Zabaione 2007

note scelte dal blog www.brotture.it

Fabio Brotto

 

Severità progressista. Severità progressista, invoca Antonio Scurati alla fine dell’articolo pubblicato sulla Stampa di ieri. Stimo molto Scurati, che considero uno dei pochi intellettuali italiani che si sforzano di penetrare i fatti al di là dei luoghi comuni. Anche questa volta il suo intervento coglie nel segno. I risultati degli ultimi Esami di Maturità evidenziano un 6,6 per cento di studenti che non ce l’hanno fatta. Fioroni e molti altri plaudono alla ritrovata serietà. Ciò non è molto serio, e a Scurati pare sospetto, e giustamente, visto che Scurati stesso si trova a dover amaramente constatare che nell’Università di oggi si passa tranquillamente un esame essendo convinti che la Rivoluzione Francese sia avvenuta nel Quattrocento. Quello che non mi convince è nella conclusione. Scurati ovviamente non vuol passare per reazionario, e invoca sì una nuova severità, ma una severità progressista. Se questo significa che essere severi nella scuola di oggi è un elemento progressivo, sono d’accordo. Se si pretende che vi siano due severità differenti (in che cosa, nell’animo del severo?), mi pare che siamo destinati ad entrare nel solito campo delle distinzioni verbali italiote. A me basterebbe che gli insegnanti nella scuola fossero seri, quelli di destra come quelli di sinistra.

Don Milani. Selezione dei meritevoli? In un Paese in cui il candidato alla guida del Partito Democratico esalta la figura di Don Milani? Mi fanno ridere amaramente le attuali celebrazioni della figura del prete di Barbiana. Le idee di Milani, grande anima che ha avuto una ben strana sorte, avevano un senso in un mondo che non era ancora compiutamente il nostro. Ma già allora avevano natura fondamentalmente retorica, e non avrebbero mai potuto tradursi sul piano di una realtà operativa scolastica nazionale. Mi pare significativo il fatto che la trasformazione di Milani in icona della Sinistra abbia comportato l’oblio (girardianamente direi l’espulsione) della figura della professoressa alla (e contro) la quale è indirizzata la famosa Lettera, che era un’insegnante (comunista) seria e dedita al dovere, e che forse della realtà capiva molto di più di quanto ne capisse il volonteroso sacerdote. Ma appunto, le differenze saltano, i concetti si fanno sfocati, e Veltroni, difensore della scuola pubblica, esalta Milani che la combatté e sostenne quella privata.

Del Male. Alcuni affermano che il male sia il nulla. Fanno perfettamente coincidere il nulla e il male. Il male è invece, io penso, nella riduzione dell’umano a cosa (strumento, ecc.), che come tale si può annientare, o ridurre a nulla. Ma il nulla in sé non è male, e neppure bene. Se il nulla in sé fosse male, avrebbe in sé una determinazione che lo renderebbe un non-nulla. Inoltre rischierebbe di essere nel male, cioè di essere male, tutto ciò che non è ancora, insieme a tutto ciò che non è più. Ma sia il bene che il male appartengono al piano dell’essere. Noi vediamo l’essere come bene, e come male il divenire nulla di ciò che ora è. Il male colora di sé ciò che trascina verso il nulla, ed è propriamente in questo trascinare. Noi diciamo di un atto che è male in questo preciso senso. Possiamo dirlo però solo in quanto il male sia. Non potremmo dire: questo è nulla. Ma, d’altro canto, non possiamo vedere come male il passare nel nulla di entità che generano sofferenza e morte: e ad esempio l’annientamento dei parassiti che portano a morte lo vediamo come bene. Vediamo cioè il bene nella nientificazione di ciò che nientificherebbe. In una relazione, quindi. E molti sofferenti hanno giudicato bene supremo l’annientamento di sé.

Un’assoluta relativizzazione del male e del bene implica, ovviamente, un assoggettamento totale alla forza. Sarà il prevalere del numero e della forza a determinare di volta in volta quel che è bene e quel che è male. Da tremila anni (e forse più) l’umanità non riesce ad uscire da questo dilemma.

 

Delle armi. Non sono passati molti anni dalla guerra tra Iraq e Iran (circa 1 milione di morti). Ci ha interessato molto meno di quella libanese dell’altr’anno (mille morti?). Infatti per determinare l’importanza di una guerra il numero dei morti è irrilevante…

La cultura dominante oggi in Italia nutre un evidente orrore per le armi. Tende a nasconderle, a non farle apparire, anche quando ci sono. La cultura dominante oggi in Italia sembra una cultura di pace, che detesta ogni forma di violenza. Credo che in questo vi siano molte ambiguità, e in fondo una coscienza infelice e un’anima lacerata.
Altre culture hanno con le armi un rapporto immediato e diretto. In questi giorni d’agosto, in cui l’Italia ha in armi nel mondo (ma in missioni “di pace”) alcune migliaia di uomini, penso molto al nostro rapporto con le armi. In Italia sono quasi tabù. I tempi della Resistenza sono lontani.

Nel corso del Novecento si è infranta in quasi tutto il mondo la legge non scritta che vedeva le donne estranee al mondo maschile della guerra.

La foto che contemplo sul video del mio computer ritrae due giovani guerriere curde. (Popolo non meno infelice dei Palestinesi, i Curdi hanno sofferto del non poter essere usati in chiave antiamericana.) Nel PKK curdo le donne imbracciano i fucili.

Vi sono state e vi sono situazioni in cui l’uccisione di nemici appare non solo giustificata, ma doverosa e meritoria. Gli Europei di oggi fanno fatica a comprenderlo. Non ricordano gli anni del conflitto e della Resistenza. O li ricordano con una memoria molto selettiva.

Durante la Seconda Guerra Mondiale, per le donne i primi passi. Emanciparsi  significa poter fare la guerra.

Intorno alle armi e alla violenza si misura tutta l’ipocrisia della nostra cultura occidentale odierna. Siamo convinti che non sia opportuno regalare pistole e fucili giocattolo ai nostri bambini, perché possano giocare alla guerra come si faceva qualche decennio fa: sarebbe diseducativo. In compenso, i videogiochi sui quali i nostri figli passano le ore sono pieni di una violenza che al tempo in cui su Topolino apparve quella pubblicità che qui contemplo, di una pistola giocattolo (1967,) era del tutto inimmaginabile.

In verità, c’è una ricompensa per ogni cosa.

Il segno del più grande mutamento antropologico verificatosi dall’era neolitica ad oggi è la donna in armi.

Mi pare degno di nota il fatto che solo nelle società in cui le donne sono assolutamente dominate (come in Afghanistan e in pochissimi altri luoghi), esse non hanno un qualche accesso alle armi. In molti Paesi musulmani, invece, come la Libia e l’Iran, si possono vedere donne armate.

 

Complessità. Il pensiero tende sempre alla complessità, alla messa in questione (se è pensiero autentico), al dubbio radicale.

Il potere, qualsiasi potere, preferirà sempre avere a che fare con una moltitudine di persone semplici, un gregge, che con una moltitudine di persone complesse. La forma perfetta del potere è espressa nel rapporto tra il pastore e le sue pecore. I pastori di popoli, come i re dell’Antico Oriente.

Ogni potere ha bisogno di omologazione. La semplicità è ben vista dal potere. Quanto più semplici gli individui, tanto più simili tra loro, tanto meno individui. O meglio, tanto meno singoli, tanto più falsi individui, veri iperdividui, cioè massa.

Nelle formazioni militari appare nel modo più evidente quell’annegamento dell’individuo nel collettivo che proprio nel Novecento ha assunto i caratteri più inquietanti.

Il passo dell’oca presuppone, nella sua innaturalità, la massima repressione delle istanze di differenziazione individuale.

Gli Dei della Grecia.

Quando il bel mondo sereno ancora reggevate,
o beate stirpi, e guidavate ancora,
col dolce laccio della gioia,
creature beate d’una terra favolosa –
ancora fioriva, ridente, il vostro culto
e come tutto era diverso, allora!
Allora i tuoi templi erano colmi
di ghirlande, o Venere Amatusia!

Nel creato scorreva la ricchezza della vita,
si provavano sentimenti ignoti,
e l’incantata custodia della poesia,
avvolgeva tenera la verità.
Massima nobiltà della natura
era stringerla al petto dell’amore,
tutto parlava allo sguardo iniziato,
tutto era traccia di un dio.

Dicono invece oggi i nostri saggi
che dove un tempo, in maestà silente,
Elio guidava il suo carro dorato,
ruota una morta palla di fuoco.
Un tempo le Oreadi abitavano questi spazi,
e c’era una Driade in quell’albero!
Argentea sgorgava la spuma dei torrenti
dall’urne di graziose Naiadi.

Tra le Poesie filosofiche (Philosophische Gedichte) di Schiller, Gli dèi della Grecia (Die Götter Griechenlands, 1788) è senza dubbio quella più densa e problematica. Essa pone anzitutto in questione il ruolo del poeta in un universo cristiano. E per cristiano si intende un universo in cui l’affermazione di un Dio unico e trascendente, assolutamente altro rispetto al mondo e alla natura che ha creato, apre questo mondo e questa natura alla investigazione scientifica e ne consente la riduzione meccanicistica. “Dicono invece oggi i nostri saggi / che dove un tempo, in maestà silente, / Elio guidava il suo carro dorato, / ruota una morta palla di fuoco”. Gli astri non sono dèi, ma pura materia agita da forze fisiche conoscibili dalla mente fisico-matematica dell’essere umano: una realtà quantitativa e calcolabile. Una realtà impoetica. “La natura, ormai senza più dèi,/s’inchina comunque umilmente alla legge dei gravi, /come ad un morto colpo di pendolo”.

Cercando aiuto si torcea l’alloro,
la figlia di Tantalo era una muta roccia,
il lamento di Siringa risuonava da una canna
come, dal bosco, il dolore di Filomela.
Quel ruscello accoglieva le lacrime che
Demetra versava per Persefone,
mentre invano Citera chiamava da un colle
il suo leggiadro amico.

I Celesti si mostravano ancora
alla stirpe di Deucalione,
e, per vincere la bella progenie di Pirra,
il figlio di Leto impugnò la verga.
Ma fra uomini, dei ed eroi,
Amore intrecciò una leggiadra unione:
resero così grazie in Amatunte
i mortali, i divini e gli eroi.

