontanamente paragonabile, né prima né dopo.

 

Mio nonno. Mio nonno materno era un pittore. Un pittore professionista, uno che viveva del frutto della sua arte. Non era un modernista, né un innovatore: era un attardato, un erede dei macchiaioli. Aveva una grande tecnica, dipingeva ritratti, paesaggi e nature morte. Era l’ultimo erede di una tradizione familiare antica. Dalla prima metà dell’Ottocento, il ramo della grande famiglia Ghedina da Cortina d’Ampezzo, da cui uscì mia madre, era stato fecondo di artisti: il mio trisavolo Giuseppe Ghedina, suo fratello Luigi, e il mio bisnonno Gaetano, e mio nonno Gino.

Del nonno Gino non ho molti ricordi. Morì nel 1955, prima che io compissi 5 anni. Ricordo qualcosa. Viveva con noi, in un appartamento in affitto a San Giacomo dall’Orio, a Venezia. Il suo atelier era una soffitta. Ricordo il cavalletto, i pennelli, i tubetti dei colori, le spatoline. Ricordo quando mi fece il ritratto, che dovevo star fermo a lungo, e per me non era facile. Ricordo il suo basco blu e la sua barba, che mi sembrava strana, perché di uomini barbuti come lui non ne vedevo in giro. Ma i suoi quadri, che riempivano le pareti di casa, sono stati importanti per la mia formazione. Erano immagini della realtà vista da un altro sguardo, tradotte da un’altra mano.

 

Due cose giuste. Ho sentito dire due cose giuste sulla scuola. La prima da Fausto Bertinotti: il movimento degli studenti di oggi non ha alcun rapporto col Sessantotto, e semmai assomiglia per alcuni versi alla Pantera del 1985. La seconda cosa giusta l’ha detta Oliviero Beha: Destra e Sinistra sono responsabili insieme di uno sfascio totale della scuola iniziato 30 anni fa, e continuano a non avere un’autentica percezione della realtà di questo sfascio e delle sue conseguenze apocalittiche.

Bertinotti ha ragione nel sostenere che questo movimento è post-millenniale, e cioè apartitico. Ma secondo me ha torto (e questo ha radici nella sua visione del mondo) nell’attribuire positività al movimento in quanto tale, in quanto spontanea manifestazione delle masse. Ha ragione invece Beha nel vedere in esso una manifestazione di un generale ammutinamento degli Italiani. Si tratta di un ammutinamento strano, almeno in apparenza, nel quale la brama diffusa di ordine, sicurezza e benessere si mescola col rifiuto della legge e delle regole, e la voglia di cambiamento col terrore del nuovo. Come ho già scritto altrove, la società italiana prima ancora dello Stato è sull’orlo di un disfacimento e di una globale perdita delle differenze, con l’eccezione di quelle di reddito, che però sono inadeguate a sostenere l’ethos di un popolo. Il primo luogo in cui la cancellazione della differenza ha avuto luogo è la scuola, grembo della società futura. In questa congiuntura, Berlusconi che prima fa apparire e poi nasconde i manganelli, e Veltroni che cerca di cavalcare la protesta, sono due incarnazioni dello spirito italiota. Ma il secondo è ben più patetico del primo.

 

Cancro morale. Ho scritto altre volte che il cancro dell’Italia è la sua Università. Come l’omonima malattia, infatti, essa non risponde ad alcuna legge etica e procede per metastasi. A giudicare dai media, l’attenzione sulla metastasi è abbastanza viva: la denuncia del proliferare dei corsi, delle sedi e sedine in ogni villaggio anche sperduto, le diseconomie, ecc. Ma non si è fatto nulla, finora. E non si è fatto nulla a causa di un pauroso buco nero di natura etica.

E i docenti universitari nulla hanno fatto per evitare il tracollo culturale legato anche alle lauree triennali coi loro programmi osceni. In realtà, la metastasi poteva essere impedita da una presenza massiccia di eticità all’interno dell’istituzione. Poiché questo elemento, che in Italia appare degno solo dei moralisti e dei predicatori, è in realtà fondamentale. In nessun Paese dell’Occidente il livello di corruzione dell’Università è paragonabile a quello che c’è in Italia: da noi nessuno (NESSUNO) dei concorsi universitari è un vero concorso, ma sempre (SEMPRE) è un falso (FALSO) concorso, per cui il vincitore è già stabilito, a prescindere dal merito. Chi sostenesse il contrario, è da me dichiarato falso e fellone, come i concorsi stessi, e sfidato a duello alla pistola da trenta passi. Ed è evidente che se il centro intellettuale del Paese è in queste condizioni morali, il resto non potrà che essere almeno altrettanto moralmente infermo.

