Tre affermazioni sull'Essere di Dio

 

sulla base dell'idea antropologica di Dio

Anthropoetics 13, no. 2 (GATE 2007 issue)

Andrew Bartlett

Kwantlen University College
Surrey, B. C. Canada
V3W 2M8
Andrew.Bartlett@kwantlen.ca

Traduzione dall'inglese di Fabio Brotto

 

La mia tesi in questa ricerca è che l'idea antropologica di Dio potrebbe interessare e potrebbe possedere un valore sia per i credenti che per i non credenti, per i teisti e gli atei, precisamente perché essa non soddisferà né gli uni né gli altri. Parto dal presupposto che un momento iniziale di insoddisfazione intellettuale possa essere seguito dal coglimento di nuovi paradigmi soddisfacenti, poiché pensare è "uno sforzo più che un piacere" (1). Gli studiosi per cui l'idea antropologica di Dio potrebbe risultare utile possono non essere in grado di accantonare la loro resistenza alla sua singolarità abbastanza a lungo da poter godere delle possibilità di nuovo pensiero che essa apre. Da una parte immaginate (per esempio) un certo tipo di ateo materialista scientifico che non si stanca mai di attaccare la credenza in Dio come rozza, immatura o stupida (vedi Sam Harris: Eagleton su Dawkins). Dall'altra parte, immaginate un certo tipo di credente religioso devoto che con viso arcigno non ammette che sia concessa alla scienza moderna quell'autorità epistemologica che pare aver guadagnato, anche a dispetto della realtà che "gli obiettivi che caratterizzano la scienza per quello che è" includono l'auto-limitazione epistemologica (Rescher 246) (2). Fin tanto che i rappresentanti delle due parti rimarranno legati all'integralità dogmatica, nessuna idea li smuoverà, per quanto sia potente. Il dogmatico è per definizione quel tipo di mente che prova risentimento per ogni appello a tentare un nuovo modo di pensare (anche in via ipotetica), sia che quell'appello offra un nuovo oggetto di fede o che offra una nuova verità di ragione. Potremmo dire che il dogmatico espelle l'ipotetico. Io mi rivolgo a coloro che sono perplessi di fronte alle persone che si rifiutano di riflettere anche solo per un istante sulla possibilità di un'idea antropologica di Dio. Mi rivolgo a coloro che assistono con un'alternanza tra rassegnazione e impazienza al dialogo tra sordi dei "credenti religiosi" con gli "atei secolaristi". Noterò, di passaggio, che il fondatore dell'antropologia generativa ha dichiarato che una delle sue priorità è la speranza di fornire qualcosa di simile ad un nuovo linguaggio che possa mediare tra scienza e fede in un'ipotetica "impresa di riconciliazione (OT 41): "Forse la motivazione più profonda dell'antropologia generativa è nel bisogno di sollevare il livello del nostro discorso circa l'esistenza di Dio" ("Does God Exist?"; vedi anche SF 14-15).

Mi propongo di sviluppare questa tesi esaminando tre affermazioni dell'Essere Divino proposte dall'idea antropologica di Dio, in rapporto ai modi in cui quelle affermazioni potrebbero essere poste in relazione di volta in volta alle posizioni dei credenti religiosi e degli atei secolaristi. Per prima cosa, tuttavia, io offrirò, come amichevole extra per i non iniziati, come premessa all'esposizione dell'idea antropologica di Dio, una veloce esposizione dell'evento originario. Seguiranno le affermazioni con le loro rispettive analisi (3).

Perché il "generativa" nell'antropologia generativa?  Si tratta di un'antropologia basata su un'ipotesi circa lo specifico insieme di circostanze che potrebbe o dovrebbe aver generato la nascita del genere umano dai suoi più prossimi antenati animali. L'antropologia generativa afferma che la rappresentazione, e specificamente il linguaggio umano, è la componente essenziale dell'umano: essa propone, sfidando audacemente la visione dominante dell'ascetico evoluzionismo darwiniano, la tesi puntualista secondo cui il linguaggio umano è scaturito in un evento. Un evento consiste nella transizione da un insieme di circostanze ad un altro. Similmente, un evento richiede una scena: esso deve svolgersi da qualche parte, in qualche luogo.  L'antropologia generativa è un'antropologia scenica: poiché essa afferma che la rappresentazione linguistica, lo scambio reciproco dei segni, è l'essenza dell'umano, si preoccupa in modo peculiare di quel luogo ipotetico che chiama la scena della rappresentazione. Si tratta della scena ipotetica in cui si è originato il linguaggio umano e in cui il linguaggio umano continua ad essere usato. La scena della rappresentazione è quel luogo in cui un ipotetico insieme generativo di circostanze ha prodotto l'evento della significazione originaria. L'antropologia generativa sostiene che gli esseri umani sono meglio compresi non intendendoli soltanto come soggetti grammaticali di una verità proposizionale, fluttuante in un universo metafisico di affermazioni falsificabili slegate dal contesto, ma piuttosto come entità antropologiche agenti entro un contesto scenico identificabile, ciascuna consapevole  dell'altra e consapevole degli oggetti centrali di desiderio e risentimento, e consapevoli dei segni che stanno usando. Per l'antropologia generativa, la cultura umana è una, e questa cultura è scenica (4).

Perché un'antropologia "minimale", visto che udiamo questo aggettivo frequentemente ripetuto—da dove viene l'ossessione per il pensiero minimale? L'ipotesi originaria descrive in termini minimali l'insieme di circostanze (di nuovo, l'evento) che ha generato gli esseri umani dai nostri antenati animali, come quell'insieme di circostanze che ha condotto al gesto di appropriazione interrotto che infine è stato ricordato come il primo segno umano. La sua ricerca della minimalità riflette la sua aderenza al principio scientifico per cui "i misteri non dovrebbero essere moltiplicati oltre il necessario" (OL 1). Se l'umano è uno, lo è adesso come allora. Un insieme di circostanze specifico, un evento, viene descritto meglio, se si vuole aspirare alla scienza e non alla mitopoiesi o alla narrativa, in termini minimali. L'informazione raccolta per il semplice fine dell'accumulazione può impedire la comprensione, bloccare la formazione di ipotesi, e distrarre dall'impegno di proporre un modello per la spiegazione proprio di quelle osservazioni empiriche che si vanno raccogliendo. La mera accumulazione di dati, la collezione di esempi e l'accurata descrizione dei particolari non bastano a fare un'antropologia. Un'antropologia generativa minimale è interessata alle condizioni minimali per la generazione dell'umano dal pre-umano in un evento scenico: l'umano dopo tutto è "l'unico animale per cui le scene collettivamente ricordate, o eventi, esistono" (SF 7).

Ecco una breve presentazione dell'insieme generativo di circostanze proposto dall'ipotesi originaria. I nostri antenati protoumani sono creature umanoidi che possiedono un ordine sociale altamente sviluppato (come è quello di molti primati studiati dall'etologia contemporanea): essi dimostrano un notevole grado di cooperazione sociale (per esempio nella caccia); usano strumenti; usano segni indessicali, come molte specie animali. Ma essi sono anche molto più intensamente mimetici di ogni altra specie di primati. Il loro essere molto più intensamente mimetici di ogni altra specie sulla terra significa che essi hanno un'alta capacità di imitazione reciproca, che li conduce ad una "violenta" competizione intraspecifica per oggetti di appetizione: questa competizione rivalitaria è così estremamente intensa che frequentemente minaccia di distruggere il gruppo.

Immaginiamo la scena di un gruppo di questi iper-mimetici antenati proto-umani che circondano un oggetto di appetito. Immaginiamoli che puntano all'oggetto con gesti di appropriazione, muovendosi verso di esso. Immaginiamo una certa uguaglianza di imitazione aggressiva, che si rinforza vicendevolmente—mentre puntano all'oggetto, essi sono consapevoli che ciascun altro sta puntando all'oggetto e consapevoli dell'oggetto stesso. Sono consapevoli che ciascun altro è consapevole dell'oggetto. Ma questo semplice puntare non è ancora il segno umano. Esso è ancora soltanto un riferimento indessicale, non una paradossale simbolizzazione ostensiva. L'oggetto è solo un oggetto commestibile e gli animali che puntano all'oggetto sono "consapevoli" dell'oggetto solo come oggetto di appetito. Questo è quasi il "gesto di appropriazione interrotto" che marca il passaggio dal non-umano all'umano, ma gli manca l'interruzione. Non è ancora pienamente un segno umano perché ad ogni istante uno degli animali nell'ordine di dominanza può rompere la competizione mimetica e appropriarsi dell'intero oggetto. L'ordine di beccata, la gerarchia della dominanza, a quel punto si ristabilirà e farà il meglio che può, tramite le forme del contenimento "istintuale", per preservare l'esistenza del gruppo umanoide.

Di contro, il primo uso del segno umano avviene quando, nel mezzo di una crisi mimetica estremamente intensa, uno di quegli umanoidi che stanno facendo gesti indessicali di appropriazione interrompe il suo gesto di appropriazione e diviene consapevole del suo gesto di appropriazione come di una cosa in sé. Per questo umanoide il gesto è divenuto, paradossalmente, una cosa in sé. Il segno è divenuto una cosa in sé, anche se esso non è realmente la cosa. Anche gesti e suoni diventano—seppure fugacemente—oggetti dell'attenzione della creatura. Il gesto interrotto di appropriazione ha differito la violenza della creatura, per quanto solo momentaneamente. Il primo utilizzatore del segno umano, poiché è consapevole del segno come cosa in sé, intende il suo gesto. Egli è consapevole che sta usando un segno come un'intenzionale cosa-in-sé. Il suo gesto di appropriazione interrotto rappresenta la sua intenzione di non appropriarsi dell'oggetto centrale. Ma la sua consapevolezza del segno come cosa-in-sé produce una nuova forma di consapevolezza dell'oggetto: l'oggetto ora è significante, reso tale dal segno. Egli non solo è consapevole dell'oggetto di appetizione, ma consapevole dell'oggetto come significante in modo differenziale, come qualcosa che la sua intenzione di non appropriarsene, come rappresentata nel suo gesto di appropriazione interrotto, sta rendendo significante su una scena di rappresentazione. L'oggetto centrale non è più meramente puntato, esso ora viene significato: esso di colpo è diventato il primo oggetto di attenzione non-istintuale (il primo oggetto significante) e il primo oggetto di non-appropriazione istintuale. Tutto questo avviene in un istante.