L’oscuro, il grave e la tristezza
furon banditi dal vostro culto,
felici dovevano essere tutti i cuori,
chi è felice vi è infatti anche affine.
Nulla era sacro fuorché la bellezza,
e il dio non respingeva alcuna gioia.
Arrossivano le caste Camène, ma Grazia regnava.

I vostri templi erano in festa come palazzi,
il combattimento degli eroi vi celebrava
nelle gloriose feste istmiche,
ed i carri rombavano al traguardo.
Danze animate e leggiadre
incoronavano lo splendido altare,
ghirlande d’alloro v’adornavan le tempie,
e corone vi cingevano le chiome.

Le grida di chi agitava il tirso,
e la splendida coppia di pantere,
annunciavano il dio recante gioia.
Fauni e Satiri gli barcollano innanzi,
Menadi frenetiche gli saltano intorno
e inneggiano danzando al suo vino,
mentre le brune gote dell’ospite
invitano gaie alla coppa.

Dinanzi al letto del moribondo
non c’era traccia di scheletri orrendi:
mentre un Genio spegneva la sua fiamma,
un bacio ne raccoglieva la vita dalle labbra.
A regger la severa bilancia di Orco
era poi la progenie di un mortale,
e il lamento del Trace
commosse persino le Erinni.

Felice, l’ombra ritrovava
le sue gioie nel boschetto elisio,
i coniugi fedeli un puro amore,
ed il cocchiere la sua via.
Intona Lino i consueti canti,
tra le braccia d’Alcesti giace Admeto,
Oreste ritrova il suo amico
e Filottete i suoi dardi.

Premi maggiori erano un tempo concessi
a chi lottava per l’ardua virtù,
e splendidi eroi con le loro gesta
ascendevano verso i beati.
La schiera degli dèi s’inchinava silente
di fronte al difensore dei morti,
ed i Gemelli d’Olimpo guidavano
fra i flutti i naviganti.

Dove sei, bel mondo sereno? Torna,
incantata giovinezza di natura!
Ahimè, solo nella magia dei canti
delle tue meraviglie ancor c’è traccia.
Deserta e a lutto è la contrada,
non scorgo più divini,
di quell’immagine fremente di vita
non resta ormai che un fantasma.

Tutti quei fiori giacciono riversi
sotto il terribile vento del Nord:
per favorirne uno solo fra tutti
dové svanire questo mondo divino.
Mesto ti cerco nella volta stellata,
o Selene, ma la più non ti trovo;
t’invoco nei boschi, fra i flutti,
ma essi risuonano invano!

Ignara delle gioie ch’essa concede,
mai affascinata dal proprio splendore,
mai presente allo spirito, che la guida,
mai più felice per la mia gioia,
priva persino del sentire, per amore del suo artefice,
la natura, ormai senza più dèi,
s’inchina comunque umilmente alla legge dei gravi,
come ad un morto colpo di pendolo.

Il disincanto del mondo e la secolarizzazione sono, tuttavia, una conseguenza rigorosa e inevitabile della rivelazione ebraico-cristiana, e sono intimamente legati ad essa. “Tutti quei fiori giacciono riversi/sotto il terribile vento del Nord: /per favorirne uno solo fra tutti /dové svanire questo mondo divino”. Il problema riguarda dunque i poeti, che possono ora solo nostalgicamente guardare ad un tempo in cui “l’incantata custodia della poesia,/avvolgeva tenera la verità”, e che ora hanno come materia del loro eventuale canto un’assenza e non una presenza; ma riguarda anche il Cristianesimo, in quanto non si è del tutto reso conto della sua stessa natura, e in parte continua a coltivare l’idea di una presenza del divino nel mondo, quasi alimentando in sé residui e nostalgie di paganesimo. In un certo senso (ripenso qui alla teologia di J.B. Metz), potremmo dire che una società perfettamente secolarizzata (ove questo fosse realmente possibile, cosa di cui dubito) sarebbe il portato finale della rivelazione ebraico-cristiana.

Naturalmente, la Grecia di Schiller, come quella degli altri grandi romantici e classicisti, è la Grecia del mito gioioso. Il mondo sereno era guidato col “dolce laccio della gioia”. Nietzsche deve ancora scrivere La nascita della tragedia, la storia delle religioni e l’antropologia devono ancora scavare nel rito e nel sacrificio su cui si fondava la religione dei Greci, e il mito non è stato ancora costretto a rivelare il suo cuore violento. Dioniso è solo “il dio recante gioia”, e non quello che induce la madre di Penteo a sbranare il proprio figlio.

Ma una verità ancor più fondamentale mi sembra enunciata in questo testo schilleriano. Gli umani procedono sempre per espulsione, e non riescono ad immaginare un procedere della storia del mondo se non come un succedersi di grandi espulsioni. Ogni ordine, da quello individuale a quello familiare, da quello clanico a quello culturale, si regge sull’espulsione dell’eterogeneo e di tutto quel che viene sentito come minaccia, infezione, inquinamento, errore. Qui gli espulsi sono gli dèi.

Per tornare domani a liberarsi,
essa si scava oggi il sepolcro,
mentre le lune s’intrecciano da sole,
senza posa, in un eterno, identico fuso.
Inoperosi, gli dèi si volsero verso casa,
verso la terra dei poeti, scarto di un mondo
che oscilla solitario,
libero ormai dalla loro influenza.

Sì, tornarono a casa, e presero con sé
ogni bellezza, ogni grandezza,
ogni colore, ogni vita,
lasciandoci solo una parola senz’anima.
Strappati al flusso del tempo,
si rifugiarono sulle vette del Pindo:
quel che vive immortale nel canto
deve perire nella vita.

Friedrich Schiller, Poesie filosofiche, a cura di G. Moretti, SE, Milano 1990, pp. 12-19

Eurocentrismo. Mi pare che nel modo nostro di guardare ai fenomeni emergenti nel mondo islamico persista un atteggiamento eurocentrico. Esso si manifesta, ad esempio, nella diffusa difficoltà di pensare ad una capacità autonoma dell’Islam di produrre mutamenti in se stesso, e nella tendenza ad interpretare ogni novum, come la nascita e l’affermazione di Hezbollah ecc., come mera reazione ad azioni dell’Occidente. Che è il solito modo di porsi comunque al centro.

Anche ritenere l’Occidente l’unico responsabile di tutti i mali del mondo è una forma di innalzamento di sé al di sopra tutti gli altri. Purtroppo anche nella società tecnotronica il pensare semplice, oggi soprattutto nella sua forma vittimaria, è quello che ha maggior possibilità di successo.

 

La voce. Nel 1964 i miei compagni di classe ascoltavano quella che allora si chiamava “musica leggera”. Non tutti, qualcuno ascoltava classica e lirica. E io tra loro. I Beatles mi sembravano pecorelle belanti, a me piacevano i suoni armoniosi e potenti. Mia madre mi portò alla Fenice ad ascoltare la Favorita di Donizetti, mio padre ad ascoltare I maestri cantori di Norimberga di Wagner. A Natale ricevetti il concerto Imperatore di Beethoven, con Arthur Rubinstein al pianoforte e direttore Clemens Krauss. Era fatta: classica e lirica forever, con range dai trovatori a Korngold.

La voce per me è e rimarrà sempre Boris Christoff, che ho avuto il piacere di ascoltare dal vivo alcune volte. Ha dei toni metallici che mi piacciono molto. Lo ascoltai anche pochi anni prima della sua morte, alla sede RAI di Venezia, eseguire canzoni popolari russe e polacche: mi vengono ancora i brividi.

 

Iraq. L’attacco americano all’Iraq è stato un colossale errore geostrategico. L’insieme della prima e seconda Guerra del Golfo, con gli annessi e connessi, daranno esempi a non finire agli strateghi futuri su tutti gli errori possibili in campo bellico. Non mi ci soffermo, ci vorrebbero pagine. Da un punto di vista strettamente antropologico, tuttavia, mi paiono molto interessanti i modi in cui la vicenda irachena vine seguita dall’opinione pubblica occidentale, e soprattutto da quella italiana. Questa in generale è ignorantissima di cose religiose, che vengono a priori ritenute secondarie rispetto a ciò che veramente conta: politica, spettacolo, e soprattutto economia. Le vicende legate alle religioni vengono sempre liquidate come meri epifenomeni dei fenomeni reali che sono di natura economico-sociale. Vi è una dicotomia nel nostro pensare: vi è il reale, cioè l’economico ecc., e vi è l’irreale, ovvero le credenze, le religioni ecc. Quindi uno scontro religioso, ad esempio, è visto come maschera di un reale scontro economico. Queste sono appunto categorie occidentali, ma chi le usa per interpretare il mondo non si accorge che lo forza dentro schemi occidentali, ovvero lo occidentalizza, mediante una sorta di imperialismo del concetto.

Così la natura del fondamentalismo islamico resterà ancora a lungo impenetrabile alla nostra mente. Così fatti come la guerra civile algerina rimarranno fuori del nostro campo d’attenzione, la Cecenia un buco nero, gli yazidi assassinati in massa nel Kurdistan un nulla assoluto. Se li avessero uccisi i marines sarebbe stata un’altra cosa.

In realtà tutto deriva dalla nostra incapacità di cogliere il legame originario tra la religione, la violenza, e tutti gli altri fenomeni umani. L’unica teoria che può darne conto pienamente è oggi l’antropologia generativa.

Rovesciare il mondo. “Potrà questa bellezza rovesciare il mondo?” è il sottotitolo del litblog collettivo La poesia e lo spirito, cui ho collaborato per qualche mese. Mi ha sempre lasciato perplesso: l’ho inteso come una tipica forma del risentimento degli intellettuali per il loro essere lontani dal Centro, un tema su cui intendo continuare a ragionare. Se la bellezza avesse per sé il potere di rovesciare il mondo, allora l’Auriga di Delfi e il David di Michelangelo, tanto per fare due esempi, lo avrebbero rovesciato. Ma di che rovesciamento si tratta? Questo è il punto. E, per andare nel campo della poesia, che dire di quella di Anna Achmatova, che fu liquidata come “piccola borghese nevrotica”, che appunto non dava alcun contributo al rovesciamento della borghesia e delle forze controrivoluzionarie, e alla costruzione del mondo nuovo del socialismo realizzato? La bellezza delle sue poesie “intimiste” cosa rovesciava, se non la bruttezza e l’assenza di spirito?