I docenti universitari, che ora sbraitano contro il governo, e sobillano gli studenti, o si stracciano le vesti e fanno ridicole lezioni in piazza, dovrebbero interrogarsi sui concorsi da cui sono usciti e su quelli in cui hanno svolto il ruolo di esaminatori. Sul loro reale impegno nell’insegnamento, e su altre bubbole di questo genere. Hanno tollerato di tutto, e ora oscillano tra il ruolo di Catone e quello di Masaniello. Ma è evidente anche ai ciechi che una classe docente come quella che abbiamo non potrà affatto fare l’interesse dei giovani, perché le manca ogni vera passione per la giustizia, evocata e invocata qui da noi solo quando coincide col nostro particulare. Lo spettacolo generale che si dispiega sotto il nostro sguardo è mediocre, risibile e tristo. Leggono in pubblico Salvemini e intanto trafficano per far entrare in ruolo il cugino dell’amante.

 

Barak Hussein Obama. Sul neoeletto presidente americano mi vengono in mente solo tre semplicissime e banalissime osservazioni.

Il suono del nome è quello di un principe saudita, non quello di un presidente USA. Questo significa molto, secondo me. Anzitutto entro l’orizzonte della rappresentazione in cui i nomi acquistano un potere ed una consistenza che eccede di gran lunga il loro valore semantico e la loro funzione comunicativa. Obama il presidente, Osama il suo peggior nemico. Una b al posto della s.

Tutti da noi lo chiamano nero e afroamericano. Ma egli avrebbe pari diritto ad essere considerato bianco, visto che sua madre è bianca. Questo significa che nell’orizzonte della rappresentazione socio-politica, dominata in Occidente da categorie progressiste e vittimarie, il nero prevale sul bianco, e il frutto di un matrimonio inter-razziale viene ascritto al gruppo razziale considerato vittima secolare in attesa di un risarcimento.

Personalmente, avrei preferito McCain come presidente degli USA, ma solo perché mi dava l’idea di essere più saggio e meno ambizioso di Obama. Apprezzo peraltro l’eroico sforzo del PD italiano che cerca di far coincidere concettualmente Sinistra italiana e Democratici statunitensi. In realtà, il chiasso mediatico sul presidente nero è puro fumo ideologico: abbiamo avuto negli anni passati due segretari di Stato di colore (non al 50 per cento come Obama), ed erano di Destra (uno addirittura una donna nera, caspita!). Mi immagino come la Rice sarebbe stata santificata in questi anni se fosse stata una democratica: ma è stata il braccio destro di Bush, quindi non poteva simboleggiare alcun riscatto dei neri. La Sinistra non la pensava come nera, per essa era bianca e persecutrice. Invece Powell e Rice segretari di Stato significano che da tempo la questione razziale è concettualmente superata in America. Il segno di questo superamento è visibile nei film e telefilm americani, dove possono benissimo comparire neri nel ruolo di cattivi, e nessuno solleva accuse di razzismo. Da noi è impossibile, i neri nelle nostre fiction possono fare solo la parte dei buoni. Però noi pensiamo di dare lezioni di anti-razzismo agli USA. Se questa non è follia, le è vicina.

 

Crolli. Crollano le scuole. Ma è la Scuola italiana che è crollata, anche se molti fingono ancora di non essersene accorti. In pochi anni due crolli catastrofici (più molti episodi minori in cui non ci sono stati morti, e che tuttavia segnalano una situazione diffusa, estremamente precaria e pericolosa).

Questi eventi fisici sono strettamente legati al crollo morale dell’istituzione scuola nel nostro Paese, che si è verificato da tempo, e le cui conseguenze sono processi irreversibili, come una valanga che nessuno può fermare. Nelle mie Croniche di scuola e non scuola, che ho scritto negli ultimi anni della mia attività di insegnante, tutto è scritto. Come in ogni profeta inascoltato, in me non c’è la soddisfazione di aver detto la verità (essa stava davanti agli occhi di tutti), ma l’amarezza di avere parlato invano…

Per ironia, il liceo in cui è avvenuta la tragedia si chiama Darwin: questa è l’evoluzione delle nostre scuole.

