Sparagmos! Un dialogo su Girard e Gans

Anthropoetics 11, n.1 (primavera/estate 2005)

 

Il Gruppo Sparagmos! (Columbia Britannica, Canada):

Pablo Bandera, Andrew Bartlett, Christopher Morissey e Richard van Oort

 

Traduzione dall'inglese di Fabio Brotto

 

brottof@libero.it  

 

www.bibliosofia.net

 

 

Sparagmos! è un gruppo di lettura e discussione con sede a Vancouver che si incontra regolarmente per discutere la teoria mimetica di René Girard e l’antropologia generativa di Eric Gans.

 

Sparagmos! legge libri di ogni genere, romanzi compresi: I demoni di  Dostoevskij è stato un argomento recente. Chi desiderasse partecipare agli incontri di Vancouver è invitato a contattare il gruppo attraverso la GA List. Da qualche anno a questa parte Andrew Bartlett ha ospitato gli incontri a casa sua con grande ospitalità e stile.

 

Il dialogo che segue è il prodotto di un recente scambio di idee sulla scena originaria. In esso, alcuni membri di Sparagmos! affrontano i dettagli e il valore delle ipotesi di Girard e Gans in merito all’ominizzazione.

 

Il dialogo comincia con Pablo che, nella prospettiva dell’ipotesi girardiana, pone a Richard, l’esperto locale di antropologia generativa, delle domande intorno all’ipotesi gansiana sull’ominizzazione.

 

Pablo. Girard e Gans sono d’accordo nell’idea che l’oggetto centrale/vittima debba essere arbitrario. Come può un oggetto davvero arbitrario essere oggetto di desiderio appetitivo?

 

Richard. Come possono le parole “roast beef” contemporaneamente essere arbitrarie (si deve imparare il loro significato da qualcun altro) e riferirsi al roast beef reale? Che cosa permette agli umani di distinguere i segni arbitrari dagli oggetti non arbitrari?

Supponi che io metta un succulento pezzo di roast beef davanti al mio cane, e quindi punti il dito verso di esso e dica “roast beef”. Le mie parole non mediano l’oggetto per il cane. Se il cane rivolge loro una qualche attenzione, sarà solo come ad un altro indice che contribuisce al punto centrale della sua attenzione, che è quel pezzo di carne deliziosamente profumato. Per quel che concerne l’arbitrarietà del segno (o della vittima) il punto non è che non esiste una motivazione previa per interessarsi agli oggetti. È che il nuovo modo di attenzione inaugurato dal segno simbolico originario trascende la relazione appetitiva esistente in precedenza. Trascende: non nel senso che significhi che noi dagli animali che eravamo siamo diventati angeli—lungi da ciò. Ma piuttosto nel senso che non possiamo più interessarci all’oggetto indipendentemente dalla consapevolezza mimetica che l’altro modello/mediatore/rivale vi si sta parimenti interessando. Gli psicologi chiamano questo teoria della mente, la capacità di vedere le cose dal punto di vista di qualcun altro. (Essa appare svilupparsi nei bambini attorno all’età dei due anni—in altre parole, quando essi iniziano ad acquisire il linguaggio). Io la vedo come la base del pensiero simbolico, fondato nella scena originaria della rappresentazione collettiva.

Perché, se anche gli animali sono mimetici, soltanto gli umani sovrappongono alla relazione mimetica la mimesi dei segni, la scena della rappresentazione? Ma la domanda implica una inesistente teleologia dalla mimesi al linguaggio, per la qual cosa soltanto una puntuale ipotesi originaria può spiegare questa differenza. La mimesi ci porta ad interessarci agli oggetti guardando—imitando—gli altri. Gettate un tozzo di pane dal molo e immediatamente uno stormo di gabbiani si contenderà il boccone. La mimesi opera. Che cosa rende differente la mimesi umana? La differenza è la differenza stessa: cioè l’arbitrarietà della relazione tra il gesto imitato e l’oggetto verso cui esso tende (il mio cane e il roast beef). Nella scena originaria, questo gesto deve essere motivato appetitivamente, proprio come nel caso di tutti gli altri animali. Se non lo fosse, allora attribuiremmo alla scena una motivazione trascendente, che ancora non sussiste. Ma il risultato finale—se davvero originario—non è soltanto un altro accalcarsi attorno ad un oggetto appetitivo, ma la sua designazione come qualcosa di altro—il gesto mimetico appetitivo diventa un gesto di designazione, che separa il segno dall’oggetto, la periferia dal centro, la comunità umana dall’altro sacrificale. Per inciso, nella mia esposizione di Gans io ho incluso la vittima come concessione pedagogica. La violenza della scena originaria—lo sparagmos—è in primo luogo un atto di designazione dell’oggetto come centrale, vale a dire come differente dalla periferia umana. Questa è l’originaria separazione trascendentale tra l’umano (periferico) e il dio (centrale). Se questo oggetto sia un cospecifico o (come sembra più probabile) una non-cospecifica preda animale, questo è un dato empirico inverificabile. La cosa importante è la separazione tra centro e periferia. Il susseguente sparagmos è l’onore tributato al dio per aver creato questa separazione originaria tra centro sacro e periferia profana.