You Tube. La Rete è il fenomeno più significativo degli ultimi anni. Esso fa emergere la natura più profonda dell’umano, la cui sostanza è lo scambio. E all’interno della Rete credo che l’attenzione antropologica debba essere diretta sulla possibilità che ogni utente dell’internet ha di comunicare a tutto il mondo visivamente, mettendo in rete filmati e video vari. Prodotti da sé o da altri.

Se ne è parlato, superficialmente per lo più, nei media italiani quando studenti hanno messo on line filmati che compromettevano i loro insegnanti e la scuola in generale. Io penso che l’internet sia un volano del Desiderio. Non ci dobbiamo stupire che sia nata nel luogo in cui il Mercato ha potere assoluto, ovvero negli USA. In essa confluiscono e si alimentano circolarmente tutti i desideri degli umani che vi possono accedere. Un desiderio che sappiamo essere fortissimo è quello sessuale: di qui il proliferare della pornografia, che costituisce una massa ingente nella Rete. Di qui, soprattutto, lo sforzo di tutti di collocarsi al Centro, o il più possibile vicini ad esso, sforzo che è ben coglibile, ad esempio, nel blogging. Perché il luogo che attira il Desiderio, e ne è la fonte, è il Centro. Il Centro ha origine nella scena dell’Origine, nel momento fatale del passaggio dall’animale all’uomo, quell’istante in cui il segnale animale è stato sostituito dal segno umano. In quel little bang il religioso, l’economico, l’estetico, e gli altri elementi fondamentali che ci costituiscono e ci appaiono ben distinti erano presenti in una unità che spiega, ad esempio, come l’economico e il religioso nella realtà fattuale non possano mai essere totalmente scissi. Per comprendere tutto questo, occorre abbandonare molte delle categorie che ci sono abituali, ed abbracciare il pensiero generativo.

You Tube mi piace molto. Anche perché, se non ci fosse, non avrei mai potuto vedere alcuni spezzoni di un film del 1939, in cui tre Dei della musica – Rubinstein, Heifetz e Piatigorsky – suonano insieme.

Del Centro Sacro. L’antropologia generativa (che per comodo chiamerò AG) si colloca entro un contesto evoluzionistico, e deriva vari elementi dalla paleontropologia e dalla primatologia. Ma essa esclude che il passaggio dall’animale all’umano possa essere avvenuto gradualmente: tra un segnale animale e un segno umano, per quanto possano essere simili, o apparentemente quasi identici, intercorre una differenza essenziale: il segnale appartiene al mondo mondano orizzontale, mentre il segno a quello trascendente verticale. E il segno può essere emesso anche in assenza della cosa o della situazione cui si riferisce, a differenza del segnale, che ad una cosa o ad una situazione presente è sempre collegato. Il momento del trapasso tra l’animale e l’umano viene posto dall’AG nella forma di una scena originaria, nella quale un gruppo di pre-umani si trasforma un gruppo di proto-umani mediante l’emissione del primo segno. Questo segno è chiamato dall’AG il nome-di-Dio. Non è difficile capire il perché. L’ipotesi è la seguente:

Un gruppo di pre-umani, dal comportamento simile a quello di una banda di babbuini o di bonobo, ma nel quale i meccanismi che regolano la competizione intraspecifica stanno saltando a causa di quell’aumento sproporzionato della mimesi che è il prerequisito dell’ominizzazione, circonda una preda che ha appena ucciso. L’attività collettiva di caccia è presupposta in analogia a quanto osservato dalla primatologia in specie di primati a noi affini, e come in questi concerne solo individui di sesso maschile. Dunque, un gruppo di pre-umani maschi, altamente mimetici e privi ormai del meccanismo del pecking order, circonda una preda uccisa. Tutti vorrebbero appropriarsene. Sta per scatenarsi il conflitto per il possesso dell’oggetto del desiderio, poiché non c’è più la gerarchia animale con i suoi maschi alfa, beta, ecc.. L’oggetto sta al centro del cerchio, e quindi si può chiamare oggetto centrale. Si può comprendere come la struttura centro-cerchio, fondamentale per ogni società umana, sia già costituita. La spinta verso l’oggetto  sta dunque per scatenare un conflitto di tutti contro tutti, un conflitto che, al di fuori del controllo di ogni meccanismo naturale, porterebbe all’annientamento del gruppo in quanto tale. Di fronte a questa terrificante evenienza, nel gruppo proto-umano viene emesso, in una situazione di tensione estrema, mentre tutti stanno protendendo le loro mani verso l’oggetto del desiderio, un segnale di rinuncia, di differimento del gesto di appropriazione. Tutti lo accolgono, e, almeno per un po’, si ritraggono. L’umanità inizia con un gesto di appropriazione interrotto.

L’esperienza è sconvolgente, e i proto-umani la riferiscono all’oggetto stesso del loro desiderio, di cui si volevano appropriare. Questo risulta essere dotato di un potere immenso: quello di interrompere il flusso degli appetiti e di porsi come intangibile. Esso è già, in questa origine dell’umano, il Centro Sacro, quindi l’origine dell’umano è insieme l’origine del divino. In una fase successiva, i proto-umani si spartiranno quell’oggetto tra loro, e lo consumeranno, ma faranno proprio in questo l’esperienza della durabilità del segno anche nella scomparsa dell’oggetto. L’oggetto potrà essere evocato anche nella sua assenza reale, ed esso si presenterà come “eterno” e sovrabbondante: il cibo è limitato e può essere scarso, ma il segno che lo rappresenta è infinitamente riproducibile e non si consuma. Dunque, in questo little bang dell’origine dell’umano sono compresenti la potenza (ciò che gli uomini attribuiscono al divino, pongono nel Centro e bramano per se stessi); la religione (come ciò che lega il gruppo mediante un'sperienza di beneficio salvifico ricevuto da un Essere, esperienza ripetibile mediante il rito); l’economia (come gestione delle risorse anzitutto alimentari); la giustizia (come equità nella distribuzione, come simmetria nei rapporti). Tutto ciò che è umano può essere riportato alla scena originaria. Una delle cose più interessanti dell’AG, è che essa è l’unica forma di pensiero laico che si faccia pienamente carico del religioso, mostrandone l’importanza fondamentale, senza per questo obbligare ad un’adesione soggettiva alla religione stessa, ma anche senza chiedere di rinunciarvi.

 

Omosessualità. Sono convinto che il comportamento omosessuale sia tanto più diffuso quanto più la società è pervasa di antagonismo tra i suoi membri, o, per usare una parola corrente, quanto più essa è competitiva. Il comportamento omosessuale ha infatti, nella mia visione, una base fortemente mimetica, sulla quale intendo sviluppare una riflessione. La società greca antica, in cui, come è noto, il comportamento omosessuale aveva la forma della pederastia, era una società i cui membri maschi liberi vivevano una dimensione di agonismo continuo, così come agonistici erano i rapporti tra le città dell’Ellade. Non è sorprendente quindi la diffusione in essa del comportamento omosessuale, così come non è sorprendente la sua diffusione e accettazione in Roma a seguito della sua ellenizzazione, e del suo passaggio da una società patriarcale solidaristica ad una imperiale-cosmopolita individualistico-competitiva.

Ma sulla opportunità e liceità dell’amore omosessuale fiorì nella Grecia un dibattito che vide pronunciamenti di filosofi come Platone, Aristotele e Plutarco. Vedi il passo delle Leggi (Libro VIII) in cui è trattata la questione.

 

 

Discutere? In questi ultimi giorni ho partecipato ad una discussione abbastanza complessa sul blog collettivo La Poesia e lo Spirito. Ad un certo punto ho scritto:

In effetti, qui mi trovo almeno in parte in accordo con Valter Binaghi: uno degli aspetti della cultura contemporanea che mi sembra il più grave è la tendenza alla riduzione della differenza tra l’uomo e l’animale. La cosa, nonostante l’apparente “scientificità” presenta degli aspetti abbastanza ingenui. Ad esempio, si insiste molto sul fatto che abbiamo il 99 per cento dei geni in comune col bonobo. La cosa stupefacente non è questa, ma il fatto che in quell’un per cento di differenza ci sia il dato ineliminabile che gli umani parlano, e i bonobo no, gli umani hanno la cultura e i bonobo vivono al livello della pura natura, ovvero totalmente al di fuori del regno trascendente dei segni, ecc. E forse non è quell’1 per cento che può spiegare la differenza qualitativa essenziale tra l’umano e l’animale. Bisogna ricercare l’origine dei segni (parole, ecc.) che ci permettono di comunicare “storie” e “teorie”, e non solo ciò che è esperienza immediatamente presente.

Finché la differenza non è culturale, non è significativa, perché dove non c’è cultura non c’è l’umano. Noi non siamo “un po’ innaturali”: porla in questo modo è impreciso. Siamo l’unica forma vivente che possiede il segno e la cultura.

La differenza si pone infatti sul piano del segno: che è solo degli umani. Celiando, si potrebbe dire che il riduzionismo che tenta di scorgere nel comportamento animale le caratteristiche di quello umano (solo meno sviluppate, ma è questione di grado), potrebbe vedere nelle termiti-soldato la possibilità dell’obiezione di coscienza…

 

A questo commento ha risposto una persona dal nick rivelatore Primusque obsistere contra, e la discussione che si è sviluppata richiede una riflessione, perché a mio avviso rivela i meccanismi mimetici che i blog possono innescare.

 

Primusque: Le ricerche più avanzate sul mondo animale mostrano che anche alcuni di loro hanno un mondo di segni, di simboli e rappresentazioni simboliche. Le ricerche sugli animali rivelano ogni giorno sorprese inaspettate. L’unica cosa certa è che ancora non leggono, non scrivono e non stampano libri.

 

Brotto: Primusque, ne riparliamo dopo che avrai esposto la differenza tra “segnale” e “segno”. Per quanto abbia letto di primati, delfini e altri animali non ho mai trovato nulla che si possa paragonare ad un segno umano, ma solo segnali che, per quanto numerosi e complessi, si riferiscono sempre all’ambiente mondano attuale in cui gli animali vivono, e mai al futuro o al passato. In altre parole, nessun animale emette segni che veicolando, ad esempio, una sua esperienza passata, raccontino ad un altro animale della sua specie una “storia”. Una scimmia non “parla di banane” se le banane non ci sono qui e ora. E se alcuni primati sono stati addestrati ad usare simboli (dall’uomo) si sono dimostrati anche assolutamente incapaci di trasmettere spontaneamente questa capacità ad altri della loro specie: in altre parole sono incapaci di cultura.