 

Luxuria. Dalla mitica transizione al socialismo, di cui si discuteva quando ero giovane, al trans (gender). Il percorso storico del comunismo italiano non potrebbe essere delineato più chiaramente di quel che avviene nella copertina di Liberazione. L’intelligenza critica nell’estrema sinistra (e non solo) è stata totalmente fagocitata dal sistema mediatico, un prodotto del capitalismo nel suo divenire attuale, ovvero nella sua fase tecnotronica-circense, nella quale gli istinti più bassi e le tendenze peggiori sono stimolati nella misura in cui producono profitti. Il reality televisivo è il simbolo perfetto di questa fase storica che stiamo attraversando. Una fase, come sempre, di trans (izione).

Vladimir Luxuria, il cui cognome d’arte evoca un vizio che ai nostri giorni è una virtù, e il cui nome si aggettiva al femminile pur essendo maschile, esemplifica perfettamente quel che sta accadendo in Occidente, ovvero la perdita delle differenze. Tutto sta potentemente collaborando ad un gigantesco sforzo per annientare la differenza, vista sempre e soltanto come discriminazione: la scienza, la televisione, il cinema, i giornali. Ma questo che sta accadendo è anzitutto un attacco al pensiero, che può procedere solo per differenze. Qui davvero trovo profetiche le parole di Simone Weil: “Poiché il pensiero collettivo non può esistere come pensiero, esso passa nelle cose (segni, macchine…). Ne consegue questo paradosso: la cosa pensa, e l’uomo è ridotto allo stato di cosa. Dipendenza dell’individuo rispetto alla collettività, dell’uomo rispetto alle cose: una eademque res”.

 

Poetastri. Anche ai tempi in cui per potersi chiamare poeta era necessario saper comporre dei versi, cioè avere almeno un’abilità tecnica, ovvero essere capaci di scrivere endecasillabi e settenari senza errori, anche allora i poeti in Italia erano troppi. Lo lamentava Leopardi stesso: si era sommersi da migliaia di volumi, anche la cittadina più sperduta aveva la sua Accademia dell’Arcadia o surrogato della medesima. E il poeta autentico anche allora aveva pochi lettori.

Oggi è ben peggio. Ci sono piccole case editrici che vivono stampando a pagamento i libercoli di autori (e autrici) che si pensano poeti e poetesse per il solo fatto di avere sentimenti e di esprimerli per iscritto, andando a capo arbitrariamente, invece che a fine riga. E quelli sarebbero versi. Nessuna relazione con la metrica.

Ma qui, oltre ad aspetti sociologici e psicologici di estremo interesse, c’è un interrogativo che si pone con forza. Chi oggi è in grado di definire con certezza che cosa si intende quando si parla di versi?.

 

Sull’io narrante. Nel romanzo contemporaneo stanno accadendo cose degne di molta attenzione, che richiedono una interpretazione. Uno dei fenomeni che mi colpiscono maggiormente è il proliferare di testi in cui la narrazione è in prima persona. Questo certamente ha a che fare con la crisi dell’idea di una verità sovra-personale e col soggettivismo individualistico pervasivo che trionfa nella nostra società, ma credo anche, dal punto di vista della tecnica della scrittura, con la presunta maggiore facilità di una narrazione fatta da un io narrante. Personalmente, quando apro un romanzo e mi imbatto in un io che parla, ho subito un moto di dispetto. Tento di saperlo prima, e di evitare l’acquisto (cosa che non sempre mi riesce).

Ma c’è dell’altro. Si sta affermando una modalità di narrazione in cui i tempi storici sono sostituiti dal presente. Questo probabilmente significa qualcosa di importante, su cui non ho ancora riflettuto abbastanza. Forse ha a che fare con l’impatto di media come cinema e televisione, in cui lo spettatore ha l’impressione che gli eventi si svolgano in un presente, di viverli contemporanea - mente. Non c’è dubbio sul fatto che la maggioranza degli scrittori avvertano oggi una sorta di complesso di inferiorità rispetto al mondo mediatico, a causa della sua superiore potenza e capacità di influenza. Ovvero a causa della sua centralità, rispetto alla perifericità della scrittura narrativa.