Ma fermarsi a questo punto sarebbe fuorviante, o addirittura inaccurato. Il primo essere che ha usato il segno umano da solo non può creare il linguaggio umano e non lo crea: il segno umano emerge solo in un contesto collettivo. A rigor di termini, se nessun altro umanoide del gruppo imitasse il primo, se nessun altro secondo (terzo, quarto) afferrasse l'intenzione invisibile dell'utilizzatore originario del segno di non appropriarsi dell'oggetto, il gruppo non sarebbe cambiato, e l'umanità non sorgerebbe (5). Il segno non "attecchirebbe": l'umano emerge come comunità o non emerge per nulla (6). Altri membri del gruppo proto-umano debbono notare il gesto di appropriazione interrotto del primo utilizzatore del segno: essi devono imitare il segno come un gesto che intende non appropriarsi dell'oggetto centrale, facendo a loro volta gesti di appropriazione interrotti. Per quanto breve e fugace possa essere stata questa scoperta/invenzione condivisa del segno, gli utilizzatori del segno, dopo una consumazione dell'oggetto cibo che soddisfa violentemente l'appetito, ricordano l'uso del segno. La sua trasfigurazione dell'oggetto offre a ciascuno di loro, in una forma originaria di piacere estetico, un momentaneo sollievo dalla violenza della competizione mimetica (sollievo dalla violenza del loro risentimento per l'assoluta inaccessibilità dell'oggetto centrale, sollievo dalla violenza della loro sopportazione del desiderio per esso che non può essere soddisfatto). Essi hanno sperimentato la libertà di rappresentare la cosa, la libertà di scegliere la rappresentazione della cosa come differente dalla cosa stessa: e quell'esperienza dell'evento della rappresentazione scenica è stata memorabile. Dopo aver consumato l'oggetto, il gruppo di umani, la comunità umana originaria, ricorda insieme l'evento scenico, l'effetto temporaneo del segno umano mimeticamente indotto che ha portato una temporanea pace. Un evento, per definizione, deve essere memorabile. Il segno conferisce alla comunità umana originaria un accesso ad un nuovo livello dell'essere—il livello dell'evento collettivo condiviso, l'essere di quello che è collettivamente memorabile (7).

Perché quest'evento è memorabile? Esso è memorabile perché nella violenta intensità della competizione mimetica per l'oggetto, il segno condiviso differisce la violenza mediante la rappresentazione. L'oggetto centrale è diventato qualcosa di differente da un  mero oggetto di appetito o di attenzione istintuale. Esso rimane quello, ma ora è più di quello. L'oggetto centrale occupa un nuovo livello dell'essere. Esso è stato trasfigurato. Una volta rappresentato, è divenuto un oggetto di desiderio (in quanto distinto dall'appetito): ciascun membro della comunità lo desidera tanto più, precisamente perché nessuno può possederlo per se stesso finché il segno ostensivo differisce nello stesso istante la violenza appropriativa di ciascuno. Una volta rappresentato, quello che era oggetto di appetito diventa un oggetto di risentimento umano collettivo: tutti gli appartenenti alla comunità periferica attribuiscono all'oggetto centrale un intenzionale auto-sottrarsi equivalente al loro proprio intenzionale uso del segno. Quello che i nascenti esseri umani ora condividono, ciò che li rende "uguali" l'uno all'altro nella comunità originaria, è il loro accesso al segno ostensivo scambiabile come mezzo per differire la violenza mediante la rappresentazione. Proprio come il loro uso del segno differisce sia la loro violenta appropriazione e il consumo dell'oggetto-di-desiderio centrale sia la loro violenza reciproca, così quell'oggetto centrale di desiderio ora sembra possedere un suo proprio trasfigurato potere di azione, sembra resistere al loro desiderio di consumo in un modo nuovo. L'oggetto centrale verso cui tutti si protendevano e che tutti si sono trattenuti dall'afferrare è il primo oggetto sacro che rivela l'Essere centrale, perché esso è l'oggetto di un desiderio comunitariamente universale e di un risentimento comunitariamente universale. Il livello di essere creato dal segno originario è quello dell'Essere del sacro e significante. La categoria del sacro, tuttavia, non è l'idea di Dio. Esso è indifferenziato. Si possono concepire molti oggetti sacri che non è necessario identificare con Dio. L'oggetto sacro centrale stesso non è Dio più di quanto la piramide sia l'Antico Egitto o il corpo dormiente sia l'anima dell'amata.

Ora noi siamo pronti a prendere in considerazione l'idea antropologica di Dio propria del pensiero originario. Ecco due passaggi dall'importante capitolo di Originary Thinking (1993).

Questa rivelazione può essere compresa, e questo esattamente dall'inizio, soltanto come apparizione di Dio piuttosto che come sua sussistenza nel particolare essere fisico in questione. Perché l'idea di Dio è l'idea di quello che sussiste nell'assenza dell'essere fisico, e questa sussistenza sovratemporale del centro scenico rispetto alla presenza dell'essere temporale che lo riempie è una conseguenza diretta dell'esperienza originaria della rappresentazione [...] Il segno può designare soltanto ciò che occupa il centro della scena, e l'essere del centro, il centro-come-essere, è ciò che noi chiamiamo Dio. Se questo è vero per noi oggi, deve essere stato vero fin dall'inizio, poiché non vi è alcun punto in cui Dio, per quanto egli possa essere stato compreso tramite la mediazione di rappresentazioni figurali,  possa essere stato compreso come meno di questo (p. 38) [corsivo di A. B.]

E il secondo passo:

L'uso del segno crea la scena tanto quanto la scena provoca il segno. [ ... ] Deve essere definito un qualche significato sussistente a cui il segno come tale possa universalmente riferirsi. Questo significato, concepito non come un costrutto mentale ma come un essere, è quello che noi chiamiamo Dio.

Dio è il locus centrale della scena della rappresentazione concepito come un essere. Questo essere non si rivela come tale: esso è rivelato solo nella figura di qualsiasi cosa occupi questo locus nella scena originaria. Dio e l'umano nascono contemporaneamente da questa scena: questa è la conseguenza immediata dell'ipotesi (p. 40).

Se dovessi scegliere da questi passi un'espressione che sintetizzi l'idea antropologica di Dio, sarebbe questo: "Dio è il locus centrale della scena della rappresentazione concepito come un essere" (p. 40). Questa formulazione suona così astratta che lo scienziato sperimentale, che odora di sostanze chimiche di laboratorio, potrebbe fare spallucce come davanti ad una irrilevanza filosofica, mentre il teologo, scuotendosi dalla giacca la polvere dei libri della biblioteca su Yahvè, Gesù o Budda, potrebbe lamentarne l'austera impersonalità. Nondimeno, io sostengo che nel più ampio contesto dei testi fondatori dell'antropologia generativa non è incoerente azzardarsi ad asserire che l'essere di questo Dio può essere affermato come Essere. Gans ha scritto che "l'ipotesi originaria non ci richiede di credere in Dio perché essa non presuppone l'anteriorità del sacro all'umano" (Dio esiste?). Sì: ma nel contempo tuttavia l'ipotesi ci invita a credere in un Dio il cui Essere minimale diviene indispensabile per noi con il sorgere stesso dell'umano. L'idea antropologica di Dio crea uno spazio nel quale noi possiamo "credere in" Dio anche mentre crediamo nella "scienza moderna" senza riserve, esitazioni o imbarazzi. L'essere di questo Dio può essere affermato come quello di un Essere formalmente e paradossalmente necessario; come quello di un essere afigurale; e come quello di un Essere la cui presenza percepita è inseparabile dal sempre rinnovato processo dell'amore umano. Secondo questa idea antropologica di Dio, dove e quando gli umani si amano reciprocamente, lì c'è Dio.

Questo Dio può essere affermato come essere formalmente necessario. Per "formalmente necessario" intendo sia che il segno umano non può diventare operativo senza la credenza collettiva in questo essere, sia che, ugualmente, la credenza collettiva stessa è una necessità formale dell'evento originario che è proposto dall'antropologia generativa. L'ipotesi dell'origine del linguaggio avanzata dall'antropologia generativa è una teoria formale della rappresentazione. Nell'uso originario del segno, la comunità umana deve la sua coerenza ad una memoria condivisa dell'Essere che viene ad essere compreso (molto, molto più tardi nel tempo storico) sotto il nome di Dio (8). Che cosa impedisce che l'evento che abbiamo descritto sia accaduto una volta ma non una seconda? L'azione della "memoria significante". Nel continuo uso del riferimento simbolico ostensivo per richiamare l'oggetto centrale sacro, i nostri primi antenati giunsero a comprendere il locus centrale della scena stessa come occupato da un Essere separabile dall'oggetto particolare che lo aveva rivelato: "Come il centro della scena rimane dopo che il suo occupante è stato smembrato nello sparagmos, così rimane il segno che si riferisce ad esso. Secondo quest'ipotesi, l'essere che chiamiamo 'Dio' è il significato, che continua a sussistere, del segno originario, l'essere la cui permanenza corrisponde alla permanenza del segno stesso" (Why Do We Believe in GA?). È solo quell'essere invisibile, l'Essere compreso come rivelato dal sacro, bello o desiderabile oggetto nel centro (ora distrutto-e-consumato), che merita di essere chiamato Dio. L'invisibilità dell'Essere sacro può essere considerata un effetto dell'invisibilità dell'intenzionalità del primo utilizzatore del segno (9).

La necessità formale dell'Essere cui spetta il nome di Dio deriva dal fatto che la relazione paradossale tra segno e oggetto, tra l'utilizzatore periferico del segno e l'oggetto centrale sacro, è la relazione che, essa stessa, genera l'intenzionalità mimetica che distingue la rappresentazione umana dai sistemi di segni degli animali. La trasfigurazione dell'oggetto centrale di appetito in un oggetto sacro di risentimento e desiderio, e il susseguente ricordo dell'Essere che sussiste nel locus centrale in assenza dell'oggetto commestibile centrale consumato, sono effetti real-mondani che non sarebbero potuti derivare da alcuna proprietà del mero oggetto commestibile. L'oggetto immanente di appetito, come figura rivelativa dell'essere divino, può essere percepita: ma l'Essere del centro sacro di per sé è per definizione impercettibile, perché il suo essere, su di un nuovo livello, è l'effetto dell'oggetto in quanto viene inteso come significato trascendentale dei gesti di interruzione compiuti dall'utilizzatore del segno. La trasfigurazione e l'essere-ricordato del locus centrale concepito come un Essere sono gli effetti di un particolare insieme di circostanze che hanno portato i nostri antenati proto-umani al livello e sulla scena dell'essere umano, e tuttavia i nostri antenati hanno scelto di esservi portati. La scelta-evento costituisce il paradosso originario della necessità cosmica della libertà umana dal cosmos.

