IL SACRO, LA VIOLENZA E LA LETTERATURA

Ciclo di conferenze

I

Una prospettiva antropologica per la letteratura:

René Girard, Eric Gans, Cesáreo Bandera.

 

Fabio Brotto

brottof@libero.it

www.bibliosofia.net

  

Debbo spendere all'inizio due parole sul terrorismo. Non per un obbligo rituale e retorico, in occasione del recente delitto di Bologna, ma perché il terrorismo ha molto a che fare con questa serie di quattro incontri. Infatti il terrorismo è un dispiegamento della violenza che si indirizza verso una vittima. Questa normalmente viene abbattuta in agguati che, come nel caso del prof. Biagi, vedono la partecipazione di più persone, che circondano ed uccidono mediante una forma di linciaggio in cui le armi di un tempo, pietre e pugnali, sono sostituite da pistole e mitragliette: la struttura vittimaria è però sempre la stessa. Inoltre, alla base del terrorismo, le cui radici psicologiche e addirittura metafisiche sono già state esplorate in modo direi definitivo da Joseph Conrad e Fëdor Dostoevskij, sta sempre il rifiuto del riconoscimento dell'altro come pienamente umano, e l'idea che soltanto una totale espulsione del non omogeneo (la borghesia capitalistica, l'imperialista, l'ebreo, ecc. ecc.) potrà portare l'umanità ad una totale realizzazione dell'umano stesso.

Poiché siamo in un liceo classico, per introdurre la problematica di cui mi occuperò nei quattro incontri di questo ciclo che stanno sotto il titolo comune de Il sacro, la violenza e la narrativa, citerò un testo di George Hersey del 1989, da poco pubblicato in edizione italiana da Bruno Mondadori. Il libro è Il significato nascosto dell'arte classica. L'autore non è un antropologo ma uno studioso di architettura, e non è un discepolo di René Girard, che compare solo in una nota. E però proprio per questo testimonia l'esistenza di quella operosa galassia di scrittori e studiosi che in questi ultimi anni stanno facendo emergere l'importanza storico-culturale del sacrificio, e di quelle che possiamo chiamare le origini violente della civiltà. Per l'ambito greco un nome su tutti: Walter Burkert. Hersey mostra, dunque, come ciò che i classicisti di tutti i tempi, dominati da ideali estetizzanti, non hanno mai voluto vedere sia la funzione reale del tempio greco, funzione che ne ha simbolicamente formato le parti. Per i classicisti il tempio appare naturalmente e nello stesso tempo misteriosamente formato nel modo in cui è formato, ma la denominazione delle singole parti, invece, rimanda a ciò che costituiva la principale attività che si svolgeva presso i templi, e che è la loro origine: il sacrificio - prima umano e poi animale.

"L'affermazione di Vitruvio," scrive dunque Hersey a pag.15, "che le colonne derivino dagli alberi, contiene del resto un elemento di verità. Sappiamo dall'archeologia che i primi templi greci erano effettivamente costruiti con solide colonne di legno, e qualsiasi colonna lignea di questo genere era in un certo senso un albero o un tronco sacro, soprattutto alla luce del fatto che le colonne, come gli alberi, erano oggetto di culto, fin dai tempi preistorici, come dimore o immagini degli dei. Secondo Pausania il primo tempio di Apollo a Delfi consisteva in una capanna costruita con alberi d'alloro. E Apollodoro descrive, a Eli, la colonna lignea di Enomao, un eroe della prima ode olimpica di Pindaro. Era questo tempio il resto della casa di Enomao, dove Pelope, re di stirpe divina e fondatore di Atene, conservava come sacre le teste recise dei pretendenti alla mano della figlia di Enomao, suoi sfortunati rivali." Notate come sacro sia il corpo dell'ucciso, anzi la parte più importante del corpo, la testa. Ma, come mostra ampiamente Girard nelle sue opere, è l'uccisione che rende sacro il sacro. "Era stato Enomao ad ammazzarli, e ritengo che la decorativa esposizione delle loro teste su una porta possa essere letta come la trasformazione delle stesse in trofei. Il che, a sua volta, potrebbe aver trasformato gli assassinii in sacrifici." Ove vedete che anche Hersey professa l'idea che l'uccisione precede il sacrificio, il quale altro non è se non un'uccisione trasformata. "Non sappiamo se il pilastro di legno fosse parte del trofeo, per quanto ciò sia possibile. In ogni caso, questa storica colonna fu nuovamente eretta vicino al santuario di Zeus e intorno le fu costruita un'edicola. Lì ebbe la funzione di colonna-albero sacro." La testa su un palo, la testa conficcata, attaccata da qualche parte è la forma più elementare e primitiva di trofeo.