Ma un romanzo scritto tutto al presente pone problemi giganteschi rispetto al senso stesso del narrare una storia. Perché l’origine del narrare, il suo fondamento essenziale, è qui messo in discussione. Il narratore nasce infatti come narratore di eventi, e un evento non può essere narrato se non si è concluso. Altrimenti è cronaca televisiva, o film. Il narratore è uno che dà forma ad un evento mediante il segno-parola, e ne espone il senso. Ovviamente questo senso non si dà finché l’evento non è tale. Un evento non è tale mentre sta divenendo, ma quando è avvenuto. Un evento è un avvenuto. Narrare una storia dal punto di vista di un io presente a se stesso mentre accadono gli eventi è un atto estremamente problematico. Infatti presuppone un circuito impossibile, tra la coscienza del narratore-narrante e dell’io - personaggio agente, e il suo rispecchiamento nel lettore, e l’assoluta ignoranza del narratore-narrante / io personaggio agente circa lo sbocco degli eventi. Nello stesso tempo, il loro senso viene affidato allo scrittore, e ad un lettore cui viene chiesto di rinunciare alla convenzione fondante dell’operazione narrativa. E se si usa una lente un po’ più potente, non mancheranno di emergere tutti i paradossi e le incongruenze che una narrazione al presente dell’io necessariamente fa scaturire.

 

Macelli. “Hai appena cenato, e per quanto il mattatoio sia scrupolosamente celato alla vista dalla grazia della lontananza, la complicità rimane”. (R. W. Emerson, The Conduct of Life, Houghton, Mifflin and Co., Boston 1860, p. 12). In una società come la nostra, in cui l’uccisione scompare dalle fiabe raccontate ai bambini dell’asilo, che dopo qualche anno giocheranno con videogames dal contenuto ultraviolento, la visione di ciò che accade negli allevamenti industriali e nei macelli è rigorosamente interdetta. Siccome non vi è una legge che vieti, si tratta di un tabù.

 

Corruzione. Stupisce sempre nuovamente lo stupore che si rinnova per la corruzione diffusa capillarmente e ovunque in Italia. Da noi non esiste una vera società civile. Come scriveva Leopardi nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani (1824):

 

Il vincolo e il freno delle leggi e della forza pubblica, che sembra ora essere l’unico che rimanga alla società, è cosa da gran tempo riconosciuta per insufficientissima a ritenere dal male e molto più a stimolare al bene. Tutti sanno con Orazio, che le leggi senza i costumi non bastano, e da altra parte che i costumi dipendono e sono determinati e fondati principalmente e garantiti dalle opinioni. In questa universale dissoluzione dei principii sociali, in questo caos che veramente spaventa il cuor di un filosofo, e lo pone in gran forse circa il futuro destino delle società civili e in grande incertezza del come elle possano durare a sussistere in avvenire, le altre nazioni civili, cioè principalmente la Francia, l’Inghilterra e la Germania, hanno un principio conservatore della morale e quindi della società, che benché paia minimo, e quasi vile rispetto ai grandi principii morali e d’illusione che si sono perduti, pure è d’un grandissimo effetto. Questo principio è la società stessa.

 

In effetti, quella che da noi manca radicalmente come idea condivisa è l’idea di società. La società in sé, societas, lo stare insieme per interesse collettivo, da noi non esiste. Esiste, meglio, come epifenomeno, non come sostanza né come idea. Sia a livello locale che nazionale. Siamo una nazione composta da molte “società”, quasi tutte prive di un connettivo che non sia l’utilità immediata del singolo o della famiglia. Sono tramontate o stanno tramontando quelle societates, come sindacati e partiti, in cui l’idea di un bene collettivo trascendeva, nella coscienza di chi vi faceva parte, la propria individualità, che tuttavia proprio per questo vi trovava un senso. Sono state forme di aggregazione non corrispondenti, in realtà, al vero ethos del volgo italiano. Questa deriva utilitaristico-individualistica era già evidente nei primi anni Settanta, quando il clima affaristico che regnava nel Partito Socialista veneziano di De Michelis mi allontanò dopo un breve tentativo di militanza. Ora la cosa sta davanti agli occhi di tutti. Giudici politicizzati, giustizialismo, inchieste fatte coi piedi, lentezza dei processi, linciaggio sulla stampa sono fenomeni deprecabili. Ma come nell’Università il bubbone sta nel sistema dei concorsi truccati e nel nepotismo assoluto, e non nelle riforme e riformicchie, così nella nostra società il problema non è nel moralismo dei pochi ma nella totale, assoluta e orgogliosa amoralità dei più. Ma giustamente l’italiano tipo, e il giornalista e il politico che lo rappresentano, invertono i termini della questione. Il nemico per loro è il moralismo e il conseguente giustizialismo. Come maiali cui è cara, anzi vitale, la melma in cui amano crogiolarsi.

 

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