Soffermiamoci ora sulla paradossale verità originaria del coevo emergere di Dio e dell'umano. L'insieme scenico di circostanze "deterministiche" e lo spazio d'un capello in cui si è dato il "libero volere" di usare il segno debbono essere descritti insieme, come un paradosso formale. L'evento originario è stato una situazione paradossale, una situazione di crisi nella quale (mi ripeto) se noi fossimo stati lì ad osservare dall'esterno non avremmo potuto percepire la distinzione dell'intenzionale dall'accidentale.  Noi abbiamo scelto liberamente di usare il segno: noi non avevamo altra scelta che usare il segno o non diventare mai umani. Nel nostro essere umani noi non siamo mai al di fuori di questa scena del differimento della violenza mediante la rappresentazione. Noi rimaniamo dentro di essa. Siamo i suoi eredi (10). Affermare che l'evento potrebbe non essere mai accaduto è dire una verità: ma dire questa verità è ugualmente soltanto un modo di riconoscere la nostra consapevolezza che di fatto l'evento c'è stato. Perché scandalizzarsi della possibilità che esso potrebbe non essere mai accaduto (11), quando l'evento originario di fatto è "già sempre" accaduto, come ci dice la nostra stessa consapevolezza dello scandalo in sé? (12) L'intenzionalità che noi esercitiamo nel proporre la stessa ipotesi originaria è una cosa sola con l'intenzionalità dei nostri primi antenati umani che hanno differito la loro violenza nella loro condivisa espressione del nome-di-Dio.

Allo stesso modo, l'affermazione che la nostra libertà originaria di scegliere il segno e nominare così Dio è dipesa o risultata da un particolare insieme di circostanze cosmologiche "randomiche" evolutesi casualmente non è più avvilente per noi come umani di quanto sia avvilente per il cosmo dire che l'unica specie in grado di rappresentarlo siamo noi. Lo scienziato che dice che questa "necessità formale paradossale" di Dio rende Dio irrilevante è uno che desidera ridurre Dio a qualcosa di altro dall'Altro paradossale e trascendente dell'umano: uno scienziato del genere vuol confinare l'essere di Dio nello spazio del soggetto grammaticale di una proposizione che può essere falsificata, verificata, analizzata, confutata. Egli vuole che Dio sia una "cosa" sulla o fuori della scena della rappresentazione. Ma Dio è quell'Uno senza il quale anzitutto non vi sarebbe stata alcuna scena ricordata. Dio è "il locus centrale della scena della rappresentazione concepito come un essere". Il punto è riconoscere che l'essere di Dio non può essere afferrato come se Dio fosse un'entità percepibile sullo stesso livello di un uomo delle nevi, di un unicorno, del fantasma della nonna o dell'angelo custode. Ogni verità o fede deve essere una verità ostensiva, e la verità dell'essere di Dio è quella di un'intenzionalità invisibile la verifica della cui esistenza è per definizione inaccessibile alle pure "logica ed evidenza" (13).

D'altra parte, il credente religioso che dice che questa "necessità formale paradossale" riduce Dio ad un epifenomeno del linguaggio resiste anche lui all'offerta da parte dell'antropologia generativa di un terreno minimo comune tra credenza e non credenza. Poiché il pensiero originario non ci invita affatto a vedere in Dio un mero epifenomeno del linguaggio, ma piuttosto a riconoscere Dio come quell'Uno il cui nome è proprio quello dell'Essere senza credere nel quale il linguaggio umano, e la stessa umanità, non sarebbero mai giunti ad essere. Noi abbiamo dovuto nominare Dio. Dio ha dovuto essere per noi, anche se ora noi godiamo della libertà di lasciarcelo alle spalle. L'essere invisibile nominato dal nome-di-Dio è stato, è, sarà e sarà stato sempre l'Altro trascendente originario della comunità umana. Il segno umano opera i suoi effetti intenzionali sulla base di una fede in quel livello dell'essere proprio unicamente del segno umano, il livello del significativo: se verrà il giorno in cui l'umano sarà stato ridotto al totalmente insignificante, quello sarà il giorno in cui si vedrà la completa sparizione della fede umana nel segno come gesto significativo condiviso. Equivalente ad una tale sparizione completa della fede nella rappresentazione non sarebbe l'universalità della negazione dell'"esistenza" di Dio, ma (qualcosa di peggio) la negazione universale della possibilità stessa dell'intenzionalità trascendentale del segno umano, del quale Dio è stato il primo significato. Invito il credente religioso a considerare come sarebbe inappropriatamente riduttivo per Dio essere qualcosa di meno, o qualcun Altro, che l'unico Essere la cui inaccessibile e inimitabile centralità sulla scena della rappresentazione rende possibile la significatività del linguaggio umano (14). L'ateo che teme e desidera evitare la condizione umana di servitù rispetto a Dio può allo stesso modo trovare qui un terreno di incontro col credente che teme e desidera evitare la denigrazione di Dio da parte dell'uomo, nello spazio aperto dalla nostra idea antropologica: alla luce dell'ipotesi originaria, affermare che l'essere di Dio è formalmente necessario non significa rendere l'umano vergognosamente dipendente da Dio più di quel che significhi rendere Dio dipendente dall'umano.

L'essere di questo Dio può essere affermato come quello di un Essere afigurale. Nella sua minimalità, l'antropologia generativa deve molto alla rivelazione mosaica in particolare come prima rivelazione del Dio monoteistico. Come afferma Gans, la "figura primaria" del Giudaismo è l'Esodo, il ritirarsi: "Dio si ritira dal figurale, che è anche il sacrificale" (SP 152). Quando Jahvè annuncia a Mosè il suo nome nella forma di una frase dichiarativa, Jahvè rigetta ogni possibilità di essere assimilato ad una  entità figurabile particolare. "Il ritirarsi di Dio nell'Esodo dalla figura stessa significa la rivelazione che la base della scenicità umana non è figurale, che essa è inerente alla struttura circolare—minimalmente: triangolare—della mimesi (SP 109). L'afiguralità di Dio è la garanzia che l'Essere Divino non può mai avere un rivale, poiché qualsiasi cosa sia figurabile può essere il rivale di un figura alternativa. Nulla e nessuno può sostituirsi al Dio la cui una e unica presenza crea l'umano: Dio dev'essere senza rivali. La radicale iconoclastia del monoteismo narrativo ebraico afferma l'assoluta differenza tra Dio e l'umano, l'assoluta differenza tra l'Essere che sussiste come occupante il centro sacro non figurabile e gli umani utilizzatori del segno alla periferia della scena della rappresentazione che cercano di trovare il nome appropriato per questo essere, solo per scoprire, al limite, il rifiuto dell'Essere di essere nominato altrimenti che come Dio il non figurabile (15).

Questa afiguralità del concetto minimale di Dio proposto dall'antropologia generativa sembra imporre al credente religioso occidentale, specialmente a quello non pratico di "pensiero mistico" e attaccato ad un'immagine della personalità di Dio, certe restrizioni che potrebbero essere avvertite inizialmente come spiacevolmente ascetiche (16). Poiché tutte le immagini antropomorfiche relative a Dio, tutte le qualità umane attribuite a Dio da scivolamento metaforico o indulgenza estetica, nel contesto della minimalità dell'idea antropologica di Dio devono essere delicatamente e rispettosamente accantonate per qualche tempo (17). L'antropologia generativa è ben lungi dall'essere ostile al bisogno umano essenziale del piacere estetico (un understatement!), ma egualmente ci invita a distinguere tra la rigorosa austerità collettiva dell'esperienza sacra e i più liberi piaceri dell'esperienza estetica, con la sua oscillazione tra l'inviolabilità riconosciuta dell'oggetto centrale e il suo (piacevole) possesso immaginario. L'estetico è un effetto che non può essere soppresso (OT 122 - 123), la cui stessa caratteristica presuppone la sua libertà dalle costrizioni istituzionali che generano l'esperienza del sacro. L'afiguralità dell'Essere proposta dall'idea antropologica di Dio è una sola cosa con la minimalità della descrizione che l'antropologia generativa fa delle componenti essenziali dell'umano come quelle atte ad essere coinvolte nella descrizione di un unico evento. L'idea antropologica di Dio non è certamente quella di una divinità che occupa il cielo. Prendendo a prestito qualche frase da Errol Harris, non è l'idea di "una sorta di fantasma onnipresente, che governa gli oggetti naturali e dirige gli eventi naturali indipendentemente dalle leggi naturali, o di qualche potentato soprannaturale capace di punire gli uomini quando peccano o di ricompensarli quando sono virtuosi, di proteggerli quando sono minacciati e di confortarli quando sono in difficoltà" (47). I fondamentalismi particolari sono gentilmente invitati a considerare la possibilità di sospendere qualcuno dei loro piaceri estetici, così da concedersi l'opportunità di profittare, seppure in via di esperimento, dell'effetto benefico del tentativo di afferrare l'universale scambiabile della idea antropologica minimale di Dio. L'idea non è un comune denominatore costitutivo nel quale tutta la gente religiosa debba credere. Piuttosto, è la presupposizione non-violenta della presenza dell'Essere che garantisce la scambiabilità dei segni umani quella che rende possibile il dialogo intorno a diversi oggetti di credenza.