 

Pablo. Hai detto: “Nella scena originaria, questo gesto deve essere motivato appetitivamente, proprio come nel caso di tutti gli altri animali. Se non lo fosse, allora attribuiremmo alla scena una motivazione trascendente che ancora non sussiste”. La violenza mimetica negli animali non è naturale tanto quanto l’appetito? Sono stato attento a non usare il termine desiderio mimetico nel contesto di questa crisi mimetica pre-umana, precisamente per evitare questa falsa introduzione di umanità in una scena pre-umana. Ma la violenza mimetica può alla fine condurre (e di solito lo fa) ad un gesto del tipo uno-contro-tutti da parte del gruppo contro la vittima—o in termini gansiani può porre la periferia contro il centro.

 

Chris.  Davvero gli animali praticano il capro espiatorio in questo modo, cioè con un capro espiatorio come inevitabile risultato finale della violenza mimetica? Prima che vi sia un capro espiatorio non deve accadere un atto di designazione (con buona pace di Girard, che rovescia l’ordine)? In altre parole, il capro espiatorio non è un fenomeno umano? Gli animali mimetici usano le gerarchie dell’ordine di beccata per preservare la specie: gli iper-mimetici protoumani, tuttavia, non soggetti alla costrizione della camicia di forza della gerarchia animale, sarebbero morti spaccandosi reciprocamente il cranio: ma invece essi improvvisamente svilupparono il linguaggio, quando la loro iper-mimesi fece sì che d’improvviso si imbattessero nell’atto di rappresentazione di un oggetto appetitivo per il quale la loro crisi mimetica si stava esplicando mediante una sempre crescente imitazione.

 

Che cosa fa sì che l’imitazione diventi rappresentazione? Non è forse lo spostamento indietro dell’attenzione dal rivale mimetico all’oggetto appetitivo (ora designato grazie alla conseguenza logica della crisi iper-mimetica)? In altre parole, Gans non ha scoperto qualcosa con quel suo  “risultato controintuitivo” dal capitolo secondo di Signs of Paradox?

 

Pablo. Chris, ricordo di essere rimasto anch’io perplesso su questo punto—sul parlare di mimesi in un contesto preumano. Ma la cosa difficile è precisamente il fatto che noi osserviamo per davvero progressioni mimetiche di violenza nel regno animale, specialmente tra gli animali superiori come i primati. Salendo nella scala evolutiva, in genere si trova una crescente capacità di imitazione. Si può immaginare che gli ominidi di cui abbiamo parlato, situati sul gradino più alto della scala evolutiva, debbano essere stati estremamente mimetici. Ma, come tu suggerisci, questo non può ancora essere desiderio mimetico nel senso umano. Quando vediamo crescere la violenza mimetica in un gruppo di scimpanzé non può essere che essi siano presi in una qualche condizione esistenziale del tipo del doppio legame di Girard o del paradosso estetico di Gans. Penso che ciò che questi animali superiori stanno imitando in questa situazione siano le emozioni dell’altro (ovvero le emozioni animali elementari di paura, rabbia, ecc.). Questa è la mimesi nella sua forma più elementare—l’imitazione diretta dell’emozione. La paura ispira la paura, la rabbia ispira la rabbia, e quindi la violenza ispira la violenza. È solo tra gli umani che entra in scena il desiderio, e la mimesi elementare diviene desiderio mimetico.