Tra gli altri passi di Hersey che parlano del sacrificio, mi limito a citare questo, di pag.25, che parla delle danze rituali. Vi è, secondo Hersey, "una serie di studiosi che hanno rilevato l'importanza delle danze rituali che si svolgevano davanti ai templi; inoltre si potrebbero interpretare i personaggi danzanti come vittime, per il fatto che si pensava che le vittime stesse fossero felici della loro condizione." Che è quella di colui che proprio attraverso il sacrificio entra nel mondo degli dèi.

Bene, nei quattro incontri previsti cercherò anzitutto di mostrare quale sia il contributo di idee che René Girard, Eric Gans e Cesáreo Bandera possono fornire per una visione antropologica della letteratura, e lo farò evidenziando alcuni elementi fondamentali delle rispettive posizioni, nel modo più sintetico possibile, e presentando delle letture in atto che si servano delle loro categorie. Lo farò in questo primo incontro. Nel secondo presenterò sei narrazioni ricomprese entro quello che ho denominato l'orizzonte dell'espulsione: Cuore di tenebra, La condizione umana, Professor Unrat, Il Signore delle Mosche, Berlin Alexanderplatz, I racconti di Kolyma. Si tratta dei libri che costituiscono il programma di letteratura comparata che ho costruito per il mio triennio liceale: qui ne farò una lettura in qualche modo unitaria non sul versante del nichilismo, secondo la chiave pur possibile e di fatto attuata, ma collocando i testi in una prospettiva antropologica, in cui emergerà il movente umano fondamentale dell'espulsione del non omogeneo. Nel terzo incontro presenterò la mia lettura de La coscienza di Zeno, che si serve della categoria girardiana della mimesi e di quella gansiana del differimento della violenza mediante il segno. Infine nel quarto incontro svilupperò il tema della violenza arcaica, cioè di quella violenza che appare pura e originaria, in alcuni narratori, e in particolare in Jean Giono, Cormac McCarthy e Sven Delblanc, mostrando come quella violenza sia sempre correlata alla presenza del capro espiatorio.

Cominciamo, e cominciamo da Cesáreo Bandera. Debbo anzitutto comunicarvi che, mentre di René Girard troverete o potreste trovare quasi tutto in libreria, tradotto in italiano, quasi tutto da Adelphi, degli altri due autori di cui mi occuperò niente è stato pubblicato in Italia. Scelte di strategia delle case editrici… Cesáreo Bandera è uno studioso di letterature neolatine che vive negli Stati Uniti, discepolo di René Girard come Eric Gans, e come questi pensatore in proprio. (Pensatore, dico, ma non filosofo in senso tecnico. Girard né Gans sono filosofi in senso tecnico: vengono da dipartimenti di letteratura. Questo non mi meraviglia, non mi meraviglia cioè che non siano le scienze filosofiche accademiche a proporre nuove chiavi di lettura dell'umano: il grembo della filosofia occidentale è oggi un grembo sterile. Una riprova ne potete avere, ed è solo un esempio tra tanti, ne Il logos violato di G. Strummiello, che sul tema della violenza non riesce a dire alcunché di convincente.) Bandera ha scritto due libri in spagnolo: El Poema de Mio Cid: poesía, historia, mito e Mímesis conflictiva: Ficción literaria y violencia en Cervantes y Calderón, e poi in inglese nel 1994 questo The Sacred Game. The role of the Sacred in the Genesis of Modern Literary Fiction.