Nello stesso tempo, le teologie liberali che si avviluppano in contorcimenti epistemologici miranti a trovare posto per un Dio dei Vuoti che "intervenga" nella storia umana—sia attraverso i concetti della azione divina generale o dell'azione divina speciale, concetti di Dio come pianificatore matematico o ideatore dell'evoluzione cosmologica che assicura che in qualche modo la specie umana risponde ad una finalità  cancellando "spreco, caso e dolore" che i darwinisti atei con sadico ghigno ci sbattono sul muso—queste teologie liberali qui incontrano una sfida amichevole. Poiché l'idea antropologica di Dio mette tranquillamente da parte il dilemma di cosa dovremmo farne degli immensi eoni di attività cosmica che hanno preceduto la nascita dell'umano. Essa ci permette di affermare l'essere che Dio è, ma questo Essere è un Dio che è per noi fino al punto che semplicemente potrebbe non essere esistito prima di noi (o della comunità umana). O allo stesso modo potremmo dire che se Dio è esistito prima di noi, quello che "faceva" allora in realtà non interessa a noi in quanto umani. Rocce e ghiacciai, protoplasma e dinosauri non hanno il bisogno di Dio che abbiamo noi. Il credente non dovrebbe necessariamente trovare che questo coevo emergere di Dio e dell'umano costituisca un insulto a Dio. Una breve riflessione apre la possibilità che l'idea antropologica di dio, al contrario, accresca la nostra intimità con l'essere di Dio, e unisca Dio con noi in un modo fino a questo punto impossibile per un Dio intrappolato nella teologia metafisica senza necessità impelagata, e forse impelagata vanamente, nella questione senza risposta del significato etico dell'esistenza della gravità e delle galassie e dei gas, dei microbi e dei nanosecondi e dei quark. Nulla di tutto ciò ha bisogno di Dio, e non occorre pensare che quelle cose richiedano Dio per poter esistere. Soltanto noi umani veniamo ad essere mediante la dipendenza dall'Essere la cui Alterità è stata abbastanza memorabile da stringerci insieme nel ricordare la sua bellezza, bontà, potenza ecc. Soltanto noi abbiamo bisogno di Dio nel nostro modo umano. Né il dire che Dio e l'umano sono coevi implica che i nostri originari antenati abbiano inteso costruirsi Dio, come i preti cinici della cinica fantasia illuministica contro i quali Voltaire diresse il suo imperativo "Écrasez l'infâme". L'idea antropologica di Dio propone piuttosto che i nostri antenati abbiano voluto un'affermazione formalmente necessaria dell'essere di Dio, che è qualcosa di alquanto differente dal costruire una finzione per nostra convenienza. Invero, non vi era nulla di conveniente nel nostro nominare Dio: al momento della crisi mimetica originaria, noi siamo stati—paradossalmente—tanto legati alla necessità di nominare Dio quanto posti improvvisamente di fronte alla libertà di nominare Dio oppure no. Il paradosso potrebbe essere posto in questi termini: nell'esercitare la libertà di proferire il nome-di-Dio noi abbiamo fatto quello che era necessario per poter diventare umani. Dio comincia ad esistere per noi nel momento in cui diventiamo umani. Pertanto, possiamo godere la verità della nostra comune fede umana minimale nel dire che Dio all'origine non ci ha costretti a nominare il suo Essere divino, ma quel nominare non sarebbe nemmeno stato possibile senza che Dio solo fosse colui che noi dovevamo trovare come degno di essere così nominato. L'idea antropologica di Dio non argomenta che un Dio esistente prima di noi umani ci ha fatti in modo che noi non avevamo altra scelta che fingercelo, vittime dell'illusione necessaria di Freud o dell'oppio stordente di Marx. Piuttosto, l'idea antropologica di Dio sostiene che l'umanità fu "fatta" in un evento unico che non si sarebbe potuto verificare senza la presenza di un Essere compreso dalla comunità umana originaria come un essere che abbiamo dovuto nominare Dio a causa della Sua differenza da noi, come l'Unico rivelato dalla nostra intenzione di non distruggere l'oggetto centrale di desiderio e risentimento da cui l'essere è rivelato, ma invece di significare l'oggetto (e così rivelare l'Essere Divino che solo rende l'oggetto un oggetto di attenzione umana). L'essere che noi nominiamo Dio è l'Altro dell'umanità nel senso che la nostra esperienza della trascendenza (come modellata dalla nostra esperienza del segno) è descritta nel modo più minimale come l'esperienza dell'Essere centrale sussistente sulla scena della rappresentazione la cui presenza minimale fa la massima differenza tra l'umano che viene o non viene all'esistenza. L'afiguralità del Dio dell'umanità si accorda perfettamente con la minimalità dell'antropologia generativa.

Che implicazioni ha per una cosmologia ateistica l'afiguralità del Dio minimale il cui essere è affermato dall'antropologia generativa? Da un lato, l'ateo deve smetterla proprio con la stessa cosa con cui deve smetterla il credente idolatrico: il legame con gli idoli stessi. È degno di nota il fatto che gli idoli di cartone, le divinità antropomorfiche e gli agenti "soprannaturali" cari ai credenti religiosi ingenui siano altrettanto cari agli iconoclasti atei: l'intensità dell'attaccamento all'oggetto centrale come figura è uguale in ciascun caso a quella dell'altro. La differenza è soltanto che il credente desidera che la figura sacra sia mantenuta sicuramente intatta per una contemplazione serena, mentre l'ateo desidera che la figura rimanga eternamente disponibile per episodi ripetuti di demolizione che possano dargli piacere: "il risentimento contro la divinità dura più a lungo della fede in essa" (SP 68-69). D'altro lato, qui rivolgiamo all'ateo un invito cortese. Noi chiediamo che l'ateo conceda soltanto che "il processo dell'oblio" dell'idea di Dio (OT 42), processo che è iniziato proprio dall'alba della storia umana (quando gli umani cominciarono a rendersi conto attraverso la pluralità dei significati che la persistenza della scena della rappresentazione stessa non richiedeva la presenza dell'essere centrale sacro in una singola incarnazione), è un processo che "non può mai essere concluso" (OT 42). L'ateo deve sempre rimanere "uno che respinge la credenza in Dio, non uno per cui il concetto stesso è vuoto" (OT 43).

Ma che cosa significa rinunciare ad affermare che il concetto stesso di Dio è vuoto? Perché l'antropologia generativa chiede all'ateo di fare questa concessione, chiede all'ateo di non insistere su un tale vuoto?

L'atteggiamento dell'antropologia generativa è quello di andare oltre la frase dichiarativa fino al gesto ostensivo che fonda il linguaggio umano, quello di proporre alla nostra riflessione il gesto ostensivo originario che determina la scenicità e la natura di evento della cultura umana. Nell'universo del discorso puramente filosofico (della "metafisica" come lo definisce Gans) è certamente possibile continuare a sottoporre Dio alla prova come se Dio fosse solo un'altra cosa nell' universo che noi possiamo nominare o non nominare, un'altra entità la cui esistenza possiamo verificare o non verificare. Questo è Dio come soggetto del concetto umano, Dio come un essere soggetto alla forma del concetto filosofico. Ma il proposito dell'idea antropologica di Dio è di liberarci, e liberare l'idea di Dio, dall'errore categoriale che consiste precisamente nel mancare di riconoscere la differenza tra l'ambito della verità ostensiva della fede (di cui fino ad ora l'unica guardiana è stata la religione) e quello della verità dichiarativa della ragione (di cui è stata campione la filosofia, inclusa la filosofia naturale o scienza moderna come noi la conosciamo).

Sottoponiamo Dio alla prova. Diciamo: Dio esiste. Diciamo: Dio non esiste (come dire: m'ama, non m'ama). Nel formare queste frasi, noi già usciamo dalla scena della significazione ostensiva, poiché immaginiamo modelli di cosmo alternativi, un universo che include un essere chiamato "Dio", un altro universo che esclude l'essere chiamato Dio. Ma la verità ostensiva della fede, senza le precedenti operazioni da cui la verità dichiarativa della ragione non si sarebbe mai potuta evolvere, opera in una sfera in cui non ci si può concedere il lusso di proporre modelli alternativi dell'universo: "In tempi di crisi, Dio è presente, non in un qualche senso ineffabile, ma come l'interlocutore dell'ultima possibilità. Dio è quello che è nominato dal nome che noi proferiamo nel nostro panico" (L'unica fonte, 51-52). Il lusso di prendere in considerazione modelli alternativi dell'universo segue soltanto dall'avvento del linguaggio dichiarativo. L'invito indirettamente esteso alla filosofia positivista mediante questa richiesta di una rinuncia sacrificale all'affermazione il concetto stesso di Dio è vuoto potrebbe essere descritto come un invito alla filosofia perché si connetta all'antropologia riconoscendo il bisogno, che dopo tutto appartiene anche alla filosofia, di trovare un modello ipotetico che possa spiegare l'origine del linguaggio umano che la filosofia stessa dispiega con tale ammirevole cura e sofisticazione. "Il linguaggio si è evoluto" non spiega nulla.  L'antropologia generativa ipotizza il luogo di un segno ostensivo paradossale all'origine del linguaggio umano, il segno che liberamente nomina l'Essere sacro perché l'Essere sacro deve essere nominato. L'idea è che prima che noi possiamo aver immaginato Dio come non esistente. noi dobbiamo aver già affermato che Dio è: nessuno gioca a "m'ama, non m'ama" se non ha già in mente una persona dotata di significato. In termini minimali, il livello dell'essere che chiamiamo "il significativo" deve esso stesso emergere prima che noi siamo in grado di decidere se questa o quella particolare proposizione è vera o no. La finzione non è una deformazione della verità originaria. Al contrario, "la finzione è dall'inizio il differimento della verità: l'una non ha esistenza concettuale senza l'altra" (SP 63).

La proposta prende allora la forma della domanda: quale concetto nella storia delle credenze umane possiamo trovare che sia più significativo di quello di Dio? Dov'è il filosofo che, messi da parte gli attacchi al culto idolatrico ingenuo, è disponibile a dire che la stessa idea di Dio è totalmente priva di significato? Certamente qualcuno lo possiamo trovare. Ce ne sono in giro. Ma sono filosofi che sembrano non farcela a capire come la significatività dei segni umani in tutta la loro abbagliante, stupefacente pluralità possa essere pensata come avente il suo più economico tipo originario nella significatività della singola idea di Dio (18). Il significato non è la pura e semplice verificabilità empirica, né il significato è confinato nel falsificabile o nella verità come corrispondenza della ragione. Il significato è quell'esperienza del differimento della violenza mediante la rappresentazione che noi condividiamo per mezzo del segno umano: quello che condividiamo nell'intendere il segno significativo non è la prova assoluta dell'"esistenza" dell'essere rivelato dall'oggetto inteso a cui il segno si riferisce, ma piuttosto il differimento della violenza appropriativa mediante la rappresentazione intenzionale di quello stesso oggetto. Che "Dio esista" o "Dio non esista" è irrilevante per la questione se l'idea di Dio sia significativa: l'Essere che differisce la nostra violenza mediante la rappresentazione è l'Essere il cui rispetto fa nascere la possibilità reale per noi di far esistere il significativo. Un'ontologia dell'umano che cerchi di ridurre l'esperienza umana significativa al nulla ad eccezione dell'esperienza razionalmente connessa alla ricerca di una verità come corrispondenza empiricamente verificabile è in verità un'ontologia sacrificale che fa sembrare Procuste simile all'omino di farina della pubblicità [si riferisce al "Pillsbury Doughboy", un pupazzetto del marchio Pillsbury – nota di F.B.].