 

Così, in breve, gli animali non praticano il capro espiatorio nel senso umano. Ovvero, essi non pensano la loro vittima come un capro espiatorio. Questo richiederebbe non soltanto il linguaggio o la designazione, ma la qualità della trascendenza che rende possibile il riconoscimento dell’Altro, e di conseguenza il linguaggio. Ma essi uccideranno ugualmente, collettivamente, come risultato di una crisi mimetica elementare. Il punto che volevo far rilevare a Richard era che per gli animali superiori questa violenza è tanto naturale quanto gli appetiti.

 

Volevo poi riprendere una questione sollevata da Richard, ma per qualche motivo caduta durante la discussione. Lui chiedeva che cosa ci fosse nella “scena originaria” di Girard, la quale coinvolge una vittima anziché un oggetto appetitivo, che fosse in grado di imprimere quel momento nella memoria dei membri del gruppo. O, in altre parole, che cosa consentisse al momento originario di avere un effetto durevole (cioè permanente).

 

Gans affronta questo tema a pag. 34 di Science and Faith:

 

Senza la pacifica divisione e distribuzione dell’oggetto appetitivo centrale, la pace assicurata dal gesto interrotto sarebbe durata ben poco, e il suo ricordo anche meno: la sopravvivenza del sistema di rappresentazione inaugurato nella scena originaria richiedeva che esso conducesse ad una soddisfazione appetitiva maggiore, o comunque più sicura, di quella che era disponibile in precedenza.

 

Questo sembra implicare che dopo l’evento originario—dopo che l’animale pre-umano ha attraversato la soglia dell’umanità—sia effettivamente possibile tornare all’animalità se l’evento originario viene dimenticato. In realtà, può essere che nella storia del mondo l’umanità sia nata più volte prima di attecchire in ragione degli eventi particolari che l’hanno seguito immediatamente. Dico bene? Se le cose stanno così, io allora qui ho un problema. Come abbiamo visto prima nella nostra discussione, il passaggio all’umanità implica l’acquisizione della qualità della trascendenza. Con le parole di Gans, esso implica il riconoscimento di un’ontologia trascendentale. A me sembra che questa soglia sia irreversibile: una volta che si sia acquisita la qualità del pensiero trascendente non si può abbandonarla di punto in bianco o dimenticarla. Da quel punto in avanti si vedono le cose in modo differente, che ci si ricordi o meno dell’evento originario. L’idea che si possa diventare umani e poi perdere la propria umanità è inquietante.

 

Ho poi un’altra questione connessa da porre, che riguarda la seconda parte di quella citazione di Science and Faith di Gans. Il momento cruciale della scena originaria, il gesto interrotto, è il risultato di un’interazione mimetica crescente, culminante in un risentimento estremo (la prima reale sensazione di risentimento). Possiamo davvero affermare che la susseguente soddisfazione pacifica dell’appetito abituale sia più memorabile dell’evento originario stesso? Essa è certamente più “stabile”, ma penso che il concetto di Gans sia che questa azione sia più memorabile, o renda più memorabile l’evento originario. Non capisco bene perché debba necessariamente essere così.

 

Per di più, la distribuzione del cibo a ciascun membro del gruppo dà sicuramente luogo ad una maggiore soddisfazione appetitiva rispetto ad una situazione in cui nessuno ne prenda niente. Ma di certo consente una minore soddisfazione di quella che si avrebbe prendendosi tutto, che è in realtà quello che ogni animale cercava di conseguire prima dell’evento originario. Così, ancora, dal punto di vista di ciascun animale, perché questa spartizione del cibo, che si traduce in una soddisfazione appetitiva minore di quella che ciascun animale sperava, dovrebbe rendere più memorabile l’evento originario?

 

Chris. No, io non vedo nel passo di Science and Faith un’apertura alla possibilità di un ritorno indietro. Esso afferma semplicemente la necessaria connessione della pace dello sparagmos all’invenzione del primo segno.

Quel che mi interessa è la questione se la scena originaria sia accaduta una sola volta, o se essa sia dovuta accadere una molteplicità di volte nella preistoria, tra comunità differenti. La questione si applica sia all’ipotesi di Girard che a quella di Gans.