La tesi generale esposta in questo libro è che in Occidente, a partire dagli albori dell'era moderna, si è sviluppata una vera e propria allergia al sacro, che in verità non è che una sua metamorfosi, ovvero una continuazione di quel movimento di occultamento dell'altare sacrificale, di rimozione della pratica sacrificale dalla vista, che è iniziata ad opera della filosofia greca, e che continua nella modernità, mutatis mutandis. Ma poiché il sacro coincide con l'espulsione e col sacrificio, qualsiasi espulsione, compresa quella del sacro stesso, mantiene i caratteri del sacrificio e del sacro, anche nella visione secolarizzata del mondo. La parte del libro di Bandera che qui mi interessa, e che dovrebbe interessare anche gli studenti del liceo classico, è quella che rivisita uno dei testi capitali e fondativi dell'Occidente, l'Eneide. Bandera lo vede come testo sacrificale per eccellenza, come testo cioè che, all'interno della tradizione occidentale, evidenzia il massimo di consapevolezza della natura sacrificale della fondazione della civiltà. E' proprio questa consapevolezza, che Bandera rintraccia a piene mani nell'Eneide, che porta Virgilio alla sua crisi, e ad una rinuncia ad andare fino in fondo nel disvelamento di un meccanismo, quello del sacrificio fondatore, che per operare deve rimanere nascosto. D'altra parte, possiamo aggiungere noi, Dante non si è sbagliato scegliendo Virgilio come sua guida nell'inferno: nessuno tra i poeti e i filosofi antichi aveva mostrato di conoscerlo quanto il poeta mantovano.

Bandera individua la sacrificalità dell'Eneide nei primi sei libri (la Piccola Odissea) come negli altri sei (la Piccola Iliade) su due piani: uno immediato, superficiale e quasi banale: Enea è un corretto e scrupoloso sacrificatore, che sa sempre svolgere la pratica secondo la tradizione. L'Eneide è costellata di giusti e corretti sacrifici. L'altro piano è quello del sacrificio umano, mai pienamente affermato come tale ma riconoscibilissimo. Infatti il principio che sta alla sua base è quello dell'unum pro multis dabitur caput che Nettuno proferisce riguardo a Palinuro (V, 815), principio che Bandera individua nei quattro casi di Creusa, Oronte, Palinuro appunto e Miseno. A proposito di Creusa: …hic demum collectis omnibus una defuit (II, 743). A proposito di Oronte: omnia tuta vides, classem sociosque receptos; / unus abest, medio in fluctu quem vidimus ipsi / submersum. Possiamo anticipare che uno dei principî fondamentali del meccanismo sacrificale del capro espiatorio è per Girard quello della individuazione accidentale della vittima. E Bandera può mostrare come l'anima di Palinuro nell'aldilà si trovi a contraddire deliberatamente l'evidenza testuale che lo voleva vittima di un assalto divino, affermando l'accidentalità della propria morte. Chiunque infatti potrebbe essere la vittima. La differenza che costituisce qualcuno come vittima è radicalmente imprevedibile, quindi quella tale vittima avrebbe potuto non essere. Ma se questo è vero anche l'ordine che nasce dal sacrificio potrebbe non essere, proprio perché "il divenire sacro è sinonimo della negazione o dell'occultamento del suo carattere casuale e imprevedibile": Virgilio ha la per lui terribile visione della possibilità che Roma non fosse.

Questo elemento è sviluppato da Bandera nelle considerazioni che svolge sulla seconda parte dell'Eneide. Qui egli fa risaltare il carattere di macello che le operazioni belliche assumono, in quanto dominate dal principio della totale reciprocità, della furia insana che porta alla proliferazione dei doppi, di cui Enea e Turno sono l'espressione più completa. I due popoli "destinati" a vivere in pace eterna si massacrano orribilmente, colpo su colpo, fino alla soluzione finale, alla fine improvvisa del poema con la morte di Turno, che agli occhi di Bandera appare più un sacrificio che un'uccisione bellica (in effetti Turno non muore come Ettore, ma viene colpito da Enea mentre si trova inerme ai suoi piedi). L'Eneide non termina con la glorificazione del vincitore ma col lamento della vittima morente. Questo per Bandera non è un caso: sul sacrificio umano è costruita la cultura umana, di cui la morte sacrificale della vittima costituisce il grado zero. La morte di Turno è l'ultima parola dell'Eneide proprio perché è la prima parola dell'ordine umano, l'ordine del sacro.