La caratteristica primaria del segno è che crea un nuovo livello dell'essere. Questo livello dell'essere è il significativo. Come nello stesso tempo il più universale (e secondo l'ipotesi originaria, il più minimale) simbolo umano del significativo, come quel gesto verso quel sacro Altro Essere dal quale la comunità umana differisce minimalmente e di fronte al quale la comunità umana trova la sua capacità condivisa di nominare il significativo, Dio è. Questa realizzazione autoprobatoria dell'originaria rivelazione di Dio si mantiene vera sia che Dio "esista" sia che non "esista", in quanto la significatività dell'idea di Dio (da non confondersi con l'"esistenza" di Dio come una qualche entità cosmologica figurabile) si colloca al di là della disputa. Noi non saremo mai in grado di trovare un'evidenza percepibile dell'esistenza di Dio come entità, nello stesso modo in cui non saremo mai in grado di trovare un'evidenza percepibile delle intenzioni dei nostri vicini umani nei nostri confronti. Il comportamento è visibile, le professioni verbali di intenzione sono udibili: ma l'intenzione in sé non è mai verificabile empiricamente. M'ama, non m'ama. Debbo aver fiducia che la mia donna mi ami, se io credo che lei mi ami; se dovessi decidere ogni istante di ogni giorno che la mia donna mi ama basandomi sull'evidenza scientifica disponibile, io non crederei nel suo amore. Noi sperimentiamo le verità di fede come rivelazioni: non possiamo decidere di credere in esse sulla base della pura evidenza, perché se lo facessimo cesserebbero di essere verità di fede. La verità ostensiva della fede è la verità della rivelazione autoprobatoria. Di contro, la verità dichiarativa è la verità della ragione, di un modello ipotetico di realtà che può essere verificato confrontandolo con la realtà e trovando che ad essa corrisponde. Le verifiche procedurali delle verità di corrispondenza sono ripetibili e condividono un carattere rituale pubblico, ma le verità ostensive delle rivelazioni uniche non sono disponibili per una ripetizione del genere. La relazione dell'intenzionalità del segno umano con il suo oggetto significativo e l'essere trascendente che l'oggetto rivela rimane sempre invisibile e deve essere assunta per fede. Questa è la fede ostensiva che fonda la comunità umana: il modello più semplice della nostra fede reciproca in ciascuno di noi come utilizzatore del linguaggio è quello della fede non nell'esistenza verificabile di Dio, ma nella sua significatività condivisibile. Tutti noi abbiamo una qualche idea di chi sia Dio, che noi crediamo o non nella sua esistenza. Questo è il motivo per cui l'antropologia generativa chiede all'ateo di fare soltanto la concessione di arrestare il suo movimento verso la violenza nichilistica della pretesa rivoluzionaria che il concetto stesso di Dio sia vuoto. In quel che noi chiediamo, l'ateo non deve sopportare alcuna umiliante concessione all'irrazionalità. E non sarà violata la sua libertà di non credere in Dio. Al contrario, paradossalmente, noi chiediamo all'ateo di riconoscere che la decisione di "non credere in Dio" significa qualcosa. Forse come verifica originaria, essa punta a quello che viene assunto come il nascondimento di "un'assenza definitiva" (SP 62). L'antropologia generativa non esita affatto a garantire all'ateo la libertà di insistere teatralmente sul fatto che Dio realmente è una finzione. Solo che questa finzione è reale, e la sua realtà è significativa.

L'essere del Dio che può essere affermato dall'antropologia generativa è (finalmente, in terzo luogo) quello di un Essere la cui presenza è inseparabile dal processo dell'amore umano. Ecco una delle più lunghe esposizioni gansiane dell'insieme di ipotesi che muovono verso la formulazione di una teologia antropologica dell'Amore.

Se il primo segno è il nome-di-Dio, allora Dio stesso è differenza significante. L'amore di Dio non è l'adorazione della sua superiorità, ma la volontà di accettare la differenza [divina], come la differenza sessuale dell'essere amato, come fonte di reciprocità. L'Essere sacro che chiamiamo Dio è quello che rimane quando l'essere centrale desiderato da tutti e a cui tutti hanno rinunciato non c'è più [essendo stato consumato nello sparagmos]. Noi non possiamo comprendere questo Essere come amore se non rimpiazziamo la tradizionale idea sostanzialistica di Dio come entità soprannaturale con l'intuizione che ciò che sta dietro la significanza dell'oggetto centrale non è sostanza ma interazione. L'Essere che differisce la nostra violenza mediante la rappresentazione è non più che il nostro stesso atto di differimento. ("Dio è Amore)

Lo scettico o l'ateo potrebbero allegramente ricavare da questo punto una prova che l'antropologia generativa, un modo di pensiero "secolare", ci libera da qualsiasi obbligo di pensare la personalità di Dio perché Dio secondo l'ipotesi è il nostro stesso atto di differimento. Tuttavia, quest'allegria decostruttiva potrebbe essere erroneamente prematura. Poiché "il nostro stesso atto di differimento" include, paradossalmente, l'originario nominare l'Essere Divino come Persona—sebbene minimalmente—la cui personalità è l'originario modello non-umano della personalità umana. Un essere non è necessariamente una persona: ma l'Essere divino, in quanto è un Essere che può essere descritto come uno che ama l'umanità o dona del Sé all'umanità, deve essere descritto come una persona (19). Gans ha detto ripetutamente che è vocazione del pensiero originario quella di fare con ipotesi ciò che la religione ha sempre fatto col mito: incoraggiare la riflessione sulla qualità necessariamente evenemenziale dell'origine dell'umano.

Forse non dovrebbe risultare sorprendente che l'antropologia generativa inviti a rispettare la differenza divino-umano in un modo non troppo diverso da quello in cui la religione (comprendendovi le religioni "secolarizzate" del progresso scientifico o dell'utopismo socialista) richiede il presupposto di un'intenzionalità extra umana nella storia: "La religione può fare a meno degli dèi, ma non può fare a meno di una volontà il cui soggetto si colloca al di fuori della comunità umana" (Il ritorno del Sacro I). Mentre sostiene la necessità formale di Dio e la sua afiguralità, per l'antropologia generativa la prima Persona, la Persona di Dio, non è una persona umana: "Dio come oggetto originario dell'amore umano è anche la persona originaria. Ma nella prospettiva minimalista... questa persona originaria non è compresa come umana. La personalità non è in primo luogo una caratteristica mia, ma dell'Altro sacro la cui umanità non è primordiale, come vorrebbero farci credere i romantico-esistenzialisti, ma derivata " ("Amo quia absurdum") [corsivo di A.B.]. La personalità originaria è Personalità Divina, ma la Personalità Divina non è umana. Al contrario, la Personalità dell'Essere originario è del tutto inimitabile nella sua alterità.

All'origine dell'umano, il locus centrale della scena della rappresentazione concepito come Essere deve essere Altro dall'essere degli umani alla periferia. Occorre ricordare che l'oggetto centrale che ci rivela l'Essere di Dio è in origine un oggetto vittimario: noi distruggiamo quell'oggetto che occupa il "centro non-umano" e il nostro debito nei confronti di questo essere è infinito, non può mai essere ripagato (20).

Ma il perdono di questo essere, come quello del Dio dell'eredità giudeo-cristiana, è senza limiti. Il processo dell'amore divino assumerà il carattere di un Auto-donarsi mediante il quale l'Essere Divino, pur nella sua assoluta alterità "personale", si dà solo perché gli umani possano diventare centri sacri gli uni per gli altri (21). È come se l'Essere Divino avesse soltanto una "intenzione" nel resistere ai nostri desideri e risentimenti, nell'essere all'origine assolutamente Altro da noi: la sua intenzione divina come persona sacra era quella di una volontà paradossale di essere desacralizzato in modo da massimizzare la libertà umana (22). Nella storia noi impariamo a diventare significanti l'uno per l'altro come esseri umani e così ad amarci reciprocamente come persone umane solo perché all'origine noi sempre "abbiamo avuto" (la consumazione implicita nell'avere non è una coincidenza) come fonte della nostra differenza originaria il mistero di Dio, il nostro altro condiviso.

Questo è un Essere che, nell'orizzonte di un futuro irraggiungibile, non domanderà né richiederà il nostro culto: "Il Dio indipendente e autosufficiente che dona la sua sostanza in un atto a senso unico non è il Dio dell'amore: atti del genere suscitano il risentimento. Dio-come-amore è un essere sostanziale preso nel processo della sua generazione dal desiderio umano" ("Dio è Amore"). L'essere sostanziale così "preso" non ci minaccia con la condanna dell'essere debitori, quanto elude la nostra presa nell'efemeralità di rivelazioni senza prezzo. Il "dono" di questo Dio, pertanto, non è un debito circa il quale noi dobbiamo sentirci colpevoli di non essere mai in grado di pagarlo. Al contrario, noi possiamo soltanto "prendere" questo Dio esperienzialmente nel processo del nostro amore reciproco. Noi non conosciamo l'amore umano come pallido, derivato, volgare imitazione dell'amore di Dio, ma piuttosto noi conosciamo l'amore di Dio solo come rivelato dall'amore di altri esseri umani per noi. Noi possiamo pensare Dio come l'Uno che differisce da tutti noi in modo che noi possiamo differire l'uno dall'altro in reciproca cura, differendo il risentimento che proviamo l'uno per l'altro. Il differimento della violenza e del risentimento che la nostra condivisa differenza dall'Essere Divino rese possibile all'origine è una cosa sola con la tenerezza e la cura mostrataci dalla gente che si è curata di noi.

L'amore umano, tuttavia, non è semplicemente cura e tenerezza per l'altro, ma cura e tenerezza per l'altro sempre rinnovate dalla promessa della significanza di questa cura come qualcosa di intenzionato, piuttosto che come mero comportamento animale. "Amare significa trattare un'altra persona come un essere non-verificabile, come qualcosa di infinitamente differente da se stessi. Ma non come un oggetto su di un piedistallo: l'amore autentico non è adorazione. O piuttosto, la vera adorazione è amore: solo gli idoli sacrificali stanno sui piedistalli." ("Amore e trascendenza"). L'amore non è compassione politicizzata. L'amore è il differimento del risentimento che si realizza in imitazione dell'infinita apertura ad un'obbligazione liberamente accettata conferita dal modello dell'Auto-donarsi dell'unico Dio.