 

Pablo. Il problema è che, secondo Gans, la pace dello sparagmos viene dopo il primo segno… dopo che l’animale è divenuto uomo. Se questa pace è in realtà necessaria per rimanere umani, allora questo implica che senza questa pace l’effetto umanizzante del primo segno non durerebbe—cioè l’umano ricadrebbe nell’animalità.

 

Richard. Eh, sì, sono d’accordo con Chris sull’idea che ciò che rende originario l’evento originario è il suo essere ricordato. Se non lo è, allora non è originario. Il gesto interrotto in tal caso non sarebbe stato un segno e lo sparagmos sarebbe stato soltanto il normale comportamento di animali in competizione per un pezzo dell’oggetto appetitivo.

 

Naturalmente è possibile—probabile, invero—che vi siano state innumerevoli volte in cui la soglia è stata raggiunta, quando l’interazione mimetica tendeva verso qualcosa di simile all’evento originario. Ma il concetto dell’ipotesi originaria è che questo qualcosa di simile non può essere sostituito come spiegazione dell’origine della cultura simbolica. La definizione di quest’ultima è che essa è cosciente, ovvero che è memorabile per quelli che vi partecipano in un modo radicalmente differente dai meccanismi istintuali degli animali. Questo è il motivo per cui Gans si oppone al gradualismo della teoria evoluzionistica quando essa giunge a spiegare la cultura. La spiegazione evoluzionistica della cultura si limita alla sua riduzione a precursori non-culturali, il che equivale a dire ad eventi che sono non-originari e non-simbolici. Tutto ciò non ha a che fare con la questione della monogenesi o poligenesi. Logicamente è possibile che gruppi differenti di ominidi in diverse regioni geografiche abbiano inventato/scoperto il linguaggio. Ma, come osserva Gans, quest’ipotesi non è molto parsimoniosa. È di gran lunga più probabile che l’evento originario—che di per sé è un’occorrenza altamente improbabile e anomala—sia accaduto soltanto una volta in un gruppo di (proto-) umani. Si può allora assumere che il linguaggio/cultura si sia comunicato per diffusione. Una volta che la cultura abbia avuto origine, essa può essere appresa per imitazione. Qui presumibilmente si inserisce il rituale religioso, che produce un tipo di appartenenza che trascende le relazioni di parentela dei gruppi sociali animali.

 

Pablo. Che cos’è, precisamente, l’evento originario? Il gesto di appropriazione interrotto o lo sparagmos che lo segue? Da tutto quello che è stato detto finora, ho capito che è il gesto interrotto a costituire il momento critico in cui viene oltrepassata la soglia tra l’animalità e l’umanità. Lo sparagmos viene dopo, e aiuta a spiegare i caratteri di violenza e distribuzione del cibo che vediamo nel mito e nel rituale. Ma ora parrebbe che noi diciamo che se lo sparagmos non avviene, allora il segno originario non è stato in primo luogo effettivamente un segno, il che non avrebbe senso. O è stato il primo segno o non lo è stato. Quello che avviene dopo non può cambiare questo dato.

 

Forse quello che cercate di inculcare nella mia dura cervice è che l’evento originario viene ricordato dalle generazioni successive solo se lo sparagmos avviene. In altre parole, il gruppo originario di proto-umani che ha esperito l’evento resta umano nella fase successiva, e poiché l’evento è ricordato tramite lo sparagmos quest’esperienza viene insegnata ad altri proto-umani. È così? Ma se è così, questo solleva un’altra questione correlata (scusatemi)… È davvero possibile che dei proto-umani (i quali, per definizione, sono ancora soltanto degli animali) imparino ad essere umani? È il fatto che questi proto-umani di cui stiamo parlando siano ipermimetici che rende possibile questo apprendimento? Se è così —se questi proto-umani sono per così dire alla soglia dell’umanità—allora non sono sicuro che occorra qualcosa di così drastico come una crisi mimetica originaria per far loro oltrepassare quella soglia.

 

Richard. Il gesto interrotto è la differenza. Se il gesto viene riconosciuto come simbolo (= il paradosso mimetico di Gans), allora accade l’evento originario. Se non viene riconosciuto come tale, allora non c’è nessun evento originario. Quindi nessuna umanità.