Resto convinto, poi, che vogliamo salvare l’umano dobbiamo mantenere - o restaurare là dove è stata recentemente compromessa - la differenza tra la vita animale e la vita umana.

 

Primusque: Mi dispiace per te ma sei male informato (e in buona compagnia).

Quando parlo di segni parlo di segni, di rappresentazione simbolica, di mente e linguaggio negli animali e non ho parlato di addestramento. Non nego che ci siano differenze tra uomo e animale ma bisogna vedere quali sono e non quali noi supponiamo.

Cmq per un’introduzione all’argomento posso indicarti: “Mente e Linguaggio negli animali, Introduzione alla zoosemiotica cognitiva", di Felice Cimatti, Editore Carocci.

Il futuro rivelerà molte sorprese. L’ultimo lavoro scientifico pubblicato sul mondo dei segni nel mondo animale è recentissimo e non è frutto di addestramenti e dimostra che alcuni animali hanno dentro il cervello rappresentazioni simboliche.

Ma ancora il livello di informazione su questi temi è debole e poco penetrante, c’è resistenza culturale a una nuova comprensione e relazione con un mondo carico di pregiudizi.

 

Brotto: Si dà il caso, amico mio, che io il libro di Cimatti lo abbia letto. E con una certa attenzione, perché, pur essendo io un filosofo, la primatologia e le neuroscienze sono tra i miei interessi. Ho letto anche di lui “La scimmia che si parla”. Non sono dunque male informato, semmai la mia interpretazione non coincide con la tua. Vale sempre l’avvertenza di partire dal considerare l’interlocutore un diversamente interpretante, non un ignorante che si fonda su pregiudizi.
Secondo me, Cimatti nega propriamente l’esistenza di un linguaggio degli animali, se per linguaggio si intende una realtà analoga a quella umana, cioè un linguaggio-pensiero. O meglio, evidenzia la natura radicalmente differente del linguaggio umano. Secondo Cimatti, il pensiero umano nasce dalla parola, e la nostra mente è una “mente parlante”, differente dalla “mente silenziosa” degli animali (scimmie comprese).

 

Primusque: Mi sembra invece che hai solo pregiudizi sugli animali (anche questa è un’interpretazione). In quanto ad ignorare ignoriamo tutti. E tu ignori il libro di Cimatti, deduco.

E raffreddati con una bella doccia, io ho solo detto poco informato, come mi hai confermato (e c’è poco da intepretare dato che la parola usata era proprio questa. Ammazza che suscettibilità! Per fortuna che per te è importante la differenza tra animale e uomo…!)

 

Brotto: “Raffreddati con una bella doccia” è un’espressione scortese che io non userei mai nei tuoi confronti. C’è della violenza in essa, e anche nell’insinuazione finale, ma forse non la vedi. Ripeto: interpretazioni diverse si possono confrontare, anche duramente, se c’è rispetto dell’altro. Dimmi, Primusque, in che ti ho mancato di rispetto. Io poi il libro di Cimatti non lo ignoro (ho detto che di Cimatti ne ho letti due), anzi ho molto apprezzato in esso l’affermazione del nesso tra parola e pensiero. Un tema fondamentale. Per me, comunque, la discussione finisce qui.

 

Ora, ad analizzare questo botta e risposta, si vede facilmente come l’intento primo di Primusque non sia tanto quello di comprendere le argomentazioni dell’altro (ad esempio non prende in considerazione neppure per un momento l’affermazione dell’interlocutore che sostiene di aver letto due libri dell’”auctoritas” invocata, anzi, insiste nella sua convinzione che l’interlocutore ignori completamente le tesi ivi sviluppate). Questo atteggiamento polemico apriori è diffusissimo anche in un blog come La Poesia e lo Spirito, nonostante la sua charta. Ed è il motivo per cui me ne sono andato, perché la facilità con cui si passa dalle idee alla persona è per me assolutamente inaccettabile. Ora vi depongo solo qualche commento, ma può darsi che presto anche questo mi risulti insostenibile: una cosa è la discussione, un’altra l’insolenza.

 

Tartaruga palustre. Emys orbicularis, la tartaruga palustre, un tempo molto diffusa nelle zone umide, nelle paludi e nei fossi dell’Italia del Nord. Da non confondersi con quelle tartarughine esotiche, i terrapin dalle orecchie rosse, che negli ultimi anni sono state abbondantemente acquistate da molti per essere tenute negli acquari, e spesso poi liberate negli stagni, nei laghetti, ecc.

Negli anni Cinquanta, a Venezia, a Rialto o presso il Ponte dell’Accademia, un vecchio con un grande mastello di ferro pieno di tartarughe palustri le vendeva per pochi soldi. La gente le comprava per i bambini. Ma pochi sapevano che si trattava di tartarughe palustri carnivore, e i più cercavano di alimentarle con pane e latte e frutta e insalata, e le tenevano all’asciutto, come tartarughe terrestri. Finivano per morire quasi tutte, disidratate e affamate. Andò così per la prima che ebbi. Ma poi, nel 1962, grazie all’enciclopedia sugli animali Natura viva, compresi tutto: ne comprai due, e le tenni in un catino di plastica con poche dita d’acqua, in cui si trovavano benissimo (così mi pareva). Le alimentavo con larve e lombrichi che andavo a raccogliere in giardino per loro, e con qualche pesciolino, di quelli che pescavo nel canale sotto casa mia. Vederle mangiare era bellissimo. Ma infine la loro condizione di prigioniere mi sembrò indegna del loro valore e della loro vitalità, e le liberai in campagna, lungo un fiume. Spero che abbiano avuto lunga vita felice.

Ma ripenso a quel vecchio che vendeva tartarughe. Doveva essere un ex pescatore, o un lupo di fiume. Certo era molto male in arnese, coi vestiti logori, e la barba di una settimana, e gli occhi rossi per l’alcol. Era un povero, insomma un vero povero, di quelli che allora erano abbastanza numerosi a Venezia, e si distinguevano per la miseria dei vestiti. E anche per le case. Ricordo delle vecchiette in abitazioni scure, in stanze al piano terra in cui non entrava mai il sole, e invece entrava l’acqua alta, d’autunno. Tutte avevano i capelli bianchi e i vestiti scuri. Ne ricordo una fra tutte, dentro la cui finestra sbirciavo sempre, tornando dalla scuola elementare, scolaro di quinta bravissimo in aritmetica, e che mi salutava, non so perché. Un giorno mi offrì un gattino, dicendomi che non aveva da dargli da mangiare, e lo portai a casa pieno di entusiasmo, e della speranza che me lo facessero tenere. Ma avevamo già avuto per un anno un altro animale, un cagnolino irrequieto che ne combinava di tutti i colori, che ci aveva fatto penare ed era morto di cimurro, e mia madre fu irremovibile. Non voleva saperne di animali liberi per la casa, e non amava i gatti. Costretto a riportare la bestiola alla vecchina, mi sentivo stringere il cuore. Disse che non importava, che non dovevo preoccuparmi, aveva una voce dolcissima e le passai il gattino attraverso la grata della finestra. La ricordo ancora andare verso l’angolo più buio della stanza, curva e vestita di nero.

 

Distruzione. Che distruzione e spettacolo siano intimamente connessi mi pare una cosa evidente. Più rifletto sulla spettacolarità, più mi convinco che essa è anzitutto visione della distruzione. Basta pensare a cosa distingue un film spettacolare da uno che non lo è. La distruzione può essere operata dalle forze della natura, e soprattutto dal fuoco, che esce dalla natura e si pone nelle nostre mani, e quindi può essere operata dagli uomini. Signoreggia il fuoco l’umano non-più-animale. Fuoco che ci attira irresistibilmente, come ha mostrato Canetti. Ci attira e ci terrorizza insieme, perché esso è tremendum et fascinans. Esso è dunque esattamente il Sacro, che è bello contemplare di lontano, evitando di esserne contagiati. Ed è anche la cifra della massa scatenata e furiosa. Il fuoco che avvolge Troia. Il falò attorno a cui uomini donne e bambini si stringono attoniti. Quello che i guerrieri scagliano sui nemici. Quello che avvolge il roveto in cui si manifesta l’Essere senza nome.

Tutte le culture umane sognano di avere il potere del fuoco, e di rovesciarlo sulle altre culture, quelle che esse odiano.

 

Il Futuro?. Tra il 1876 ed il 1976, più di 25.800.000 persone lasciano la penisola. Nel 1901 eravamo quasi 33 milioni, oggi siamo quasi 60. La penisola è piccola, il territorio in gran parte montagnoso, le pianure urbanizzabili poche, e tutte fortemente antropizzate. Piene di industrie, di capannoni, di strade, di case. Ci dicono che dovremmo crescere, fare più figli, per il bene del Sistema. Nessuno dice mai quante persone, ragionevolmente, dovrebbero vivere in Italia senza che tutto collassi.

Sciocchezze, le mie, pensiero apocalittico improduttivo. Il vero problema sono i provvedimenti contro i lavavetri.

Senso di precarietà, un territorio fuori controllo in tutti i sensi. Il brutto dilaga, il mostruoso estende il suo dominio. Avanzano le armate di Mordor. Vedo la costruzione del “passante di Mestre”: lavori colossali, la campagna sventrata e massacrata. Treviso pullula di Cinesi, Albanesi, Rom, Neri di varie etnie, Cingalesi, Marocchini. Clandestini molti. Come vivono? Ai media non interessa, se non c’è il morto ammazzato non indagano su nulla, se c’è cercano solo l’effetto, o il capro espiatorio, il mostro che diventa eroe. Le signore al mercato vanno ormai senza borsetta. La casa di mia suocera visitata dai ladri. Al piano terra della mia faccio mettere grosse sbarre di ferro alle finestre. Colpi di pistola non lontano: un marocchino ucciso, in bocca una bustina di coca. Tanti figli di immigrati: asili nido e scuole dell’infanzia invece di aumentare le classi le diminuiscono. I furti non li denuncia più nessuno, tanto non serve a niente. La Lega vincerà ancora le elezioni comunali, qui a Treviso, la Sinistra moderata avrà suoi nuovi idoli Giuliani e Sarkozy.