Bandera usa, a mio parere in modo magistrale, alcune categorie girardiane, che qui vi ho mostrate in atto, in modo che cominciasse a palesarsi, seppur in modo ancora velato, la loro grande forza ermeneutica. Continuerò la conversazione svolgendo, per presentare Girard, una lettura di tre testi. Anzitutto una mia lettura di due novelle in cui forse vi siete imbattuti (i miei allievi sicuramente). Si tratta della novella nona della giornata V del Decameron (Federigo degli Alberighi) e della novella terza della giornata X (Natan e Mitridanes). Potremmo definire queste due novelle come rispettivamente la novella del desiderio e la novella della mimesi, fenomeni che non si possono affatto separare, come vedremo. René Girard non ha mai preso in considerazione Boccaccio, che io sappia, ma questo mostro sacro del Trecento aveva delle cognizioni antropologiche, o meglio una sapienza antropologica assai profonda. Analizzando le due novelle vi farò vedere alcuni concetti fondamentali di Girard. Ve ne presenterò altri leggendo un brano della Vita di Apollonio di Tiana di Filostrato, che Girard analizza nel suo ultimo libro, e che ritroveremo nella lettura mimetologica de La coscienza di Zeno nel terzo incontro.

La prima novella di Boccaccio ci narra di Federigo degli Alberighi, che, da buon cavaliere informato agli ideali dell'amor cortese è innamorato di una donna che è la moglie di un altro. Qui vi sarebbe subito molto da dire: Girard muove già nel suo primo libro importante, in cui la sua teoria non ha ancora preso forma, Dostoevskij dal doppio all'unità (1963), da due principî fondamentali: 1) "…l'Io non è un oggetto contiguo ad altri Io oggetto; esso è in rapporto dialettico con l'Altro e non si può considerarlo al di fuori di tale rapporto". 2) Il desiderio non è originato dalla desiderabilità per sé del suo oggetto, ma è il desiderio a produrre il proprio oggetto, e a sua volta il desiderio non scaturisce originariamente dall'individuo - che come tale per Girard non esiste - ma da un atto di imitazione, dalla mimesi. Federigo spende e spande in giostre e tornei per piacere alla donna amata, per rendersi desiderabile ai suoi occhi, ma ella onestamente lo rifiuta. Spende a tal punto da cadere in miseria, e ridursi in una sua casetta di campagna, ove sopravvive grazie al falcone con cui va a caccia, che gli fornisce, diremmo oggi, l'apporto proteico necessario. La sorte vuole che muoia il marito della donna, e che ella con il figliolo faccia soggiorno in una proprietà non lontana dal poderetto di Federigo. Il ragazzino girando per la campagna si imbatte nel cacciatore, e fa amicizia con lui, e giunge ad ammirare tanto il falcone da desiderarlo. Badate: non un falcone come quello, ma proprio quello e non un altro. Qui emerge la categoria girardiana della mimesi: l'uomo è una specie ipermimetica (deriva da una scimmia ipermimetica, la cui caratteristica disposizione l'ha ominizzata: ritorneremo sul cruciale problema dell'origine, cruciale per Girard come per Gans). Vedo un mio simile che mangia un frutto. Ce ne sono tanti altri, ne cerco uno uguale e lo mangio anch'io. Ma: vedo un mio simile che stende la mano verso un frutto. Stendo la mia mano verso lo stesso frutto: scaturisce il conflitto. La mimesi che è pura imitazione, ripetizione del gesto verso un oggetto analogo, diviene mimesi appropriativa, premessa della mimesi conflittuale. Il ragazzino della novella di Boccaccio si ammala di desiderio, situazione ben conosciuta nelle fiabe e nel folklore popolare. L'unica speranza di guarigione è l'appropriarsi di ciò che è dell'altro, del falcone desiderato. Dunque la madre si reca, imbarazzatissima, da colui che ha rifiutato e quello, privo di degna vivanda, non esita a sacrificare il falcone per dar da mangiare all'ospite. Annientato l'oggetto del desiderio e della mimesi conflittuale, il figliolo muore, e Federigo e Giovanna possono sposarsi. E' chiaro come Federigo costituisca agli occhi del ragazzino il modello che proprio in quanto tale spinge il discepolo ad assumere la sua stessa forma, il suo stesso ruolo, e però nel contempo gli sbarra la strada, divenendo il rivale: finché esiste il modello non posso esserlo io. Federigo è modello in quanto falconiere con un unico falcone. Il desiderio di possedere quel falcone è insieme il desiderio di annientare il modello. Girard utilizza anche la categoria di mediazione esterna per significare che il desiderio si appunta su un oggetto seguendo il modello di un desiderio altrui indirizzato allo stesso oggetto, nella fattispecie il falcone, e di mediazione interna quando l'oggetto in quanto tale per così dire svanisce lasciando i due l'uno di fronte all'altro nella pienezza della rivalità.