 

Lo sparagmos è il dopo del segno: lo scaricarsi della tensione dell’originario paradosso mimetico/simbolico sull’oggetto centrale. Quando mi riferivo allo “sparagmos” di animali in competizione su di un oggetto appetitivo, parlavo in modo piuttosto approssimativo (mea culpa). Non esiste alcuno sparagmos—ovvero nessuna crisi sacrificale—per gli animali. Solamente la contesa del branco di lupi per un pezzo dell’oggetto appetitivo.

 

Per venire a come viene ricordato l’evento originario, questo è il nocciolo della questione. Al fine che la scena venga ricordata come una scena con una periferia e un centro, deve essere compresa la struttura fondamentale del segno, il che vale a dire che esso deve essere coscientemente eseguito e ricordato (e questo è il motivo per cui Gans insiste a dire che esso precede lo sparagmos—qualcosa che probabilmente io non ho sottolineato a sufficienza durante il nostro ultimo incontro). Da quel momento in poi l’oggetto non è più soltanto un pezzo di carne, da cui sono attratto perché l’evoluzione biologica del mio corpo mi ha portato ad essere attratto da cose del genere. Io ora vi dirigo la mia attenzione come ad un oggetto di desiderio, ovvero per il fatto che esso occupa il centro della scena della rappresentazione. Anche l’oggetto partecipa della struttura significante del segno: esso è il referente immaginario del segno, e come tale trascende la sua realtà appetitiva. Io ora non voglio più l’oggetto solo per soddisfare un bisogno appetitivo. Lo desidero per la sua immaginata significanza al centro. L’idea di Gans è che la scena non può essere ricordata senza quel “placeholder” che è il segno, il quale, in ogni caso, è tutto ciò che della scena rimane mediante cui possiamo ricordarla. Il segno è minimale, nel senso che tutto quel che richiede è l’emissione della parola. Ma nel caso elementare della cultura ostensiva, il segno non è meramente una parola indipendente da suo oggetto mondano (questo viene soltanto con la cultura dichiarativa): è una parola insieme con il suo oggetto, la riproduzione rituale della scena originaria. I primi partecipanti alla scena originaria scoprirono questa relazione tra segno e oggetto tramite una rivelazione—almeno deve essere apparsa loro come tale. I nuovi venuti al mondo post-originario dovettero apprendere questa relazione non tramite una rivelazione ma con la partecipazione alla riproduzione rituale di quella rivelazione originale. È per questo che Gans si oppone alla poligenesi—sarebbe come chiedere a Dio un altro fulmine. “Non fare il ritroso, vieni qua. Dammi solo un’altra prova per favore”. Così non va.

 

Quelli che successivamente pervengono alla scena vi sono attratti per mimesi: essi vengono istruiti sul come differire il risentimento mediante i riti di passaggio delle ripetizioni post-originarie, vale a dire mediante la cultura che essi non hanno inventato ma ereditato dai loro progenitori, a cominciare da quei compartecipanti all’evento originario che fecero la scoperta più rivelativa di tutte: quell’appartenenza virtuale (la città di Dio) che è l’umanità.

 

Pablo. Penso che finalmente con Richard e Chris ci siamo capiti. L’idea che la “distribuzione pacifica dell’oggetto appetitivo”segua logicamente dal segno originario è davvero sensata. Essa conferma effettivamente la significanza dell’evento originario nelle menti dei nuovi umani, e perciò prolunga la sua memoria. In questo senso è analoga alla pace che segue l’uccisione della vittima nella scena originaria di Girard.

 

Fondamentalmente, io confondevo la “distribuzione pacifica” di cui Gans parla in Science and Faith con lo sparagmos di cui dice in Signs of Paradox. Ora, io dovrei probabilmente tornare a leggere Signs of Paradox, ma forse qualcuno di voi mi può ricordare come queste due cose stiano insieme. Gans dice che il gesto interrotto è necessariamente seguito dalla distribuzione pacifica dell’oggetto, senza la quale esso non durerebbe nella memoria del gruppo. Lo sparagmos, per contrasto, è un violento sfogo di tensione mimetica che segue anch’esso il gesto interrotto, e si risolve nella violenta lacerazione dell’oggetto. Come coesistono questi due aspetti nella scena originaria?

