Trascendenza e nuovo principio antropico

 

Eric Gans

 

gans@humnet.ucla.edu

Chronicles of Love and Resentment n. 356 e 357

 

Traduzione dall'inglese di Fabio Brotto

 

brottof@libero.it  

 

www.bibliosofia.net

 

 

Mi trovo nelle fasi preliminari di un progetto che riguarda la questione sollevata dall'attuale ondata di libri antireligiosi e dalle risposte che essa ha ricevuto da parte dei credenti. Dopo aver letto alcuni libri di entrambi gli schieramenti, sono in grado di fornire un aggiornamento. In questa fase non mi occuperò dei punti particolari toccati da queste opere. Sebbene infine io dovrò rispondere alle loro argomentazioni fondamentali così come esse sono avanzate, le mie letture confermano la mia convinzione che nessuno concepisce quella che chiamerò la questione della trascendenza in termini avvicinabili a quelli dell'antropologia generativa.

Come ci si poteva attendere, sebbene gli assunti comuni di entrambe le parti escludano una considerazione dell'ipotesi originaria, gli argomenti in difesa della trascendenza sono a questa più congeniali. Di norma, coloro che attaccano la religione presumono che l'universo possa essere compreso come composto interamente di materia, e che l'umano non possa mettere in questione quest'ontologia totalmente materialistica. L'esclusione a priori di una sfera trascendente, che riduce le rappresentazioni a forme della materia associate ad altre forme, più complesse ma non differenti ontologicamente dalle combinazioni del DNA che si "esprimono" nell'aspetto o nelle funzioni del corpo, fa della costruzione di una scena originaria ipotetica una perdita di tempo. Di contro, da coloro che difendono Dio o lo "spirituale" l'ipotesi originaria può essere compresa come una lettura minimale della scena della creazione, e anche se l'argomentazione difensiva va a parare nel cosmo, il terreno di battaglia umano resta quello essenziale. Quel che tali difensori non fanno, tuttavia, è proporre essi stessi un'ipotesi minimale. O essi accettano in qualche senso il racconto della creazione di una religione specifica, oppure, più comunemente, evitano del tutto di discutere dell'origine, dal momento che la "sfera spirituale" viene semplicemente da loro assunta come esistente indipendentemente dall'umanità. Il miglior esempio di questo tipo di argomentazione che io abbia visto si trova in The Spiritual Brain (Harper SanFrancisco 2007), del neuroscienziato Mario Beauregard e Denyse O’Leary. Le affermazioni sulla "spiritualità" presenti in questo testo non sono in reale contraddizione coi principi dell'antropologia generativa, ma in esso non vi è alcuna preoccupazione di restringere queste affermazioni al campo dell'antropologia.

Delle varie teorie ateistiche sulla nascita della religione, le più serie sono fondate sulla psicologia evoluzionistica. Se la religione è così ampiamente diffusa nonostante il suo costo in termini di tempo e di energia (per non parlare delle assurdità, dei crimini, dell'imbecillità, ecc.), essa deve in qualche modo essere adattiva, così noi possiamo presumere che per i suoi tratti centrali esistano dei geni, o moduli cerebrali, o complessi di "memi"—a meno che l'attività religiosa non sia una mera escrescenza, una conseguenza indiretta di tratti genuinamente adattivi, come il nostro amore per le storie. Quanto a ciò che può rendere adattiva la religione, forse la supposizione migliore è quella che essa soddisfi la tendenza nostra (o dei nostri bambini) ad attribuire una intenzione agli agenti ostensibili, siano essi davvero animati oppure no, inclusi i morti, il cui status di agenti noi tendiamo a prolungare mentre i loro corpi si decompongono. Prescindendo dal loro vocabolario pseudoscientifico, molte di queste argomentazioni non risultano significativamente più sofisticate della figura ottocentesca dell'uomo primitivo che si getta a terra davanti al dio della tempesta. In quella che è forse la più seria di queste esplorazioni, il farraginoso Breaking the Spell (Viking 2006) di Daniel Dennett, l'insieme delle analogie utili con cui l'autore inizia la sua investigazione includono cose come la nostra eccessiva passione per lo zucchero e il comportamento influenzato dai parassiti. L'idea che ad una istituzione così complessa, intrecciata con la totalità della cultura umana, ci si possa accostare mediante tali analogie rappresenta un errore categoriale di stupefacente arroganza intellettuale. Quanto a quelle opere che si sottraggono alle diatribe e alle speculazioni evoluzionistiche, e si limitano a dimostrazioni filosofiche della Impossibilità o soltanto della Improbabilità di Dio—sono i titoli di due raccolte di saggi filosofici—esse commettono una versione meno drammatica dello stesso errore categoriale discutendo il concetto di Dio indipendentemente dal suo necessario contesto antropologico.