Consoliamoci con The Future, di Leonard Cohen.

 

Lady Diana. I media ci hanno bombardato pesantemente con le immagini e i racconti delle celebrazioni (come altro chiamarle?) del Decennale della morte di Lady Diana. La sua funzione di vittima girardiana, prima aborrita e insultata, poi divinizzata e in grado di unire la comunità, è assolutamente evidente. I media perseguitano, i media divinizzano: il Sacro immanente si è concentrato nei media, che rivelano insieme la loro capacità di porre al Centro e di sacrificare, in un circuito ininterrotto.

Con i fatti di cronaca nera succede una cosa analoga. Il Sacro immanente è richiamato dal sangue delle vittime, e non potendo inserirle nella sua orbita prima della loro morte (come era avvenuto per Diana), cerca altre figure intorno al crimine, figure viventi. E siccome tra Spettacolo e Informazione oggi c’è totale identificazione, come non comprendere le due povere gemelle, stritolate dal meccanismo, già pronte a qualsiasi cosa pur di raggiungere il Centro? Il Centro delle televisioni, tutte eguali, tutte devote ad un unico culto, il Centro dove c’è la vera Vita, il vero Essere.

Lady Diana non è affatto la Principessa del Popolo come si dice. E’ la Principessa delle Masse televisive e dei Media. In questo senso, è una figura eccezionale, e la vecchia Inghilterra non cessa di sorprendere per capacità mitopoietica. Tra i Beatles e Lady D c’è evidente continuità. Il loro ruolo ne fa delle figure anticristiche.

 

La letteratura non salva. I libri sono pericolosi. Nell’era dei media scatenati e del trionfo del video ci si è dimenticati di questa verità. Le anime belle pensano che lettura e scrittura siano attività salvifiche. Non lo sono affatto. Lettura e scrittura dovrebbero essere maneggiate con estrema attenzione, con una cura attentissima. Questo è oggi impossibile.

Il più grande discorso sul pericolo rappresentato dalla letteratura è quello che Dante svolge nel V dell’Inferno. Travolte dalla bufera infernale, egli vede migliaia di anime di eroi ed eroine della letteratura di tutti i tempi, e ne è sconvolto, perché è un letterato, e si accorge che la letteratura può dannare. Poi, il racconto di Francesca, che mostra come la sua dannazione e quella di Paolo siano state determinate da una imitazione, mediata dalla lettura di un libro, del modello di Lancillotto e Ginevra, porta Dante ad un tale punto di smarrimento da fargli perdere i sensi.

La letteratura mette in azione forze mimetiche potentissime, questa è la sua realtà più profonda. I suoi derivati moderni, cinema e televisione, lo fanno in modo massivo, aiutati dalla forza dell’immagine. Non è lecito venerare libri scritti da umani. Le anime belle devono ricordare che anche Mein Kampf è un libro. Noi vediamo solo i pochi intellettuali e artisti fuggiti dalla Germania hitleriana, ma artisti e maestri e professori a migliaia hanno sostenuto il nazismo.

La letteratura non ha mai reso migliore un uomo. un lettore né uno scrittore.

Lo si è sempre saputo: Tolstoj vede l’umano realizzato nel contadino analfabeta Platon Karataev. Socrate e Gesù parlavano, non scrivevano.

Eppure ci sono libri in cui si trova saggezza. Ma quella saggezza non viene dalla letteratura. Se così fosse, troveremmo gli uomini più saggi tra i grandi lettori, tra gli studiosi di letteratura, tra gli scrittori e i poeti. Ma guardateli: sono una massa di meschini, di invidiosi, di risentiti. E con tutti coloro che scrivono versi e pensano di essere poeti, che in Italia sono centinaia di migliaia, dovremmo avere centinaia di migliaia di uomini e donne buoni. Per capire come stanno le cose basta leggere per qualche giorno il blog La Poesia e lo Spirito, antropologicamente interessantissimo.

 

Carceri? No grazie. Il 21 agosto scorso a Gorgo al Monticano vicino a Treviso due coniugi, che facevano i custodi di una villa, sono stati massacrati nella loro camera da letto con una brutalità indescrivibile. Gli assassini sono stati presi. Stranieri. Solito frullare dei media, chiaramente meno attizzati di quanto sarebbero stati se le vittime fossero state più giovani e belle. Su questo non aggiungo altro.

Ma quanti reati restano impuniti in Italia? I furti quasi tutti, tanto che chi li subisce spesso non li denuncia nemmeno, tanto sa che non serve. Una domanda, allora: se il 50 per cento dei colpevoli fosse arrestato e condannato, dove li metterebbero? Se l’Italia ha carceri in grado di ospitare “decentemente” poco più di trentamila persone (per un Paese di quasi 60 milioni è una follia), dobbiamo attenderci presto altre misure del tipo del recente indulto (di cui si era giovato uno dei tre valorosi massacratori di Gorgo). Ma gli indulti si sono susseguiti nei decenni scorsi, i Governi non amano costruire carceri moderne e più umane. Preferiscono che le cose restino così. Evidentemente.

 

Il negozietto. Negli anni della mia infanzia, quando abitavo a San Giacomo dall’Orio a Venezia, mi capitava spesso di passare in una calle stretta, a metà della quale si trovava un negozio che vendeva uccelli. Solo uccelletti canori, di tutte le specie italiane, quelle che ora sono protette e non si possono più tenere in gabbia, e inoltre canarini e pappagallini ondulati, o cocorite come si chiamavano allora. Già all’entrata della calle, che era buia, una di quelle calli veneziane strette dove il sole non arriva mai, si avvertivano la puzza e il frastuono.

Il cinguettio era fortissimo, perché nelle gabbie ammassate a decine nel piccolo vano stavano centinaia di uccelletti. Non sono mai entrato in quel negozio, ma infinite volte mi sono fermato a contemplarne la vetrina, e ad ammirare gli uccelli. Lì è cominciata la mia carriera di osservatore delle specie alate. Il negozio si riforniva dai roccoli, di cui a quei tempi sulle Prealpi ve n’erano molti. Così ho visto cardellini, verdoni, verzellini, ortolani, fringuelli, peppole, zigoli, lucherini, e anche frosoni e beccofrusoni. Li ho ritrovati tutti in natura, e li ritrovo ancora.

 

Il nostro Stato. Il nostro Stato è questo: Cristoforo Piancone, ex brigatista rosso condannato all’ergastolo per concorso in sei omicidi e due tentati omicidi, gode della semilibertà, e, visto che non si è mai pentito della militanza comunista combattente e dei suoi crimini, riceve l’incarico di bidello in una scuola di Torino: giustamente, perché figure rigorose e coerenti come la sua debbono stare a contatto coi giovani. Compie una rapina a mano armata, nella quale solo per caso non uccide ancora. Perché preoccuparsene tanto? I giudici “non hanno fatto altro che applicare la legge”. Come sempre. Amen: la redenzione lo Stato italiano non la nega a nessuno, anche a chi non ne vuole sapere.

 

Ordine maschile. La religione monoteistica come fatto primariamente maschile. Molti pensieri germinano contemplando un momento musicale-religioso di una tariqa islamica. La primarietà degli uomini rispetto alle donne, dell’elemento maschile che è al fondamento della cultura e della religione. L’elemento femminile c’è, ma viene dopo. Non può essere casuale che Islam, Ebraismo e Cristianesimo abbiano sempre distinto i ruoli, e assegnato il protagonismo ai maschi. Fa parte dell’essenza, e quando l’essenza è intaccata il tutto crolla.

Così, anche in una situazione che è di fusione estatica dei molti in unità, nella pratica del Dhikr collettivo, debbono essere salvate le differenze, che la religione, la quale lega insieme, proprio nel suo legare insieme istituisce e salvaguarda.

Quando le differenze crollano, e il femminile dilaga, come è oggi in vari ambiti della società occidentale avanzata, e massimamente nella scuola italiana, il caos progredisce, e con esso la violenza.

 

Marco Ahmetovic. Il nostro Stato è così. Le leggi sono chiare e severe, e i cittadini hanno fiducia nella giustizia, che è rapida ed efficiente.

Marco Ahmetovic. Rom ventiduenne. Rapinatore a mano armata nel 2006 e libero di girare. Frequentemente ubriaco, come capita spesso ai maschi del suo accampamento, guida il suo furgone come un pazzo. Uccide quattro giovani. Condannato in primo grado a sei anni, da trascorrere in un residence sul mare.

I giudici sono saggi: conoscono i Rom e la loro cultura nomade, e quindi sono sicuri che il giovanotto resterà tranquillamente in zona per i prossimi sei anni. Beata semplicità! O cos’altro?

Le accuse di razzismo sono pronte. Se uno sostiene che quei campi nomadi in cui abbondano le mercedes nuove di zecca sono popolati di rapinatori ecc., passa per fascista.

Ma la verità sta davanti agli occhi di tutti. La cultura nomade dei Rom non si può integrare finché vuol rimanere cultura nomade in un’Europa in cui non c’è più posto per fabbri e maniscalchi itineranti e altre pittoresche figure. Il buonismo cialtrone prepara il terreno per reazioni bieche e violente. I Rom sono un problema. Va affrontato con umanità, apertura culturale, coerenza e fermezza, o saranno guai.

 

Paradosso Che Guevara. Quarant’anni dall’uccisione di Che Guevara. Non l’ho mai amato, il leader comunista duro e spietato, che il Mercato del Risentimento mondiale ha reso icona di immaginarie libertà, catalizzatore di pulsioni giovanili e dei sensi di colpa dell’Occidente. Il fucilatore stendardo dei no-global che rifiutano l’uso delle armi. Romanticismo da strapazzo, incapacità di fissare il vero, voglia di favole e illusioni.

Potrei rispettare (ma contemporaneamente combattere) chi fosse in grado di ripetere il suo famoso ordine  “prendete un fucile e sparate alla testa di ogni imperialista che abbia più di quindici anni” ed eseguirlo. Ma i pacifisti con la maglietta del Che mi danno il voltastomaco.

Il mio stomaco dunque è diverso da quello dei Sinistri. Loro non digeriscono i Pinochet (e fin qui siamo simili: neanch’io), ma il trio Castro-Chavez- Maradona li inebria, e riescono ad assimilarlo senza problemi, insieme ai Gay-pride e alle manifestazioni per i diritti umani. Biologie differenti, suppongo. Loro ordinano su E-bay una delle tante Che-magliette, e sono felici.