Quest'ultima è pienamente visibile nella novella di Natan e Mitridanes, che appartiene alla giornata X, nella quale Boccaccio presenta gli esempi più elevati di umanità. Siamo in un Oriente favoloso, e il vecchio Natan è celebrato per la sua grandezza d'animo e per la sua liberalità. Costituisce dunque un modello per il giovane Mitridanes, che vuole emularlo, desidera per sé la fama di Natan. Anche Mitridanes userà delle sue ricchezze in una gara di liberalità. Ma quando una vecchia mendicante, che si è più volte presentata per ricevere la carità e ogni volta l'ha ricevuta, all'osservazione di Mitridanes che ella sta superando la misura nel chiedere, gli rimprovera l'inadeguatezza della sua generosità in confronto a quella ineguagliabile di Natan, il giovane decide di eliminare il suo rivale. Abbiamo qui un esempio di ciò che Girard definisce double bind: da un lato il modello dice: sii come me, dall'altro: non puoi essere come me. Preso in questa morsa, il discepolo non può che desiderare la fine del suo maestro, per prendere il suo posto e sciogliere la contraddizione. E dunque Mitridanes si reca al palazzo di Natan per ucciderlo. Venutolo a sapere, Natan lo accoglie liberalmente e, al momento cruciale, gli offre egli stesso la sua vita. Vinto da tanta generosità, Mitridanes si riconosce sconfitto, ma Natan riesce anche a togliergli la vergogna lodando le sue intenzioni e impedendo che si sviluppi in lui il senso di colpa. E' evidente come per Boccaccio l'unica via di uscita dalla dialettica dell'identificazione mimetica e del risentimento sia la via di Cristo, sul quale Natan è chiaramente modellato.