 

Al di là degli attacchi virulenti di stampo voltairiano, che non influenzano la questione della trascendenza, il punto di fondo delle argomentazioni del versante ateistico è che quello che conosciamo della materia e della sua organizzazione non offre alcuna evidenza di un creatore-disegnatore, ovvero di una mente creatrice del mondo dotata di intenzionalità. Ogni cosa, dal Big Bang al sorgere della vita a quello dell'umanità, può essere ragionevolmente attribuita alle proprietà auto-organizzative della materia, quali in particolare si manifestano nell'evoluzione darwiniana della vita.

 

Io affermo che questa linea di argomentazione è semplicemente irrilevante. Essa non coglie correttamente la questione reale, che non dovrebbe essere posta—da entrambe le parti—nei termini dell'esistenza o non esistenza di un "disegnatore". La religione concerne l'umano, e l'esistenza di Dio in reami non abitati dall'umanità possiede tutt' al più un significato allegorico.

Il Cristianesimo rende esplicito questo con le parole di Giovanni "In principio era il Verbo", riscrivendo ciò che era già fortemente implicito nell'originale del Genesi, dove Dio crea l'universo col linguaggio. Speculare su ciò che Dio stesse o non stesse facendo al momento del Big Bang, o se abbia creato solo un universo o una miriade di universi alternativi (per rispettare il "principio antropico"), è l'equivalente contemporaneo della discussione sul sesso degli angeli. Quanto alle "prove" dell'impossibilità o improbabilità di Dio, basta dire che se Dio esiste senza dubbio sarà capace di sistemare a suo piacimento tutte le cose, compresa l'impossibilità logica di essere allo stesso tempo onnisciente e onnipotente. Suggerire, come alcuni fanno, che se Dio esistesse realmente egli avrebbe quasi certamente fatto il mondo in modo differente riflette l'arroganza cosmologica che gli scienziati manifestano ogni volta che dimenticano che presentare l'indeterminazione quantistica e la decomposizione della materia in quark come la ontologia definitiva significa dichiarare la fine della storia (della scienza).

Questo non vuol dire affermare che, data l'incapacità della scienza di pronunciarsi sulla natura dell'universo in maniera definitiva, noi dovremmo assumere la posizione "agnostica" per cui noi semplicemente "non sappiamo" se Dio esista. Quello di cui abbiamo bisogno è una prospettiva del tutto differente, una prospettiva antropologica.

Preliminarmente ad ogni tentativo di offrire una comprensione dei qualia dell'esperienza o dell'operazione della volontà, un'ipotesi antropologica dell'origine umana deve fornire un quadro plausibile entro il quale i fenomeni trascendenti possano essere concepiti come emergenti entro una situazione mondana. Quindi l'antropologia fondata sull'ipotesi originaria pone come sua priorità la concezione di uno scenario minimale per il sorgere della sfera trascendente in un evento originario.