 

Del cazzeggio. Non è da molto che frequento la blogosfera: nemmeno due anni. Ho tenuto un blog su Libero, che ho chiuso da poco; ho partecipato per qualche mese a La Poesia e lo Spirito; infine ho aperto questo. Mi sono fatto alcune idee. La prima, che ho già formulato altrove, è che il blog è una manifestazione dell’individualismo occidentale al suo apice (dove individualismo non è assunto negativamente). Questo individualismo è massimamente contagioso, e ha la tendenza ad universalizzarsi. Come molte realtà umane, esso è paradossale, perché alla sua base vi è una pretesa di unicità, di valore supremo dell’io nel suo essere particolare e distinto dagli altri, mentre proprio questa unicità mimeticamente è assunta da un numero crescente, e tende alla totalità. Il paradosso è anche più evidente nel fatto che ogni blog in quanto tale richiede l’attenzione degli altri, e l’attenzione può essere richiamata solo da quel che emerge, che si distingue, che, in una qualche misura, si pone come superiore. O, per usare un modo a me caro, ciascuno si pone come Centro. Siamo, nella nostra società tecnotronica, agli antipodi della società faraonica. Il Faraone egizio in quanto espressione immediata del dio, incarna il Centro Sacro, e tutti i sudditi sono nulla di fronte a lui, sono resi uguali tra loro dal loro essere nulla. Noi moderni, di contro, costituiamo ciascuno di noi come Centro, e facciamo di conseguenza dello scambio (di idee, beni, affetti, emozioni) la nostra religione. Si tratta di un’estrema secolarizzazione del Cristianesimo, che ha questo di particolare: la rimozione della necessità della vittima, necessità che ogni religione presenta. In mancanza di un processo di vittimizzazione dichiarato ed ufficiale, le vittime proliferano, per il semplice fatto che una società di eguali, ciascuno dei quali aspira ad essere Centro, è una società con una carica di risentimento fortissima, che la divora dall’interno.

Cosa abbia questo a che fare col cazzeggio è presto detto. Chiunque navighi per un po’ nella blogosfera si accorge che la maggior parte dei blogger non ha, apparentemente, degli intenti seri (come il sottoscritto, individuo quanto mai palloso e spocchioso), ma è dedita allo scherzo, alla comunicazione leggera, alla condivisione e alla mozione di affetti. Si accorge, altresì, che la maggior parte dei blogger è fortemente risentita. Ciò che dalla stragrande maggioranza dei blog è assente, è la ragione. Nei post dei blog e soprattutto nei commenti ciò che manca quasi sempre, con rare eccezioni, è il ragionamento. C’è sdegno, invettiva, scandalo (ovviamente), ira, frustrazione. Si tratta di una circolazione mimetica alla quale non si riesce a sottrarsi. Se non con quella modalità del discorso che ha oggi in Italia il nome di cazzeggio. L’origine della parola è chiaro. Rimanda alle parti basse. Infatti si tratta di una realtà bassa, che deriva dalla frustrazione: è un rifugio estremo dell’ anima bella che non trova nella realtà il riconoscimento al quale sente (spesso anche in modo non del tutto consapevole) di avere diritto. Il cazzeggio consente di credere di sottrarsi alla mimesi rivalitaria che dilaga nei blog (in particolare in quelli collettivi) mediante la svalutazione delle questioni, o degli avversari. In sostanza, nei blog o si litiga, o si cazzeggiaE anche ci si maschera - col nick. Ma se il nick è un mascheramento, occorre sapere che la maschera, fin nelle sue forme più arcaiche, è connessa al mondo dei morti. In particolare dei morti di violenza. La natura fantasmatica dei nick e degli avatar (termine anch’esso rivelatore) giustamente suscita il cazzeggio, Il cazzeggio infatti ha anzitutto natura apotropaica, e serve a scongiurare ciò che tutti temono, e di cui non vogliono parlare.

Il filosofo non cazzeggia. Il filosofo non s’incazza. Il filosofo ragiona di ciò di cui non si vuole parlare. Il filosofo non entra nella spirale mimetica, o ne esce subito.

 

Dei Romeni. Quel che si vede e si sente e si legge in questi giorni in Italia è esemplare. Rivela il carattere nazionale (nostro, non romeno) e quel che già molti sanno dei meccanismi del capro espiatorio.

Il nostro carattere nazionale è, purtroppo, un carattere fragile. Ci agitiamo facilmente, scompostamente, oscillando tra lassismo, buonismo menefreghista e indifferentismo morale da un lato, e sdegno furibondo e invocazione di misure draconiane dall’altro. Ci entusiasmiamo per uno stuzzicadenti e ci deprimiamo per una festuca. Quanto più debole andrà facendosi la nostra identità di nazione, tanto più violenti saranno i conati di violenza. E la scuola, riformata a partire dai primi anni Sessanta dello scorso secolo in senso sempre più antinazionale e antistorico (si pensi solo al macello dell’insegnamento della storia nella scuola primaria), ha contribuito non poco all’annebbiamento del senso dell’italianità. Poiché la classe politico-culturale ha visto nell’italianità il fascismo, l’ha in ogni modo depressa. Ci ritroviamo con giovani generazioni che ignorano tutto non solo del Risorgimento, ma anche della Resistenza, e ne hanno solo idee vaghissime. L’avete voluta, eccola qua: l’idra del razzismo e della xenofobia non può essere deprecata e basta, bisogna che non se ne facciano nascere i presupposti. Questi ci sono, ed ora tutti cavalcheranno una tigre che nessuno riconosce per quel che veramente è. I giornalisti che blaterano alla tv sono quasi tutti figli della scuola di Tristano Codignola e successori. Blaterano in pessimo italiano banalità scontate e diffondono ignoranza. Basta il caso presente. Si interroghi la gente sulla differenza tra rom e romeno e si veda. Ma da tempo notavo come si parlasse di romeni sempre. “Arrestata banda di romeni, romeno fa questo, romeno fa quello”. Ed erano rom con passaporto romeno. Per evitare l’accusa di razzismo si generava confusione. Certo c’è la malavita romena che non è rom, ma i criminali che agiscono in Italia sono stati fino a questo momento prevalentemente di etnia rom. E i Rom sono un problema anzitutto in Romania, e lo saranno ovunque fino a quando non saranno stati convinti che non si può vivere da nomadi nell’Europa del 2000. Come non si può vivere di caccia e pesca (purtroppo). È un problema di educazione anzitutto. Ma l’educazione richiede preveggenza, e questa da noi è merce rara. Le ruspe hanno effetto elettorale, e la criminalità va stroncata abbattendo le baraccopoli e disperdendo i baraccati sul territorio, e “il Veltro verrà che la farà morir con doglia”.

Un’etnia ben definita e minoritaria è ideale per innescare il processo dell’espulsione, di cui ogni comunità umana ha bisogno. Perché l’umano da sempre espelle. Assimilazione ed espulsione sono la diastole e la sistole delle società umane. Le società si definiscono mediante i limiti che segnano la differenza tra ciò che appartiene alla società e ciò che non le appartiene. Altrimenti le società si ridurrebbero ad una sola (che in fondo è il senso del mondialismo o globalizzazione). La lingua che si parla in una società è il primo strumento di limitazione-espulsione. Sei reso estraneo dalla lingua, entri nel gruppo parlandola. E poi i costumi, le pratiche e usanze. Ma tutte le comunità espellono e assimilano (talvolta con violenza e imperialismo). Anche i Rom espellono chi è diverso da loro. Questo è un universale umano, esattamente come il capro espiatorio.

La Romania è stata uno dei Paesi del Socialismo Reale, e ben mi ricordo il padiglione romeno (e bulgaro e cecoslovacco, ecc.) ai Festival dell’Unità, con le foto delle grandi conquiste del popolo romeno, sanità efficiente, scuola meravigliosa, lavoratori felici e sorridenti. Chissà se il piccolo Veltro ci andava, a quei festival là, o già pensava solo a Kennedy e all’America. Caduta la dittatura comunista del compagno Ceausescu, è emersa tutta la miseria materiale e spirituale di un popolo cui avevano tagliato le radici. E ne è scaturito un individualismo scatenato. Ho trovato un sito interessante per chi voglia studiare i fenomeni in corso: http://www.buongiorno-romania.ro/ . C’è da restare perplessi, e da ragionare, molto.

 

Dell'anima. Che cosa sia l’anima non lo sa nessuno. Spirito e anima non sono nozioni scientifiche. Secondo i positivisti di ogni epoca sono balle. Anche a livello del puramente psichico, del resto, la scienza non incontra se stessa, ma il mito, e ne nascono mostruosità come la psicoanalisi.

L’anima e lo spirito esistono, ma non sono soggetti a conoscenza razionale di tipo scientifico, e anche la filosofia su queste realtà balbetta. Anima e spirito possono essere sperimentati, colti, intuiti, visti (con lo sguardo interno). C’è chi vede e chi non vede. Io lo spirito lo vedo, ad esempio, nei vecchi direttori d’orchestra, che le forze e la salute hanno abbandonato, e che alle soglie della morte fanno scaturire la potenza metafisica di una sinfonia, come qui Lovro von Matačić (1899-1985) nel 1984, decaduto nel corpo, cresciuto in ciò che non è corpo.

E questa pagina di Bruckner si addice all’argomento.

 

L'omicidio di Perugia e la scena originaria. E se l’Oggetto Centrale, che l’antropologia generativa situa appunto al centro del cerchio dei cacciatori proto-umani come ciò su cui si polarizza la brama di tutti i membri del gruppo, innescando il processo tensivo che porta all’emissione del primo segno e alla conseguente nascita dell’umano, fosse non una preda ma una femmina della stessa specie, ovvero una donna?