Potrà sembrare strano il derivare un tale idea dell'Amore Divino da un'ipotesi circa l'origine del linguaggio umano che appare così austeramente minimale. Nel contesto di un inciso sulle apparenze, è opportuno notare che forse l'aspetto più audace dell'antropologia generativa è la fede che essa manifesta nel peso ontologico del linguaggio umano: "Dio e il segno del linguaggio umano sono inseparabili. Non vi è alcuna riduzione di Dio al linguaggio che non sia allo stesso tempo la subordinazione del linguaggio a Dio" ("Retorica"). Nella sua pretesa fondamentale che il linguaggio umano, il nucleo minimale della cultura, operi come differimento della violenza mediante la rappresentazione, l'antropologia generativa evita modi di pensiero apocalittici. L'apocalittico è il sogno di una violenza purificatrice finale con cui (perversamente) Dio compirà tutta l'opera piena di risentimento che propriamente appartiene ai soli umani. I modi di pensiero apocalittici credono in rivelazioni finali e definitive, che compiono tutto, che portano l'opera a compimento, che ci danno tutto quello di cui abbiamo bisogno per andare avanti e vincere nel mondo del conflitto umano, magari anche con la pacificazione di quel mondo, sono modi epistemologicamente imperialisti e pragmaticamente sicuri di sé perché legati ad una verità che cancella ogni problema. L'antropologia generativa non ha una tale fiducia in qualcosa di definitivo altro dall'umano: la sua fiducia è piuttosto nelle risorse infinitamente rinnovabili della rappresentazione che differisce il conflitto.

Non vi è alcun limite ecologico alla scambiabilità, riproducibilità e potenza benefica del segno umano: in questo senso, l'infinita disponibilità e inesauribilità delle risorse del linguaggio (incluse tutte le risorse della rappresentazione scientifica) può essere una fonte di gioia per tutti noi, allo stesso modo in cui per alcuni di noi è fonte di ammirazione la fede nell'infinità di Dio.

L'antropologia generativa è un modo di pensare che ci invita a non diventare apocalittici ma, invece, anche di fronte ai manifesti estremi di incalcolabile bontà e inspiegabile malvagità che si dispiegano nella storia dell'azione umana, ci spinge a tentare di adottare una certa pensosa serenità. Questa serenità voluta non dovrebbe essere confusa con un'allegria facile. Come S. Agostino si è espresso circa i due ladroni, l'antropologia generativa non presume e non dispera circa il destino di salvezza o di dannazione dell'umanità. Quello che l'antropologia generativa ci invita a fare, come abbiamo visto, è identificare l'umano con quell'unico gesto minimale che per la prima volta ci ha fatti umani: il gesto di appropriazione interrotto, inteso come tale e condiviso. Il mistero cosmologico dell'unicità del genere umano è definito dalla cosa unica e misteriosa che noi facciamo, lo scambio di segni intenzionali che trasfigurano gli oggetti della nostra sacralizzazione di risentimento, desiderio e  distribuzione per il consumo in cose paradossalmente insieme immanenti e trascendenti. Noi scambiamo segni, e nel far questo facciamo sì che il cosmo significhi: noi rendiamo significante l'universo. (Potrebbe non esserci alcun altro essere "là fuori" che lo renda significante nel modo in cui lo facciamo noi. Ma se non c'è, non abbiamo alcuna necessità di temere quella possibilità della sua non esistenza—poiché noi abbiamo il divino Essere minimale del nostro Altro come rivelato nel luogo sacro centrale della scena della rappresentazione unicamente umana.) Noi tutti possiamo affermare la presenza di questo Dio. "Il linguaggio è già da sempre non presenza: su questo punto non dissentiamo da Derrida. Ma diversamente dalla presenza della metafisica, che sussiste entro il contesto del dichiarativo, la presenza ostensiva non è concepibile come la presenza del solo segno" (SP 58).

"Il modello fondamentale dell'interazione umana è lo scambio reciproco dei segni" ("Originario e Provvisorio"). Ma che cosa facciamo quando ci scambiamo segni? Differiamo la nostra violenza intraspecifica mediante la rappresentazione, e questo differimento della violenza, come esercizio vigilante di un'intenzione pacifica, è la forma minimale di amore comunitario. Al livello interpersonale nella vita privata, separata dalla scena sociale, l'amore umano può essere descritto come differimento del risentimento: anziché risentirci verso la persona che amiamo o il figlio o l'amico per la mancanza di una restituzione del gesto di auto-donazione, noi differiamo quel risentimento nella fede che il gesto che abbiamo compiuto ci sarà restituito nel tempo a venire. E la funzione del segno umano è precisamente quella di creare una temporalità altra dalla temporalità della nostra esistenza materiale. I nostri corpi muoiono, la nostra carne è come l'erba, i nostri cadaveri diventano polvere e ciascuno di noi non è più. V'è senza dubbio qualcosa di tragico in questa animalità dell'umano, in quanto ci ricorda la differenza tra il segno e l'oggetto, tra la vita senza tempo che le nostre rappresentazioni unicamente umane ci permettono di immaginare, se non di intendere, e la vita temporale che trascorre col movimento impersonale del ciclo naturale, del calendario e dell'orologio.

Dio è in tutte queste cose—negli scambi che operiamo, nei risentimenti che differiamo, nelle rappresentazioni che ci affatichiamo a condividere con gli altri. E che cosa vogliamo dunque che significhi Dio è amore? L'invito dell'antropologia generativa è quello di assumere l'idea paradossale di un Dio la cui sussistenza minimale sulla scena della rappresentazione accompagna ogni nostro scambio di segni come base della nostra fede linguistica—non una base cosmologica, come se Dio fosse un oggetto o agente che possiamo localizzare, ma al contrario come invisibile cristallizzazione sacra della base antropologica della nostra fede condivisa nelle nostre promesse reciproche di andare d'accordo. Dio è l'Essere che essendo anzitutto assolutamente differente da noi, ci dà la Sostanza Divina come processo, anzitutto come "fonte di reciprocità". Nel rappresentarci l'alterità sacra dell'unico ipotetico Essere Divino noi di conseguenza possiamo portare sulla scena della rappresentazione altri oggetti di desiderio e interesse come sostituti, sempre inadeguati ma nondimeno dotati di valore, della rivelazione originaria di quell'Essere divino.

L'assoluta alterità di Dio nell'originaria necessità del suo essere afigurale è una cosa sola con la demistificazione storica di Dio come un essere la cui auto-cancellazione non deve essere sentita come un tradimento e abbandono dell'umano, ma al contrario come una massimizzazione della libertà umana. Dunque (di nuovo) che cosa vogliamo che significhi l'espressione Dio è amore? Dio è amore non significa che Dio ucciderà i nostri nemici, curerà i nostri cari malati, ci salverà dalla miseria e ricompenserà la nostra obbedienza con la prosperità. Dio non è né un Essere al nostro fianco contro altre persone né sta con noi contro il cosmo terribilmente indifferente: piuttosto, Dio è sempre "dall'altra parte dell'"effetto trascendentalizzante del segno umano. L'essere di Dio è quello dell'Essere altro che i nostri segni possono rappresentare per noi ma che non può essere per noi. Come Gans ha ripetuto spesso, la nostra esperienza del segno è il modello per la nostra esperienza del trascendente, che include la nostra esperienza di Dio (24). L'idea antropologica di Dio è quella dell'essere minimale assunto come sussistente tra noi in quanto ci scambiamo rappresentazioni.

Non è improprio suggerire che la personalità di questo Essere somiglia a quella di un Testimone paradossalmente passivo ma abilitante, la cui presenza non dobbiamo mai "verificare", la cui presenza accompagna le nostre mosse di interazione reciproca sulla scena della rappresentazione (25). Ma questo Essere, nonostante la minimalità del suo singolo "intervento" originale, realizza la massima differenza che è aprire la possibilità della fede linguistica, la fede nelle risorse del linguaggio. La nostra fede minimale deve essere una fede nel linguaggio umano, perché la comunità umana è l'unica comunità di coloro che usano il linguaggio. La minimalità dell'essere di Dio non deve essere temuta: è quella minima eguaglianza antropologica (nel nostro non essere Dio, ma essere capaci di pensare Dio insieme, un processo di pensiero che non può mai essere completato) che massimizza la nostra libertà di diventare umani. Dio "dev'essere pensato come un essere, persino come una persona" (OT 31). Dio sussiste come il "locus centrale della scena della rappresentazione concepito come un essere" (OT 40). Il valore di un rispetto condiviso per l'Essere di questo locus come l'Altro dei nostri gesti intenzionali è una verità antropologica che tutti gli umani e ciascun umano possono condividere come base del "modo fondamentale dell'interazione umana, lo scambio reciproco di segni". La verità dichiarativa che questo Essere non può mai essere tematizzato esaustivamente o adeguatamente non rende la verità della presenza Divina minimale meno mirabile neppure di uno iota.

Abbiamo chiesto all'ateo di concedere che il processo dell'oblio dell'idea di Dio non può mai giungere a conclusione. Un processo di oblio implica, in uno di quegli innumerevoli gioielli ossimorici che Eric Gans ha elargito ai suoi lettori, il tentare di dimenticare qualcosa. Ma è una cosa strana andare in giro cercando di dimenticare qualcosa. Implica un paradossale ricordare di dimenticare. Se noi raffiguriamo il perfetto non credente come uno che sempre in ogni momento di ogni giorno ricorda di dimenticare l'idea di un paradossale, afigurale Dio-che-è-come-amore, allora possiamo raffigurare il perfetto credente come uno che con eguale costanza dimentica di ricordare la libertà di dimenticare l'idea di Dio. Ma perché fare di Dio una memoria? Dio è l'essere che non è mai "al nostro fianco" perché il Divino è sempre all'altro fianco di tutti i fianchi umani. L'idea antropologica di Dio, precisamente perché è un'idea minimale di Dio, evoca la voce più piccola e calma che è dentro di noi, nel nostro essere in quanto solamente umano, una voce che continua a dirci, dall'altro fianco di una crisi mimetica potenzialmente immanente e minacciante l'annientamento: calma—calma—guarda i tuoi segni di me—che non saranno mai me—guarda gli altri che come te fanno segni di me—scambiatevi i vostri segni.