 

Data la minimalità della sua ipotesi fondativa, l'antropologia generativa non si deve preoccupare dell'esistenza di un universo "spirituale" al di là della sfera delle parole e del significato. La sola, perché minimale, forma di trascendenza necessaria ai nostri propositi è quella della rappresentazione stessa. Che l'uso delle parole non suggerisca immediatamente una realtà trascendente è un prodotto dell'estensione pratica del linguaggio alla realtà, la "secolarizzazione" che cominciò con la prima parola, che è espressione insieme di adorazione/interdizione e di desiderio pratico, designando un oggetto sulla desiderabilità del quale vi è un accordo unanime che lo rende interdetto come intero ma tanto più desiderabile nelle sue parti. Questa linea di ragionamento ci consente un approccio allo spinoso problema del "libero volere". Sebbene gli animali comprendano i loro atti "volontari", non possono riflettere su di essi come noi facciamo, rappresentando a se stessi degli stati futuri alternativi che essi possano scegliere o non scegliere di conseguire. La spiegazione minimale della scena interna della coscienza, sulla quale noi riproduciamo le nostre intenzioni, conseguendo la capacità di rappresentarle e conseguentemente di modificarle, è che essa derivi dalla prima memoria umana della scena umana originaria. L'emissione del segno è un atto di volontà che non può essere ridotto alle modalità del decidere tipiche degli animali: il segno non è un mero gesto ma una rappresentazione, emessa in quanto avente un significato o intenzione irriducibile al gesto stesso. L'essere esterno del segno/gesto rispetto al suo significato è realizzato in actu entro il gruppo, e il significato trattenuto nel "lexicon" interno dei partecipanti è quello dell'esperienza dell'appartenenza al gruppo intero che reagisce al segno come designante/interdicente il suo oggetto.

Il nostro possesso delle rappresentazioni è la caratteristica centrale di quello che chiamiamo la nostra "coscienza". Gli animali hanno intenzioni e fanno calcoli, ma manca loro una "teoria della mente" che gli consenta di comprendere e predire non solamente le azioni ma le intenzioni di altri esseri. Come ha mostrato Richard van Oort, basandosi sugli studi sugli scimpanzé di Michael Tomasello, anche gli animali più evoluti, sebbene chiaramente in grado di reagire alle intenzioni degli altri (come un animale-preda evita i suoi predatori), sono incapaci di attribuire un'intenzione ai loro compagni, per esempio, nell'insegnare/imparare una nuova tecnica. Da questo si può concludere che a queste creature manca una teoria della loro stessa mente ed essi non possono attribuire un'intenzione a se stessi. Gli umani acquisiscono una comprensione intuitiva dell'intenzionalità degli altri e di se stessi attraverso l'uso condiviso di rappresentazioni. A differenza delle azioni strumentali degli scimpanzé, gli atti linguistici sono intrinsecamente intenzionali—l'intenzionalità è tutto ciò che sono. Noi siamo in grado di vedere le intenzioni altrui perché per principio esse possono essere formulate nel linguaggio.

 

Un rilievo che viene solitamente fatto contro la negazione materialistica della specificità umana è che un robot o un computer non ha alcun stato mentale interno. I computer usano segni, ma essi sono i nostri segni: per il computer essi sono tanti byte—in realtà, non esiste affatto un "per il computer". Come affermano Beauregard ed altri, il sostenere che la nostra mente sia soltanto l'attività del  nostro cervello è un atto di fede, non una verità scientifica. Quello che l'antropologia generativa aggiunge al dibattito è la chiarificazione di che cosa è che gli umani condividono rispetto all'uso delle rappresentazioni: la comunità originaria e successivamente virtuale dei loro creatori. Il cervello individuale non "contiene" le rappresentazioni che usa: esso le prende a prestito da una fonte collettiva alla quale esse rimangono sempre collegate. È la loro dipendenza dalla comunità umana che distingue i segni del linguaggio dai segni indessicali usati dai nostri predecessori animali. Laddove i sistemi di segnalazione degli animali sono radicati in schemi di comportamento individuale geneticamente ereditati, i quali si sono raffinati evolutivamente per suscitare le reazioni appropriate nei loro compagni, e richiedono al massimo qualche addestramento post-natale, gli umani inventano, utilizzano e modificano il linguaggio in un ambiente collettivo. Ogni uso di una parola o di un simbolo ha luogo davanti a questa comunità virtuale, e il reciproco riconoscimento dei suoi membri quali consimili utilizzatori del linguaggio dipende in ultima istanza da un senso condiviso del sacro. La presenza virtuale della comunità umana genera lo spazio scenico entro il quale noi diveniamo coscienti di noi stessi.