Poiché mi sembra di poter dire che tra gli animali  il pecking order viene minacciato solitamente più dall’acuirsi della competizione per il sesso che da quella per il cibo, forse la scena dell’origine dovrebbe essere spostata dal versante della caccia-appropriazione della carne a quella del sesso-appropriazione della femmina. La struttura fondamentale della originary scene rimarrebbe intatta, col segno come mediatore del differimento della violenza, ma da un lato si spiegherebbe la violenza stessa nel suo rimanere sempre latente all’interno della sessualità umana, dall’altro si ingloberebbe il femminile all’interno dell’origine stessa. Forse, ancor meglio sarebbe pensare a due scene originarie che confluiscono in una, così che sessualità, predazione, violenza e differimento della stessa, ed emissione del segno siano tutti nel little bang della  nascita dell’umano. Se è come penso, la violenza è di necessità e non per accidente eternamente latente nella sessualità, che non a caso nelle sue manifestazioni culturali è l’ambito più mimetico che ci sia. E dunque è fatale che essa esploda ogni tanto in forme anche tragiche, come è il caso di Perugia. Che deve affliggerci, ma non stupirci. Devo riflettere su questa idea. La sottoporrò allo stesso Gans e ad Adam Katz, e sentirò che ne dicono.

 

Poiane. Negli anni della mia infanzia, non vedevo molti uccelli. Stavo a Venezia, tranne i mesi di luglio e agosto, che passavo in montagna. In quei due mesi sfogavo tutta la mia fame di natura e di animali. Durante gli anni delle elementari ho collezionato farfalle e coleotteri, d’estate, e sfogliato innumerevoli volte i pochi libri sugli animali che avevo in casa.

Mi affascinavano in particolare gli uccelli rapaci. Ma se ne vedevano pochissimi (erano considerati nocivi, e si cercava di eliminarli in tutti i modi). Gli unici che vedevo spesso erano le poiane, che veleggiavano alte nel cielo, e facevano larghi giri in alto, dove le distinguevo appena. Mi parevano piccole aquile. Era difficilissimo vederle da vicino (cosa che oggi, andando a caccia, mi accade invece quasi ogni giorno). Il loro verso miagolante ha qualcosa di selvaggio. Sono lente nel volo, e spesso capita di vederle molestate da altri uccelli, che cercano di allontanarle: cornacchie, ma addirittura storni e perfino rondini. Loro sopportano, sembrano prenderla con filosofia. 

 

Su Carlo Giuliani. Carlo Giuliani non è morto come un manifestante pacifico massacrato dalla polizia. Ce ne sono stati altri, inermi, che le forze dell’ordine hanno picchiato selvaggiamente, a Genova in quei giorni maledetti. Ma lui no, lui è andato alla battaglia, vestito da guerrigliero, mascherato come ben si vede dalla foto del suo corpo esanime. Come le migliaia di altri “ragazzi” che al G8 avevano dichiarato che avrebbero infranto le barriere della zona rossa, presidiata dalle forze dello Stato in armi.

Giuliani è andato alla battaglia contro gli “assassini”, contro coloro che i cortei della sua gente chiama così. E gli “assassini”, si sa uccidono, soprattutto se vengono attaccati. Giuliani certo non voleva morire, ma sapeva di poter morire, nel momento in cui con altri assaliva una camionetta di “assassini” armati. A dire il vero, io mi stupisco che a Genova non sia morto solo lui.

 

Ultras e violenza. L’origine dell’umano è violenta. Ma la violenza umana è tale perché è rappresentata, perché avviene entro la scena della rappresentazione, ed è rappresentata come onnidistruttiva. È evidente che può essere rappresentata, quindi, solo in quanto differita. Ma per differirla bisogna averne una qualche rappresentazione mentale. La rappresentazione nasce nella scena originaria dell’ominizzazione, in cui proprio la minaccia di una violenza onnidistruttiva provoca l’emissione del primo segno, rendendo possibile la rappresentazione stessa. Il passaggio dal non umano all’umano non può essere rappresentato perché la rappresentazione nasce proprio in esso. Ci si muove qui dunque nel paradosso. Il carattere paradossale della violenza rimane, ed è il carattere paradossale dell’umano. Non comprenderne la natura è rimanerne prigionieri. Le anime belle sognano un mondo del tutto liberato dalla violenza, ma L’Apocalisse di S. Giovanni, che ne sa molto di più delle anime belle, mostra la violenza dilagante anche alla fine dei tempi.

Il terrore umano della violenza non può sussistere se essa non è stata conosciuta. Quello che i proto-umani sapevano della violenza prima della scena originaria era saputo in forma non-rappresentativa, quindi non umana. Ciò che fa nascere conserva una forza generativa, e attrae come potenza rigenerante, e quindi continuamente ciò che genera la rappresentazione si ri-presenta. Una separazione totale dalla violenza per la nostra specie è impossibile, perché la specie non si può separare dalla sua origine. E questo spiega anche la natura iper-rappresentativa dei gruppi violenti, come gli ultras e le formazioni politiche estremiste, i quali vivono sempre in un universo contesto di simboli: bandiere, gagliardetti, striscioni, magliette, svastiche, ecc. ecc.

Gli ultras e gli estremisti sono, in un certo senso, iper-umani. In loro il bisogno di ricreare la scena originaria è molto più forte rispetto al resto della popolazione. Ma la scena originaria non può essere riattualizzata se non nella forma del rito. Occorre dunque che in forme rituali si ripeta il parossismo che porta all’esplosione, e che essa non sia totale, ma parziale, così che vi siano poche vittime, e possibilmente una sola. Lo sport si presta bene a questa ritualizzazione, e se questa per un qualche motivo non è in grado di differire la violenza totale assorbendola nell’aspetto contemplativo dello scontro altrui, e scaricandola in esso, si determinerà uno stato di tensione estrema, con l’inevitabile conclusione.

 

Il mostro e il re. Beowulf è un film molto interessante dal punto di vista antropologico. L’antica storia rivisitata dalla macchina spettacolare di Robert Zemeckis è una rivelazione del rapporto che lega il mostruoso col sacro, la violenza e la regalità.

L’eroe Beowulf uccide il mostro Grendel che opprime il reame di Hrothgar, e questi muore, e morendo gli cede la corona. Beowulf la tiene per anni, ma ad un certo punto dalla terra esce un nuovo mostro, un drago che egli uccide, morendo insieme con lui. La regalità passa quindi al suo fido luogotenente, e si capisce che la catena non avrà mai fine. Poiché è evidente che il primo mostro è stato generato dal re Hrothgar, il secondo da Beowulf, il terzo sarà generato dal terzo re, e così via. I mostri sono figli dei re, dei loro accoppiamenti demoniaci, metafora della loro brama di autoaffermazione. La tesi del film è dunque che è la regalità ad essere in sé mostruosa, cioè il potere ad essere intimamente, essenzialmente violento. I veri mostri non sono i mostri, sono i re

Ora, noi sappiamo che la mostruosità è inseparabile dalla violenza, esattamente come il sacro. L’eroe è un uomo violento, un uccisore, anzitutto un uccisore di mostri. Ma i mostri sono il prodotto dell’immaginario dilatato dalla mimesi. I mostri sono doppi mimetici. E questo nel film è del tutto evidente. Quello che invece vi è celato è l’origine sociale della mimesi. Sembra che la mostruosità sia un parto individuale del re di turno. Ma essa invece è un parto collettivo. Eroi e re sono insieme figure violente e sacrificali, esattamente come i mostri, ma lo sono soltanto perché esiste una mimesi collettiva. Questa nel film non è adeguatamente rappresentata, se non forse nella scena iniziale del banchetto-orgia. Se lo fosse stata maggiormente, questo film sarebbe stato un capolavoro di penetrazione antropologica.

 

Rondini di mare. Nella mia infanzia veneziana, affamato com’ero di vita animale da osservare, non avevo molta materia a disposizione oltre ai pesci: noiosi piccioni, i soliti gabbiani (comuni e reali), passeri, qualche raro merlo nei giardini. Poco altro. Per mia fortuna, in estate e autunno, nel bacino di S. Marco, dall’isola di S. Elena, dove ogni tanto mi portavano a giocare (e raramente a pescare), potevo assistere ai voli delle rondini di mare, le sterne.

Al loro confronto i gabbiani apparivano goffi e impacciati. Loro sfrecciavano nell’aria compiendo acrobazie, e si tuffavano fulminee a ghermire qualche preda. Erano cacciatrici, e non spazzini come i gabbiani, e questo me le rendeva simpatiche. Le consideravo gente fiera e indomabile. Erano pirati, pronti a lanciarsi nelle reti a bilancia dei pescatori quando venivano alzate, e qualche argenteo pesciolino guizzante preso nelle maglie attirava la loro brama insaziabile. Le consideravo creature eroiche.

 

Omofobia. Per non dare l’impressione che si tratti di un decreto “fascista”, e per accontentare Rifondazione, il Governo immette nel Decreto Sicurezza un articolo che colpisce tutte le discriminazioni, e in particolare l’omofobia. Una cosa molto all’italiana, ma pericolosa, per il fatto che si tratta di un decreto che colpisce penalmente dei reati, e perché il concetto di omofobia è vago.

Tutto quello che va nel senso della lotta contro la tendenza essenziale dell’uomo alla creazione di capri espiatori mi va benissimo, e l’approvo, ma sovente capita che si sostituisca un capro espiatorio con un altro capro espiatorio. “Dagli all’omofobo” equivale ad un “linciamo i linciatori”! Qui è assolutamente necessario che si pongano dei paletti tra ciò che è violenza o prossimo ad essa, e ciò che è opinione. Ci troviamo in una situazione, infatti, assolutamente confusa. Da un lato potenti sindaci di sinistra che smantellano accampamenti Rom, e invocano poteri di polizia (contro gli immigrati anzitutto), dall’altro il Governo di sinistra che mette nel calderone l’omofobia. Ma perché non la Romfobia? Le categorie di umani non ritenuti tali, cioè veramente umani, dai nazisti erano quelle degli Ebrei, degli Zingari e degli omosessuali, per il pensiero vittimario attuale non-umani sono i nazisti o coloro che vi sono assimilabili. Qui c’è una dialettica paradossale, cioè tipicamente umana.

Sul fatto che una società debba considerare tutti i comportamenti e le tendenze sessuali come equivalenti nutro una profonda perplessità. Infatti, sulla sopravvivenza stessa della società gli orientamenti sessuali incidono ben diversamente. Pensiamo a che cosa accadrebbe se l’orientamento omosessuale fosse proprio della totalità di noi: la società stessa si estinguerebbe. Dunque esso deve rimanere minoritario, non può aspirare ad essere di tutti. Si possono considerare allora equivalenti due modi di essere dei quali l’uno se fosse di tutti porterebbe all’estinzione e l’altro invece alla conservazione e alla crescita? Ciò detto, debbo allora forse annoverarmi tra gli omofobi

 

Satira. Il banal-pensiero di sinistra (e non solo di sinistra) vorrebbe convincerci del fatto che la satira sia di per sé una pura espressione più o meno artistica di natura non violenta. La satira sarebbe anche laica, ed essenzialmente estranea al sacro, e ad esso contraria. Falso. La satira è sempre stata molto prossima al sacro, e volentieri si è accompagnata alla violenza.