Dio è Amore per noi che consente l'amore fra noi. Perché mai noi dovremmo abbandonare una tale fonte di mutualità, un Essere il cui mistero è quello di una minimalità che fa la massima differenza in primo luogo tra il nostro non divenire mai umani e il nostro continuare ad essere sempre umani? Noi siamo liberi di affermare che il processo dell'oblio dell'idea antropologica di Dio non può mai essere concluso fin tanto che noi rimaniamo umani, perché il processo del ricordare l'idea di Dio non può mai essere concluso. Il pensiero originario, l'esercizio condiviso della memoria originaria, non sarà mai concluso finché durerà l'umano.

Dedico questo saggio a mio fratello Bruce Roy Bartlett, ringraziandolo per la sua visita a Vancouver del 12. 9. 2007

Note

1.      "Il pensiero non può essere ridotto alla contemplazione desiderante del referente immaginario del linguaggio. Esso è un'attività di riflessione sui contenuti dei propri processi mentali, uno sforzo più che un piacere. Invero, questo sforzo ci richiede di rinunciare al nostro piacere nell'immediata contemplazione dell'immagine mentale da cui il nostro desiderio costruisce l'immagine-come-noi-vorremmo-che-fosse: pensare è la ricerca decostruttiva dell'originale e infine per le componenti originarie sottese all'idea/immagine" (Gans, Signs of Paradox 97) [corsivi di A. B.]. I successivi riferimenti di questo saggio alla principali opere di Eric Gans saranno fatti con le seguenti abbreviazioni: OL per The Origin of Language: A Formal Theory of Representation (1981); EC per The End of Culture: Toward a Generative Anthropology (1985); SF per Science and Faith: The Anthropology of Revelation (1990); OT per Originary Thinking: Elements of Generative Anthropology (1993); SP per Signs of Paradox: Irony, Resentment, and Other Mimetic Structures (1997). Se una citazione è priva di riferimento ad un autore, viene da Gans.

2.      "Bisogna mettere in chiaro che quello con cui abbiamo a che fare qui è qualcosa che non è un difetto o una manchevolezza. È una incapacità imposta dagli obiettivi dell'intrapresa—gli obiettivi che caratterizzano la scienza come quella cosa che è. La mansione cognitiva caratteristica della scienza è la descrizione e spiegazione dei fenomeni—rispondere alle domande  come? e perché? che noi poniamo circa i modi di funzionare del mondo. Le questioni normative di valore, significanza, legittimità e simili stanno semplicemente al di fuori della dimensione di questo progetto. Il fatto che vi siano delle tematiche al di fuori del suo dominio non è un difetto della scienza naturale ma un aspetto essenziale della sua natura di intrapresa particolare con una missione propria. Il fatto che non abbia a che fare con le belles lettres non è un difetto della scienza più che sia un difetto dell'odontoiatria il non aver nulla a che fare con la riparazione dei mobili. Non è un difetto del cavaturaccioli il fatto di non poter fare il lavoro di un martello" (Rescher, Limits 247).

3.      Bisogna chiarire fin da subito che io non sto affatto sperando perversamente di ricavare dall'antropologia generativa una "religione". Gans si è espresso schiettamente sull'impossibilità di un simile programma pseudo-spirituale: "La fede minimale che l'antropologia generativa condivide col dogma religioso non basta a creare un ethos, una comune internalità 'emica' di vocabolario concettuale, ma è sufficiente a permettere al credente religioso di comprendere nei propri termini l'analisi dell'antropologia generativa" (Return of the Sacred II"). L'oggetto del mio sforzo intellettuale in questo studio è il permesso di comprendere l'analisi dell'antropologia generativa nei termini della mia credenza in Dio. Si vedano anche questi rilievi: "Il Dio costituito minimalmente dall'ipotesi originaria è il nucleo della credenza religiosa, ma non è la divinità di alcuna religione concepibile. Quello che il credente crede... è necessariamente più di questa definizione formale. Anche una descrizione minimale della credenza richiede una tematizzazione di Dio come una sostanza che va oltre la mera sussistenza di un locus" (OT 41). Vedremo, tuttavia, che nelle sue formulazioni di Dio-che è-amore, l'antropologia generativa inizia a tematizzare Dio come sostanza paradossalmente minimale "presa" nel processo della sua generazione dal desiderio umano e come Persona che "interviene" a far iniziare la storia delle personalità umane.

4.      Un'elaborazione: rimuovere gli umani dalla scena evenemenziale della loro origine significa rimuovere l'"antropologia" dall'antropologia filosofica, lasciando null'altro che la filosofia—la concettualizzazione dell'umano come soggetto delle frasi dichiarative (soggetto al modo di pensare rappresentato dalla proposizione) piuttosto che dell'essere la cui origine sta nell'uso del segno ostensivo.

5.      C'è qualcosa che vorrei sottolineare in questa forse goffamente rallentata ridescrizione dell'evento originario. L'intenzione, bisogna dirlo, è invisibile. Se potessimo entrare in una macchina del tempo, viaggiare all'indietro nel tempo cronologico fino al momento reale di questo evento nella storia terrestre, per noi non ci sarebbe nulla da "vedere" o "udire", non vi sarebbe alcuna verifica "empirica" dell'intenzione di quel primo utilizzatore del segno di non appropriarsi dell'oggetto. Potremmo vedere il gesto, potremmo essere in grado di misurare qualche esitazione: certamente l'effettuazione del gesto di appropriazione interrotto dovrebbe avere una durata temporale. Ma non si può "provare" con test empirici l'esistenza dell'intenzione. Forse l'impossibilità di una tale prova aiuta a spiegare l'ostinazione dello scientismo materialistico nel suo disprezzo del trascendente. Eliminare l'intenzione umana dalla scena della rappresentazione significa abolire l'umano stesso. Gli umani originari erano liberi di imitarsi l'un l'altro o no. Nulla nell'universo materiale obbligava la loro scelta di tentare il segno. Il loro tentarlo non è stato un accidente casuale più che una necessità cosmica. L'umano può essere sperimentato soltanto come la libertà di non fare necessariamente ciò che è predetto di noi: nulla nel cosmo prediceva la nostra libertà originaria. Si può dire che l'evento originario istituisca il paradosso della libertà necessaria dell'umano. Vedi "Libero volere e idiozia cosmologica".

6.      O gli esseri umani emergono insieme in una comunità indifferenziata con l'altro Essere centrale o essi non emergono affatto. Noi tutti possiamo ciascuno come individuo possedere un cervello organico chimico-materiale, ma la mente umana, di contro, è fondamentalmente interattiva proprio come il segno umano emerge solo mimeticamente. La capacità mentale umana è irriducibilmente una cosa condivisa.

7.      "Le specie non-umane non possiedono alcuna scena dell'origine: esperienze specifiche potrebbero modificare o 'condizionare' il loro comportamento, ma non possono realizzare alcun cambiamento irreversibile nella loro relazioni agli oggetti del loro appetito. L'uomo è il solo animale per cui esistano delle scene ricordate collettivamente, o eventi" (SF 7). "La rappresentazione definisce ed è definita da eventi, i quali sono peculiari della specie umana: soltanto noi siamo evento-coscienti" ("The Supernatural"). "Tutti parlano del bisogno umano di storie. Ma in generale non è ancora compreso che il bisogno di storie è un bisogno di eventi. Gli eventi sono ciò di cui sono fatte le storie. Postulando un evento originario, l'antropologia generativa non crea un nuovo mito, ma piuttosto rende chiari i presupposti minimali della cultura umana che si nutre di eventi. Gli eventi non possono derivare impercettibilmente da non-eventi: vi deve essere un 'primo' evento poiché gli eventi per definizione sono notati" ("Originary Thinking, Cognitive Science, and Religion").

8.      "La nostra comprensione intuitiva di questo termine [nome-di-Dio] è l'indicazione più semplice del nostro attaccamento alla scena originaria. Noi non potremmo concepire l'esistenza di Dio, anche solo al fine di negarla, senza basare la nostra concezione su di un'esperienza del sacro, un'esperienza della quale il nome-di-Dio è la cristallizzazione. Di contro, la costruzione di un concetto di Dio che non richiede alcun nome è il compito della metafisica" (SP 208, nota 2 al c. 6).

9.      Vedi nota 5.

10.  "Dal momento che gli umani possono essere mostrati come esistenti e Dio o gli dèi non possono, un'ipotesi secolare dell'origine potrebbe sembrare più 'minimale' di una religiosa. Ma l'ipotesi dell'origine umana non è una questione che possa essere posta al di fuori dell'esperienza umana: ed entro tale esperienza l'Essere trascendente personificato nella tradizione giudeo-cristiana come Dio non può essere staccato dalla comune garanzia che rende possibili il linguaggio e altre forme rappresentative" ("We are all generative anthropologists now").

11.  Uno scandalo che può esprimersi nella scandalosa scoperta che "Dio non ha determinato la nostra libertà umana!". La libertà stessa di riconoscere che Dio non è una macchina predittiva dovrebbe cancellare la desiderabilità umana di gustare la scoperta dell'incapacità di Dio di farci comportare nel modo in cui noi fantastichiamo che lui ci voglia forzare a comportarci, come se lui fosse un operatore cosmico di lavaggio dei cervelli. "Oh scandalo! Noi siamo liberi da Dio nell'universo, liberi in un universo senza Dio!". Ma perché provare risentimento contro un Dio che non ci obbliga a credere nella sua Esistenza? L'oggetto "reale" del risentimento dell'ateo rivoluzionario non è Dio ma sono gli altri umani che credono in Dio: l'ateo rivoluzionario rimane un animale umano socievole solo fin tanto che l'oggetto reale del suo risentimento rimane oscurato nei modi dell'auto-riflessione ironica: "La persistenza dell'ironia è la prova che il risentimento contro la divinità dura più a lungo della fede in essa. L'ironista è un ateo che condanna Dio per la sua incapacità di esistere. Elevato allo status di principio di vita, quest'ateismo diviene 'ironia romantica'"(SP 68-69). Si rimuova l' "ironia romantica" dal programma dell'ateismo rivoluzionario, e il secolarismo terroristico privo di humour, di cui la ghigliottina è l'archetipo, correrà a porsi nel luogo già vacillante dell'ateismo.

12.  "La nostra consapevolezza dello scandalo in sé" è la consapevolezza del senso che noi siamo liberi di essere scandalizzati fino al punto stesso di potere risentitamente negare l'"esistenza" del Dio in cui noi dovuto aver "creduto" in origine. Ma nuovamente, non vi è alcuna necessità ora di provare risentimento per quello che noi dobbiamo aver creduto allora, precisamente perché non siamo più costretti a crederlo. Dio ha sempre donato e dona il Divino Sé per noi. Risentirsi per il dono è auto-punizione. Significa desiderare perversamente che l'umano sia libero persino dalla minimalità di quest'unica differenza dal suo originario Altro Divino: significa, in realtà, desiderare che l'umano non sia per nulla umano ma semplicemente assimilabile al cosmologico. Significa desiderare la scomparsa della responsabilità del trascendente.