 

L'argomentazione svolta non fa altro che riassumere, con qualche precisazione, le idee che io ho avanzato su questo tema per la prima volta nel 1981 in The Origin of Language. Sono disposto a continuare a ripetere e precisare queste stesse idee—in dialogo con quel pugno di spiriti liberi che le prende seriamente in considerazione—finché sarò in grado di pensare.

Fin tanto che i due schieramenti impegnati nel dibattito pubblico saranno d'accordo sull'essere in disaccordo circa "l'esistenza di Dio", non vi sarà alcun progresso. Sarà solo quando entrambi giungeranno ad accettare il fatto che—come a mio avviso Derrida ha intuito nei suoi ultimi anni (vedi Chronicle 340)—la distanza tra la fede del possessore del linguaggio umano e quella del credente nella rivelazione sacra è quasi evanescente, che la comprensione di ciò che questi due "credenti" hanno in comune potrà diventare il centro di un modo di pensare l'umano che finalmente sarà degno di essere chiamato antropologia.

 

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Noi pensiamo necessariamente per proposizioni e per questa ragione non possiamo sfuggire al metafisico, che è puramente un sinonimo del trascendente: una frase dichiarativa crea una realtà "fittizia", "prossima a" (meta) o indipendente dal mondo fisico. Ma non dobbiamo seguire la tradizione metafisica che dà il linguaggio proposizionale o dichiarativo per scontato. Il corollario che presuppone che il linguaggio sia essenzialmente indipendente dalla sua origine specifica tra gli esseri che lo usano ci permette di descrivere il mondo naturale, e anche il mondo umano, nella misura in cui anch'esso dà per scontata l'esistenza del linguaggio proposizionale. Quel che il linguaggio metafisico è incapace di descrivere è il singolo momento in cui il linguaggio non può essere dato per scontato, il momento originario che inaugura la relazione trascendente tra rappresentazione e realtà che caratterizza l'umano in modo unico. Questo momento fin dall'inizio è stato territorio della religione. Da poco è diventato quello dell'antropologia generativa.

L'interfaccia tra il mondo reale e quello trascendente è paradossale in un senso più fondamentale rispetto al paradosso logico: esso è letteralmente fuori o "accanto" (para) alla sfera della rappresentazione linguistica perché è dove la rappresentazione viene all'esistenza. Quello che nel discorso religioso è "assurdo" dal punto di vista della ragione proposizionale può sempre essere compreso come incarnazione mondana delle caratteristiche altro-mondane del linguaggio, o più generalmente della rappresentazione: le narrazioni religiose descrivono il miracolo del divenire-linguaggio. Le specifiche irrazionalità di queste storie sono non soltanto una fonte di solidarietà e di esclusività per le loro comunità di credenti, ma ciascuna storia formula un'ipotesi originaria sull'umano, sebbene non caratterizzata dalla parsimonia. La caratteristica comune dei soggetti delle narrazioni religiose è che essi condividono la non-mortalità che appartiene solo al mondo del segno. I segni non muoiono, e gli dèi che condividono questa qualità spiegano con la loro presenza sulla terra la presenza di questi segni.

 

Per René Girard l'immortalità degli dèi è una deformazione mitica del ruolo della vittima sostitutiva nel portare pace alla comunità. La vittima viene uccisa, ma rimane presente attraverso la memoria purificata dell'assassinio, che porta pace alla comunità concentrando la sua aggressività su un singolo "capro espiatorio". Così il mito racconta una verità antropologica a costo di una menzogna: il suo protagonista morto viene presentato come eternamente vivo, discolpando gli assassini del loro crimine. Ma quello che Girard descrive come un esempio di méconnaissance è la base di tutte le nostre idee religiose, comprese le sue: che esistano o no una "vera" immortalità ed un "vero" Dio, l'unica fonte antropologica di queste categorie è il trasferimento sulla vittima delle categorie del segno mediante cui noi la commemoriamo. Definire fraintendimenti le forme primitive di trascendenza è andare al di là della lezione antropologica del Cristianesimo stesso, secondo cui non vi è alcuna separazione ontologica tra l'umano e il trascendente. Il ruolo di Gesù non è quello di por fine a questa separazione, ma quello di dichiararla fittizia.