Le immagini e le rappresentazioni satiriche sono spesso violente, in quanto tendono a disumanizzare l’avversario, trasformandolo in animale, in essere ripugnante, deformandolo, proiettando su di lui un risentimento che lo trasforma in capro espiatorio e oggetto da espellere. La satira razzista sugli Ebrei è ben conosciuta.

La satira è intimamente contraria al dialogo e all’apertura all’altro. La satira è violenta ed evoca violenza (la vicenda delle vignette sul Profeta è eloquente). Il fatto che i nostrani satiri se la prendano spesso col religioso, e in particolare col papa, e solo col religioso inoffensivo qual è il cattolico (mai con quello aggressivo) dimostra poi non solo la loro codardia, ma anche la loro brama di sacrificio a buon mercato.

 

Apocalypto. Sul film di Mel Gibson Apocalypto si è scritto molto. Ci sono state molte polemiche. Le più interessanti sono quelle che riguardano il modo in cui nel film è descritta la civiltà Maya, che appare fondata su riti sanguinosi, una civiltà violenta. Gibson è stato accusato di non aver capito nulla dei Maya, della loro alta spiritualità. In effetti, i Maya appaiono i villains della storia, i cattivi. Ma i buoni non sono i bianchi occidentali, come nel western classico nordamericano, bensì i membri di una comunità tribale di cacciatori della foresta. Il film inizia con un gruppo di cacciatori della foresta mesoamericana impegnati in una caccia al tapiro. L’animale viene abbattuto e squartato (scena su cui torneremo), ci sono scherzi tra gli uomini, ma all’improvviso compare tra gli alberi un gruppo di estranei: sono una tribù in fuga dalle sue terre devastate (dai conquistadores? no, dai Maya) e in cerca di una nuova terra  in cui stabilirsi. Sinistro presagio. I cacciatori rientrano al villaggio, la vita che conducono è dipinta come serena e umana. Prima di andare a dormire festeggiano, danzano e raccontano storie. Ma mentre dormono arriva un war party maya che fa prigionieri uomini e donne, violenta, uccide e devasta. Anche il protagonista Zampa di giaguaro viene catturato. Prima di essere preso, riesce a calare moglie incinta e figlioletto in una voragine, dove i nemici non li trovano. Dopo alcune peripezie i prigionieri arrivano nella città maya, affollata e sovrappopolata, in preda alla carestia e alla pestilenza. Le prigioniere sono vendute come schiave, i maschi, dipinti di azzurro, sono destinati al sacrificio a Kukulkan. Alcuni sono già stati uccisi, quando una provvidenziale eclissi interrompe il rito. I sopravvissuti vengono però utilizzati per una sorta di tiro al bersaglio umano. Zampa di giaguaro riesce a sfuggire a lance e pietre, e pur ferito guadagna la giungla. L’ultima parte del film è tutto un inseguimento, l’eroe solo contro tutti alla fine si salva e salva anche la sua donna, che intanto ha partorito nella voragine allagata da un temporale. La famigliola si ritira nella giungla per un nuovo inizio, ma intanto stanno arrivando gli Spagnoli. Fine di una civiltà, che in realtà, secondo Gibson, si è autodistrutta.

 

Vediamo i punti più importanti, lasciando stare la questione della verosimiglianza, la questione della lingua parlata nel film, eccetera. Si tratta di un film di avventura, non di un documentario. Un film di avventura con una sua tesi: la società maya era strutturata in un modo tale che non poteva non implodere. Una tesi che non è certo invenzione di Gibson. È una questione storica (e in parte, ahimè, ideologica, su cui non voglio soffermarmi). Ma il film è spettacolo, non discussione critica, e qui è spettacolo in un senso decisamente originario.

Lo spettacolo per eccellenza è lo spargimento violento del sangue. Questo ben lo sapevano gli antichi, ma lo sanno anche i moderni. Ludi gladiatorii, tauromachie, esecuzioni capitali, sacrifici umani: tutti hanno una cosa in comune. Questa si ritrova anche nei film spettacolari, quelli che sono, per così dire, doppiamente spettacolo. Nei film di guerra (anche quelli che vorrebbero condannarla), nei film di fantascienza, nei film storici, nei film horror, le scene spettacolari sono le scene violente. Ma è singolare che il sangue abbia acquisito visibilità maggiore in questi ultimi anni. Nel cinema classico se ne vedeva pochissimo, anche nelle scene di massacri. Si potrebbe fare un utile confronto, per questo ed altri motivi, tra Apocalypto e Passaggio a Nord-Ovest, un film del 1940 con Spencer Tracy, in cui i rangers uccidono centinaia di indiani e distruggono il loro villaggio senza pietà: si vede un massacro, ma non si vede una goccia di sangue.

Ovvero: in Passaggio a Nord-Ovest si vedono molte più uccisioni che in Apocalypto, ma non si vede il sangue. Nel cinema classico il sangue è tabù, la violenza no. Ma nella realtà non vi è violenza senza sangue.

Se l’eroe è una vittima sacrificale valorizzata, Zampa di giaguaro è eroe nel senso più originario che possa essere attinto da un autore contemporaneo. Infatti egli finisce letteralmente sull’altare dei sacrifici, e solo per una miracolosa coincidenza il coltello di ossidiana del sacerdote sacrificatore non gli apre il petto. Si attua quindi il rovesciamento, per cui la vittima sfuggita al sacrificio collettivo diviene non l’oggetto d’odio ma l’oggetto di simpatia e venerazione (degli spettatori). Ma questo nella cultura occidentale è avvenuto da molto tempo. La cultura occidentale sa che il tutti-contro-uno non è garanzia di salvezza, che la giustizia non sta di per sé dalla parte dei tutti. E però non lo sa da sempre e non lo sa una volta per tutte. Lo sa dalla tradizione filosofica e giudeo-cristiana (Socrate e Gesù), ma i richiami dell’antica sirena dell’espulsione e del sacrificio suonano ancora, perché l’umano, se non è nato con essi, se li è associati da diecimila anni, dalla nascita dell’agricoltura.

 

Torniamo al tapiro dell’inizio. L’animale viene ucciso, e subito tra i cacciatori avviene la spartizione delle parti più significative dell’animale. Qui rasentiamo davvero la scena originaria gansiana. La preda di un branco di animali viene consumata secondo l’ordine di beccata (i più forti nella gerarchia animale mangiano per primi, e poi a scendere: alfa, beta, gamma) perché la preda è solo un oggetto di appetito, non di significazione. Ma gli umani sono la specie significante, e prendere il fegato non è la stessa cosa che prendere il cuore o i testicoli. La scena intorno al tapiro morto mi sembra antropologicamente ricca di senso.

Ciò che emerge poi dal film di Gibson è una comprensione della relazione tra caccia e agricoltura. La tribù del protagonista (i buoni) è una tribù di cacciatori-raccoglitori (vita felice, che non conosce la carestia e i problemi ad essa legati - è un dato scientifico dimostrato dalla paleo-antropologia); i Maya invece sono agricoltori, quindi tendono alla ciclicità sovrapproduzione, sfruttamento della terra, sovrappopolazione, carestia, epidemia - con il ricorso al sacrificio umano come garanzia della continuità della vita. Il sacrificio umano nasce con l’agricoltura. In questo io dissento da Girard: secondo me la caccia viene prima del sacrificio e non dopo, come pensa lui.

Ma la civiltà maya nel film appare sull’orlo dell’abisso. Sta per sprofondare in una crisi sacrificale. Proprio come succedeva agli Aztechi in quegli anni (qui c’è forse il vero errore storico del film: queste cose erano già capitate ai Maya, che intorno al 1517 erano l’ombra di ciò che erano stati, e stavano invece capitando agli Aztechi, il cui impero non ce la faceva più a procurarsi all’esterno le vittime di cui il suo sistema sacrificale abbisognava). Sbagliato storicamente, il film di Gibson è antropologicamente corretto. L’incubo di ogni società umana è quello della propria dissoluzione, e le società non si dissolvono quasi mai per l’urto di forze esterne ma a causa di una loro propria interna tabe. Questo è il caso dei Maya e degli Aztechi, e degli abitanti dell’isola di Pasqua (Rapa Nui di Kevin Reynolds -1994 - sembra dire cose non molto diverse). E quando il senso della dissoluzione si fa più opprimente, la carica di violenza aumenta in modo esponenziale. Il sangue scorre. Nei nostri film sta già scorrendo. Siamo avvertiti.

 

Pena di morte. L’Onu proclama una moratoria della pena di morte. Si tratta di un progresso morale dell’Umanità? Sono scettico. Soprattutto sono scettico sul livello morale di quella parte della classe politica italiana che esulta per il successo della nostra diplomazia. Se la classe politica avesse dotato l’Italia di un sistema giudiziario rigoroso ed efficiente, tale che i cittadini si sentissero garantiti nel loro bisogno di ricevere giustizia, allora esulterei.

Ma vedo processi che durano decenni, intrecci perversi tra politica e magistratura, sentenze pazzesche, deboli e innocenti calpestati. E criminali di ogni sorta impuniti. Ma certo noi Italiani abbiamo un alto senso morale.

Estremizzo, ora, ma il pensiero estremo è spesso sensato. Se sia moralmente superiore una società che punisce gli assassinii con la morte, ma non considera legittimo e legale uccidere un esserino umano nel luogo per lui naturalmente più sicuro, l’utero materno, o una società che abomina la pena capitale, ma lascia spazio a delitti di ogni tipo, e permette a ogni donna di liberarsi, quando lo voglia, del prodotto del suo piacere e della goduta possibilità di fare sesso liberamente e incoscientemente, se sia superiore moralmente la prima o la seconda di queste due ipotetiche società, non mi pare questione da poco. Quello che mi pare chiaro è che la società e la politica italiane sono fortemente schizofreniche, e fortemente ipocrite.

 

 

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