Ed ecco il passo di Filostrato, che appartiene ad un'opera di esaltazione del grande taumaturgo-filosofo-mago Apollonio di Tiana, il quale viene posto come contraltare a Cristo. Si tratta di una tipica figura della koiné mediterranea imperiale. Ora, nel passo in questione, che nell'edizione Adelphi si trova alle pp.186-187, emergono alcuni interessanti elementi di conferma della teoria girardiana della crisi mimetica. Questa si ha in un gruppo umano (come una polis) allorquando il proliferare dei doppi, innescato dalla spinta mimetica interindividuale che fa scaturire desideri e conflitti, dà luogo ad una tensione insostenibile: ci si avvicina ad un'esplosione che avrebbe conseguenze devastanti sulla comunità, che rischia la dissoluzione. La comunità si regge sulla differenziazione, venendo meno la quale essa sarebbe annientata. Girard mostra come nel mito e nella cultura umana in generale la crisi mimetica, che è sempre presente come possibilità, sia evocata da immagini riferite a fenomeni come la tempesta marina, il fuoco divoratore, e soprattutto la peste. Tutte le grandi descrizioni di pestilenze, da Tucidide a Manzoni, mostrano il venire meno delle differenziazioni, sulle quali si fondano tutti gli ordinamenti umani. Mostrano altresì sempre la ricerca di capri espiatori. Apollonio, da buon filosofo, realizza l'unità. Infatti, nel passo di Filostrato, "Con questi discorsi teneva dunque unita la cittadinanza di Smirne. Ma in Efeso la malattia aveva preso a infuriare, né vi era alcun rimedio contro di essa;" Infatti, secondo Girard la crisi mimetica dagli umani non è mai stata risolta in alcun modo se non col principio del sacrificio di una vittima, cioè col linciaggio. Anzi, la scena originaria della nascita dell'umano è quella del linciaggio di un membro del gruppo. Giunti ad un parossismo frenetico i proto-umani si scagliano contro uno del loro gruppo, che presenta qualche piccolo segno di differenza, che lo rende individualmente riconoscibile come debole, strano, malato, deforme, ecc., e lo massacrano. Uccisolo, essi avvertono un beneficio immediato, si sentono sollevati, stanno meglio. Ripeteranno l'atto di linciaggio ogni volta che la situazione del gruppo si farà così critica da renderne imminente la dissoluzione. Attraverso i millenni, secondo Girard (che come Gans accetta pienamente la prospettiva evoluzionistica) i benefici sempre ripetuti del linciaggio come uscita dalla crisi hanno portato alla nascita dell'umano in quanto essere anzitutto rituale e sacrificale. Questa è la spiegazione dell'onnipresenza del sacrificio come pratica religiosa in tutti gli angoli del mondo. "e gli abitanti mandarono un'ambasceria ad Apollonio, per averlo come medico della pestilenza. Egli pensò allora di non dover perdere tempo nel viaggio; disse 'Andiamo', e fu subito a Efeso, ripetendo, credo, il prodigio di Pitagora, quando si trovò nello stesso tempo a Turii e a Metaponto. Raccolti dunque gli Efesii, 'Rassicuratevi,' disse 'oggi stesso porrò fine alla malattia'. Così detto, condusse tutta la cittadinanza nel teatro, dove si leva il monumento del dio Tutelare." Il linciaggio-sacrificio deve infatti essere compiuto da tutti, poiché i suoi benefici devono ricadere su tutti, e perché tutti debbono parteciparne. E' anche significativo che Apollonio conduca i cittadini nel teatro, le cui origini come pratica post-sacrificale non potrebbero essere ricostruite in modo più chiaro. "Qui apparve loro un vecchio mendicante, che simulava di essere cieco: aveva una bisaccia e in essa una crosta di pane, era coperto di cenci e il suo volto era rappreso di sudiciume." C'è dunque qui uno che non appartiene alla cittadinanza, anche se vive in essa, e presenta quelli che Girard chiama i segni vittimari, quei segni cioè che identificano un essere umano come possibile vittima. "Avendo allora disposto gli Efesii intorno a lui," E' il cerchio girardiano, quello dei linciatori che circondano la vittima, il padre, secondo lo studioso, di tutti i cerchi che segnano la storia culturale dell'umanità. Apollonio dunque "disse: 'Raccogliete quante più pietre vi riesce, e lapidate quest'essere nemico agli dèi '. Gli Efesii si chiedevano sbigottiti cosa intendesse dire, e pensavano che fosse un'empietà uccidere uno straniero tanto miserabile - li supplicava infatti, e tentava con le sue parole di muoverli a pietà -; ma Apollonio insisteva, esortandoli a colpirlo e a non lasciarlo andare. Infine alcuni presero a gettare pietre contro di lui, e il vecchio che prima pareva cieco levò improvvisamente lo sguardo, mostrando gli occhi pieni di fuoco; allora gli Efesii compresero che era un demone, e lo lapidarono sino a che rimase coperto da un cumulo di sassi." La lapidazione è, secondo Girard, la più antica di tutte le esecuzioni capitali, la prima forma di linciaggio in cui le mani non toccano direttamente la vittima, che finisce ricoperta da un mucchio di pietre. Poiché in un secondo momento la comunità dei linciatori, avvertendo un grande beneficio dall'azione compiuta, tende a riferirlo a quella stessa vittima che essa aveva aggredito attribuendole qualità negative, la vittima stessa risulta transvalutata, e da cattiva diventa buona: diventa divina. L'origine della religione, è un'origine sociale, ed è legata al vantaggio derivante dall'azione sacrificale. Dunque in Girard all'inizio sta l'azione. "Dopo qualche momento, Apollonio ordinò loro di rimuovere le pietre e di constatare quale mostro avessero ucciso. Quando venne portato alla luce il corpo di colui che credevano di avere lapidato, il vecchio era scomparso; e alla loro vista apparve un cane simile nell'aspetto a un molosso, ma di dimensioni pari a un enorme leone: esso era sfracellato dalle pietre e vomitava schiuma, come gli animali posseduti dalla rabbia. L'altare del dio Tutelare, che è Eracle, si leva appunto nel luogo stesso, dove venne sterminato questo spettro." Nella conclusione si nota l'attribuzione ad Eracle, l'uccisore di mostri, di un'influenza protettiva sulla comunità. Ma qui è importante non farsi confondere dalle inversioni e confusioni dei nessi causali che sempre i miti operano e che rende necessaria la loro decostruzione. E' importante notare come sul luogo del sacrificio, cioè dell'uccisione, sorga un altare. Eracle è un uccisore, ma lo sono tutti gli Dei. Per Girard, però, essi sono anzitutto degli uccisi, perché per gli umani è divina, in quanto fondatrice e nemica del caos, la violenza sacrificale.