Nel suo piccolo libro Saint Paul (PUF, 1997), Alain Badiou sostiene che l'unica proposizione di San Paolo circa Gesù è che egli è stato resuscitato, un'affermazione "assurda" che non può essere compresa come una semplice enunciazione empirica.

 

Paolo ... riduce il Cristianesimo ad una singola proposizione: Gesù è risorto. Ora questo è l'elemento favoloso (fabuleux), dato che tutto il resto—nascita, predicazione, morte—può dopo tutto essere difeso come plausibile. Ciò che è "favola" in una storia è quell'elemento che noi concepiamo come non avente alcun contatto con la realtà, se non attraverso il residuo invisibile e accessibile indirettamente che aderisce ad ogni manifesta figura dell'immaginazione (qui colle à tout imaginaire patent). (p.5)

 

Il riferimento di Badiou al "residuo" del favoloso che aderisce all'immaginazione basata sulla realtà si collega a quanto dicevo circa l'"assurdità" dell'interfaccia tra il mondano e il trascendente. L'ipotesi originaria spiega la pertinenza di questa particolare "assurdità". La resurrezione è, una volta ancora, una trascendenza mediata da, o modellata su, l'atto della rappresentazione: come in Girard le vittime mitiche che sembrano evitare la morte, Gesù accede dalla condizione mortale degli abitatori del mondo reale all'immortalità del segno, con la differenza che egli è descritto esplicitamente come umano e insieme innocente prima della sua miracolosa resurrezione. Il trascendimento della morte da parte di Gesù mediante il segno è rivelato a Paolo sulla via di Damasco come prodotto della sua persecuzione dei seguaci originari di Gesù, un punto che io ho sviluppato in Science and Faith. La riduzione, operata da Paolo, del Cristianesimo alla "favolosa" affermazione della resurrezione è, in termini religiosi più che scientifici, una enunciazione minimale dell'ipotetica scoperta/invenzione collettiva della trascendenza tramite lo scambio reciproco del segno come "gesto di appropriazione interrotto".

 

La cosa più difficile da accettare nel nuovo modo di pensare proposto dall'antropologia generativa è che il linguaggio umano "ordinario" è una forma, e invero la forma fondamentale, di trascendenza, e che le critiche ateistiche che proclamano la superfluità di Dio e dei miracoli sono cieche al fatto che il linguaggio è un miracolo non meno dell'atto biblico della creazione. Questo non significa che la rappresentazione non possa essere spiegata senza forze soprannaturali, ma soltanto che l'ontologia del linguaggio ha più in comune con quella di Dio che con quella della comunicazione animale o del codice genetico. Le affermazioni "assurde" del discorso religioso sono meditazioni tra il mondano e il trascendente, non alternative alle proposizioni della scienza, le quali non mediano in questo modo. Similmente, l'ipotesi originaria non è un'alternativa al discorso religioso ma un modello minimale del primo evento che è in linea di principio compatibile con tutti questi discorsi, se non con l'assenza di qualsiasi discorso del genere. Poiché affermare che non è necessario narrare un evento inaugurale della nostra comunicazione reciproca mediante segni non significa tanto negare lo stato trascendente della rappresentazione quanto lasciarlo non pensato.

 

Il nuovo principio antropico

 

Il termine principio antropico è usato comunemente come mezzo per accantonare l'idea di una creazione divina: se gli ultimi modelli cosmologici rendono altamente improbabili le condizioni per l'esistenza della vita (umana), è sufficiente notare che se noi non esistessimo non staremmo osservando queste condizioni. Quindi se la probabilità di un universo che soddisfi queste condizioni è 1/n, basterà rimuovere questa anomalia per assumere che il nostro è l'unico caso "antropico" fra k universi, ove ((n-1)/n)^k <.5.