13.  "Logica ed evidenza" è il ritornello del più intransigente degli atei militanti di oggi, il darwiniano nemico della religione Richard Dawkins. Si veda il sito web "Beyond Belief" per gustare i tre giorni di una conferenza del novembre 2006 al Salk Institute for Biological Studies, che ha riunito scienziati a discutere della fase più recente del rinnovato conflitto scienza-religione, in particolare di quello scatenato dalle opere di Sam Harris e Richard Dawkins. Raccomando in particolare la sessione 9, in cui Melvin Konner e Jim Woodward esprimono apertamente il loro disaccordo dallo scientismo antropologicamente sordo di Dawkins e Harris. Chiunque abbia familiarità con l'antropologia generativa si dorrà del fatto che i partecipanti, che nulla sanno dell'antropologia generativa, siano totalmente inconsapevoli del contributo che l'ipotesi originaria e gli sviluppi che l'accompagnano avrebbe potuto dare alla loro discussione.

14.  "Dio è più di un significato o un senso, di un'idea o concetto. Egli è la sostanza che fonda la possibilità del senso, l'essere sacro che deve essere prima che noi possiamo designare una qualche cosa particolare (l'oggetto centrale della scena originaria della rappresentazione) come sacra"("Does God Exist?").

15.  "Il segno originario nomina, in tutta l'ambiguità del termine—allo stesso tempo dando un nome a e ripetendo il nome di. L'idea di Dio è la fonte originaria di questa ambiguità: il segno nomina ciò che è già degno di portare il nome, ciò che pertanto già lo possiede, perché se già non fosse il nome di Dio esso non potrebbe essere usato per nominarlo. Il nome-di-Dio è da un lato infinitamente 'proprio', confinato all'oggetto unico che occupa il centro, ma dall'altro è infinitamente comune, designando un luogo centrale che può in definitiva essere occupato da qualsiasi cosa. Ma quando questo viene compreso e divengono disponibili altri segni per altri referenti, la relazione generativa tra l'essere centrale unico e il qualcosa-qualsiasi cosa della significanza—Dio come la fonte del linguaggio—diventa a sua volta un tema di conservazione culturale nel rito, e di conseguenza nella narrazione mitica" (SP 54) [corsivo di A.B.]. Se Dio è la fonte del linguaggio, Dio è anche la fonte dell'umano: la nostra autocoscienza come utilizzatori del linguaggio è inseparabile dalla nostra autocoscienza come debitori del nostro essere umani ad un Altro che noi nominiamo con i nostri segni.

16.  "Si potrebbe a buon diritto porre la domanda se vi sia un qualche modo di significare la centralità senza chiamare in causa un essere specifico. Davanti a questa domanda il pensiero mistico resta in meditazione. Il gesto filosofico di porre una E maiuscola su essere non può includere l'intuizione religiosa espressa nella rivelazione mosaica, che non ingenuamente mantiene la natura personale di Dio" (SP 104).

17.  Gans ha riflettuto sul "vantaggio cautelare della posizione anestetica" nell'era postmoderna, durante la quale "la rivelazione storica dell'unico figlio di Dio non può non provocare l'invidia di coloro che non ne sono onorati, qualunque sia l'assicurazione ricevuta circa la sua infinita imitabilità" (SP 160). Quel che manca in questa riflessione è la considerazione dell'assicurazione contro l'invidia che ci può essere fornita (al contrario) dalla inimitabilità di Cristo. Dichiaratamente, queste assicurazioni possono infine essere, come Gans afferma, solo di ordine estetico. Ma l'esperienza estetica di "contatto" con la persistente persona di Gesù, per il Cristiano, invita ad una perpetua meditazione sul modo in cui Gesù è un umano diverso da ogni altro perché è inimitabile in un modo diverso da ogni altro. Il paradosso della desiderabilità impossibile dell'imitazione dell'Inimitabilmente obbediente, è, per il cristiano, una cosa sola col paradosso della Divinità umana di Gesù, dell'apparire a noi di Gesù come colui che è stato il primo umano obbediente in un modo unico.

18.  Ho scelto il termine "tipo" a causa di queste eco: "Mi spingerei più in là: il linguaggio fa scaturire un genere di entità totalmente nuovo, la categoria o tipo—come nella distinzione tipo (di segno) - occorrenza (token) fondamentale per il linguaggio—che non si trova da nessuna parte nel mondo reale, materiale ("Why Do We Believe in GA?").

19.  "Ma Dio non può essere pensato in questo modo, come una nominalizzazione del 'santo', del 'divino' o del 'sacro'. Il sacro è qualcosa di molto differente da Dio, che può essere pensato come un essere, e persino come una persona" (OT 31). Si confronti: "Il grado in cui l'Essere centrale è personificato non corrisponde al grado di sacralità per l'ordine sociale" ("Originary Resistance"). Si confronti: "Dio è più di un significato o un senso, di un'idea o concetto. Egli è la sostanza che fonda la possibilità del senso, l'essere sacro che deve essere prima che noi possiamo designare una qualche cosa particolare (l'oggetto centrale della scena originaria della rappresentazione) come sacra"("Does God Exist?").

20.  L'oggetto centrale originario rivelativo dell'Essere divino è anche l'oggetto della violenza originaria umana, violenza collettiva significante, in quanto opposta alla mera aggressione animale non ricordata: "Non è banale chiedere perché Dio permetta il male. E nemmeno è possibile discutere del male come categoria antropologica fondamentale indipendentemente dall'idea di Dio. Soltanto delle creature che possiedano questa idea [di Dio] possono fare il male, precisamente perché il male—'mangiare dell'albero della conoscenza'—è in primo luogo quello che ci ha dato l'idea di Dio" (SP 143). "Il male è in primo luogo diretto contro il centro non-umano. Il primo crimine dell'uomo è contro Dio piuttosto che contro l'uomo" (SP 145).

21.  "La personalità è la qualità dell'essere che differisce la sua appropriazione, che oppone la sua volontà agli appetiti dei membri della comunità, alla quale il senso di sé è dato come derivato da questa forza di differimento. Di fronte alla resistenza del centro, il sé umano scopre la sua propria relazione ad esso come desiderio. La comprensione religiosa stacca la personalità del centro dall'oggetto che inabita il centro, e attribuisce la personalità ad un essere esistente prima della scena ed ontologicamente indipendente da essa: l'oggetto centrale diviene il locus in cui questo essere sceglie di rivelarsi. È questo distacco dell'essere dalla scena a fornire il contesto in cui la scena della rappresentazione è aperta agli esseri in generale" (SP 103). La storia umana, la storia delle persone umane agenti intenzionalmente nel mondo, inizia quando la scena della rappresentazione è "aperta agli esseri umani".

22.  "La desacralizzazione o secolarizzazione caratteristica della società occidentale fin dal Rinascimento è la storica messa in questione della necessità dell'intenzionalità del centro per la formulazione più parsimoniosa dell'origine dell'umano" ("Originary Resistance") [corsivo di A.B.]. Si confronti: " La storia della civiltà è stata un lungo processo di desacralizzazione. Chiaramente il dominio del sacro è regredito: se esso possa mai ridursi a nulla, come il non credente afferma, è una questione indipendente"  (OT 42). In entrambe le formulazioni v'è una dose di scetticismo circa quel genere di scetticismo radicale che vorrebbe sminuire, negare, decostruire e distruggere la fede nell'intenzionalità umana. Questa dose di scetticismo implica una saggia umiltà riguardo al valore che ha il conservare la memoria di quell'Altro che all'origine noi abbiamo creduto aver posseduto per sé l'Essere, e riguardo alla fede minimale che accompagna ogni uso dei segni umani.

23.  "La nascita del sacro non è analoga al coup de pouce dato dal Dio-orologiaio del Deismo, dopo il quale non è più necessario alcun altro intervento divino. La significazione non è un meccanismo: il suo funzionamento dipende dal fatto che ogni uso di un 'segno' simbolico riattiva, con un effetto ampiamente diminuito, il contesto sacro originario" ("Return of the Sacred I").

24.  Si consideri il passaggio che segue come un esempio tra i molti casi in cui Gans si è espresso in questo senso: "Ma l'esistenza dei neuroni, anche quella dei 'neuroni specchio', non spiega l'esistenza del linguaggio. Al contrario, è l'esistenza del linguaggio che spiega l'evoluzione neuronale della specie che lo usa. Si commette un serio errore categoriale quando si afferma che i segreti del linguaggio o della religione possono essere scoperti prendendo in esame la struttura e il funzionamento dei neuroni. Il linguaggio implica esseri virtuali di un nuovo genere che non 'esiste' da alcuna parte se non nella sfera collettiva del linguaggio stesso. Una volta che ci si sia resi conto che l'ontologia delle parole e dei significati, cui una comunità di linguaggio per poter esistere deve assolutamente 'credere', è totalmente differente dall'ontologia di ogni genere di oggetti mondani, si troverà molto meno misteriosa la credenza in Dio—che condivide molte caratteristiche di questa ontologia" ("Why Do We Believe in GA?").

25.  "Io preferisco pensare a Dio come la presenza nella quale noi due siamo presenti l'uno all'altro, la garanzia che ogni sguardo o carezza effimeri rechino in sé il loro senso di infinita tenerezza per tutta l'eternità" ("Love and Transcendence").

Opere citate

Beyond Belief: Science, Religion, Reason and Survival. Official homepage for the Conference held at the Salk Institute for Biological Studies, California, November 6-9, 2006. http://beyondbelief.org

Eagleton, Terry. "Lunging, Flailing, Mispunching." Review of The God Delusion by Richard Dawkins. London Review of Books Oct. 19, 2006. http://www.lrb.co.uk/v28/n20/print/eagl01_.html

Gans, Eric. "Amo quia absurdum." Chronicles of Love and Resentment 19. 2 Dec. 1995.

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Harris, Errol E. Revelation through Reason: Religion in the Light of Science. New Haven: Yale U P, 1958.

Harris, Sam. The End of Faith: Religion, Terror, and the Future of Reason. New York and London: Norton, 2004.

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GENERATIVA

 

BIBLIOSOFIA

 

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