Torniamo alla scena originaria, cui abbiamo già accennato due volte. Dunque, per Girard l'umanità ha origine da uno sviluppo dei proto-umani che li porta ad un punto in cui i meccanismi naturali che impediscono alle società animali di autodistruggersi non funzionano più. Le specie animali dispongono infatti di un sistema di limitazione degli effetti distruttivi dell'aggressività, particolarmente sviluppato, per quanto riguarda i mammiferi, nel genere maschile: si tratta del meccanismo della dominanza, che si stabilisce attraverso confronti ritualizzati che solitamente pongono di fronte di volta in volta .due contendenti. Anche quando i confronti sono mortali, tra i leoni ad esempio, gli effetti sul gruppo sono sempre limitati. Nessun gruppo animale conosce la rissa micidiale, lo scagliarsi di tutti contro tutti, la massa indifferenziata in cui ci si danno botte da orbi: questo è proprio degli umani, la specie dotata di un'aggressività non controllata da meccanismi naturali di inibizione, l'unica specie violenta. Sul lato femminile è da notarsi la parallela mancanza di una limitazione temporale dell'estro. Il primum è dunque per Girard l'esperienza del linciaggio-espulsione di un membro del gruppo, evento che impedisce il collasso del gruppo stesso e, ripetuto un'infinità di volte, finisce per portare alla nascita dell'umano, cioè contemporaneamente del sacro. Sacro e violenza sono fratelli, e non c'è sacro senza violenza.