 

La pura arroganza di questo genere di ragionamento è paragonabile solo alla sua naiveté, come se noi fossimo sufficientemente sicuri circa l'origine dell'universo da valutare le probabilità delle condizioni per la vita, e poi ipotizzare l'esistenza di un'infinità di altri universi dei quali non possiamo mai avere la minima evidenza. Invece, noi dovremmo ridefinire il principio antropico in termini antropologici anziché cosmologici: l'universo, ma in particolare la vita sulla terra, devono essere tali da consentire l'origine della rappresentazione. Dato che l'emissione del segno è un atto volontario, cosciente e rammemorabile, che ricorda gli oggetti e gli atti di cui è la rappresentazione, questo nuovo principio antropico implica che in un dato momento nell'evoluzione dei nostri predecessori è avvenuto un primo atto di rappresentazione, che ricordava il primo evento. Un mondo senza eventi è un mondo senza rappresentazione. Il modello darwiniano di cambiamenti genetici graduali non è incoerente col principio antropico, ma non lo include né lo implica.

 

Storie della creazione

 

Le narrazioni religiose "assurde" che mediano tra il mondo dell'appetito e quello della trascendenza sono tutte più o meno esplicitamente delle storie della creazione che raccontano dell'irruzione del sacro entro il mondo appetitivo, che crea noi come umani attraverso il dono della rappresentazione. La creazione dell'universo naturale da parte delle medesime forze può quindi essere compreso come un'affermazione del nuovo principio antropico: il creatore dell'universo entro il quale possono essere creati gli umani deve essere altrettanto potente del creatore dell'umanità, se non a lui superiore.

Non è necessario che io qui insista sull'importanza della storia della creazione per le tradizioni giudeo-cristiana ed islamica. E tuttavia alcune religioni non danno molto spazio a storie della creazione: o l'universo è considerato come eterno e/o ciclico, oppure, nelle parole del Buddha, la conoscenza dell'origine della vita[umana] "non è fondamentale per la vita santa". Veniamo invitati a distoglierci da una preoccupazione per l'evento originario in una duplicazione della rinuncia originaria all'oggetto centrale. Non cercare di conoscere il momento dell'origine ci mostra un esempio di rinuncia alla conoscenza di qualsiasi evento, cioè a dire di qualsiasi violenza memorabile commessa dal desiderio umano. Questa rinuncia costitutiva fa del Buddismo qualcosa di più e di meno di una religione nel senso occidentale. Un fattore di primo piano nell'attrattiva che esercita su molti occidentali è che, contrariamente alle religioni abramitiche, esso non richiede alcuna fede in una storia sacra. L'antropologia generativa è nata nel contesto della tensione occidentale tra uomo che crea Dio e Dio che crea l'uomo: l'alternativa buddista stacca l'atto originario di rinuncia dal suo locus in un evento in modo tale da sottrarsi al bisogno di entrambi i modi di creazione. Ma questo distacco è un atto di ascesi che dimostra la "necessità" di una storia della creazione tanto quanto lo dimostrano le storie stesse.

 

Le narrazioni "assurde" delle varie religioni sono traduzioni della stessa intuizione di fondo che l'umano è definito dal trascendente: ciascuna trae differenti conseguenze antropologiche da questa dipendenza fondamentale. Invero, lo stesso si potrebbe dire delle narrazioni artistiche, le quali anche dipendono dalla nostra fede nella capacità dell'artista di conferire plausibilità umana alle intenzioni dei suoi soggetti. L'ipotesi originaria fornisce un principio minimale di interpretazione per queste narrazioni. Che l'ipotesi originaria sia o non sia accettabile per il credente di una data religione, in ogni caso io posso almeno affermare che l'ipotesi nella sua minimalità è concepita per avere un effetto perturbante minimo sui credenti in generale.

 

Nel caso in cui un sostenitore dell'antropologia generativa si trovasse a discutere con esponenti di vari sistemi di credenze, il punto non sarebbe quello di argomentare sulle specificità dell'ipotesi originaria, ma di iniziare da un accordo sulla necessità di ipotizzare un evento originario. I credenti saranno d'accordo, perché essi hanno già implicitamente accettato questa asserzione: quelli che resisteranno saranno gli atei. Ma noi vorremmo sperare di persuadere qualcuno che non accetta il soprannaturale dell'utilità di un ipotetico evento naturale sulla base del quale egli potrebbe cominciare a comprendere le narrazioni religiose ed entrare in dialogo con coloro che credono in esse.

 

GENERATIVA