Anche nel pensiero di Eric Gans quella del sacro è la manifestazione primordiale dell'umano, ma lo studioso americano articola la scena originaria in un modo alquanto più complesso di quel che è in Girard. The Origin of Language è il primo libro di Gans che affronta la questione delle origini dell'umano, e, come si evince dal titolo, chiama in questione un punto che Girard ha scarsamente esaminato, ovvero il problema dell'origine del linguaggio, ossia del mondo dei segni, che sono cosa ben diversa dai segnali di cui dispongono gli animali. Questi possono disporre di un vocabolario complesso, come i delfini, ma non parlano, bensì attuano forme di comunicazione, facendo corrispondere un determinato suono ad una determinata situazione. Al di fuori di quella situazione, allorquando ad esempio, il pescecane se ne è andato, non ne parlano utilizzando i segnali che lo identificano come pericoloso, proprio perché sono segnali. Il segno, invece, è un segnale che si è reso temporalmente autonomo, separandosi dal contesto vitale in cui è emerso, ed acquistando la capacità di essere riprodotto in una serie infinita. Il segno linguistico, secondo Gans, costituisce un suo proprio mondo, il mondo trascendentale dei segni, un mondo verticale che emerge dall'orizzontalità del mondo del vissuto animale. Ma come nasce secondo Gans il linguaggio? In quali circostanze può essere emerso il primo segno? Gans sviluppa la sua tesi nel suo libro Originary Thinking, in cui dà fondamento alla sua antropologia generativa, e nell'ultima opera Signs of Paradox. La scena originaria è un'ipotesi, che per essere scientifica deve essere il più possibile economica, cioè spiegare il maggior numero di fenomeni col minimo dispendio di concetti. Gans dà prova di una notevole capacità inventiva, nel senso migliore del termine, nella delineazione di un evento che è stato definito Little Bang, per analogia col Big Bang della fisica: è l'evento dell'esplosione antropica. Il salto dall'animale all'umano deve essere avvenuto in un modo definito, e ciò può essere pensato solo scenicamente. Ecco la scena: un gruppo di predatori proto-umani, maschi (questo mi piace terribilmente, perché pone la pratica della caccia, cui si dedicano i maschi, all'origine della cultura umana - del resto, si veda Scimmie cacciatrici di Stanford, in cui questo primatologo evidenzia il comportamento venatico come proprio solo dei maschi degli scimpanzé bonobo) circonda un grosso animale appena ucciso. Tutti provano una fortissima attrazione per le sue carni. Nel caso di altri predatori non si porrebbe alcun problema, mangerebbero secondo la scala gerarchica della dominanza. Ma nei proto-umani i tipici meccanismi di controllo dell'aggressività sono collassati, sicché la presenza di un corpo attraente dal punto di vista alimentare sta per scatenare un'aggressione indifferenziata che porterebbe alla distruzione del gruppo, ad un massacro. E di massacri in situazioni del genere ce ne saranno stati. Ma ecco che in quella situazione avviene qualcosa di inaspettato: quando la tensione ha raggiunto il parossismo non si ha la vittima, come in Girard, ma l'emissione, da parte di un membro del gruppo, di un segnale di rinuncia alla competizione per il cibo. Questo segnale viene recepito dagli altri, che contemporaneamente si ritraggono, fanno, per così dire, un passo indietro. Quel segnale è il primo segno linguistico, che si stacca dall'immediata presenza dell'oggetto a cui si riferisce, ed è ciò che Gans chiama deferral of violence through the sign. Dunque, il linguaggio emerge nella forma primordiale del significante rinuncia alla violenza (rinuncia momentanea, differimento). Ma i proto-umani all'interno dello stesso evento, che nella sua datità nucleare contiene tutto l'umano, fanno altresì esperienza dell'indisponibilità dell'oggetto del desiderio, della sua non controllabilità, e quindi il primo segno linguistico può essere definito il name-of-God, fondazione del sacro. Dio e l'uomo nascono insieme, secondo Gans, nel Little Bang della scena originaria. Ma in quanto tutti si ritirano insieme dalla competizione, emerge anche il senso della fondamentale uguaglianza di tutti i membri del gruppo, e nella successiva spartizione ha le radici il diritto. E anche l'arte, in quanto ciascuno esperisce l'oscillazione tra il segno linguistico che lo indica e la disponibilità dell'oggetto centrale, e quindi tra il segno stesso che dice la presenza e l'assenza reale dell'oggetto. La periferia degli esseri che circondano il cadavere-centro fa dunque un'esperienza che in sé contiene il germe di tutte le altre. Infine è da sottolineare come in questa scena abbia la propria radice il risentimento: anzitutto contro lo stesso oggetto centrale-dio, che si sottrae a ciascuno, fino al momento in cui non è tra tutti spartito. Occupare il centro, in tutti i vari modi in cui ciò sarà attuato nel corso di migliaia e migliaia di anni, sarà sempre fonte di risentimento. Nella prospettiva gansiana, ogni fenomeno umano può essere riportato alla scena originaria, e la procedura con cui ciò avviene è definita originary analysis. Egli la applica, soprattutto nelle sue pubblicazioni su Internet (Anthropoetics e Chronicles of Love and Resentment) a tutti i momenti della cultura passata e presente, e in particolare al romanzo, la cui funzione fondamentale appare quella di una negoziazione del risentimento. Il discorso qui deve interrompersi, ma cercheremo di riprenderlo in una prossima occasione.

20 marzo 2002

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