 

Per continuare su quel che dice Richard… L’idea di animali pre-umani che imparano la cultura da quegli ominidi che hanno realmente sperimentato l’evento originario mi sembra problematica. Posso certamente capire perché si potrebbe dire che questi animali debbano imparare questa cultura mimeticamente, dal momento che non vi è altro modo di interazione psicologica disponibile per un animale. Ma il fatto è che per quante volte si ripeta un gesto di fronte ad uno scimpanzé, questo non lo comprenderà mai come un segno rappresentativo. Un animale non può imparare ad essere umano. Così, per me non è tanto ovvio come gli animali che non erano partecipanti alla scena originaria abbiano fatto in modo di diventare umani anche loro. Come ho detto, può essere che la natura ipermimetica di questi ominidi consenta loro il passaggio all’umanità per mera imitazione più facilmente rispetto ad altri animali. Ma innanzitutto, se era così facile per loro attraversare quella soglia, era proprio necessario qualcosa di così drammatico e speciale come l’evento originario?

 

Per inciso, questa domanda si pone tanto per Girard quanto per Gans.

 

Richard. Sono contento di non aver generato ancor più confusione, Pablo.

 

Per quel che riguarda il tuo ultimo quesito, penso che forse stai chiedendo troppo sull’evento originario, la cui funzione non è empirica ma epistemologica. Cioè mi sembra che tu dica che se non si può insegnare a degli scimpanzé ad avere un’esperienza simile (per esempio nel laboratorio di un primatologo), allora l’ipotesi originaria sarebbe falsificata. Due punti.

  1. L’ipotesi non è né confermata definitivamente né definitivamente falsificata da esperimenti del genere. Perfino se si potesse insegnare ad uno scimpanzé a comprendere segni simbolici, questo non confermerebbe la verità dell’ipotesi. Per inciso, le cose non sono così chiaramente definite come tu sembri assumere. In condizioni di laboratorio molto artificiali, appare che gli scimpanzé sono in grado di acquisire una rudimentale comprensione di segni simbolici. (Posso citare gli esperimenti di Sue Rambaugh con il bonobo o scimpanzé pigmeo di nome Kanzi, che sono stati sagacemente interpretati da Terrence Deacon nel suo libro The Symbolic Species [1997]). Quello che dimostra il successo di simili esperimenti è che non esiste alcuna ragione genetica innata che impedisca agli scimpanzé di acquisire il linguaggio. In un certo senso questo corrobora (ma non prova) l’ipotesi originaria, perché dimostra che il fattore decisivo non è biologico.  Un assunto dell’ipotesi originaria è l’origine non-biologica del linguaggio: quest’ultima si riferisce ad un evento indimenticabile e non può essere spiegata né come mutazione genetica (Chomsky) né come estensione evolutasi lentamente di sistemi di comunicazione animale preesistenti (Deacon è qui di nuovo istruttivo).
  2. Tu hai anche delle perplessità circa la mia idea che i nuovi venuti alla scena originaria della cultura debbano imparare a parteciparvi imitando i loro precursori (culturali). Ma a questo si possono davvero muovere delle obiezioni? Non è più implausibile aspettarsi che ciascun nuovo venuto debba—in isolamento dai partecipanti originali—ogni volta di nuovo passare attraverso l’evento originario? Quello che la ripetizione rituale fa è riprodurre la struttura dell’evento originario in ciascun nuovo individuo. Quello che è originario nel rituale è il suo riferirsi all’evento originario stesso.

 

A questo riguardo sono istruttivi gli esperimenti di addestramento al linguaggio condotti sugli scimpanzé. Come ho indicato, in condizioni speciali è di fatto possibile far assimilare a degli scimpanzé una cultura simbolica rudimentale. Ma nel suo ambiente naturale nessuno scimpanzé vi si avvicina mai. Perché? È chiaro che l’infrastruttura fornita dagli sperimentatori, che richiede ripetizioni rituali estremamente tediose di relazioni indessicali segno/oggetto riproduce per gli scimpanzé qualcosa di simile ad un evento originario. Deacon pensa perfino che il momento del riconoscimento per lo scimpanzé si dia come una intuizione piuttosto che come una ripetizione di precedenti relazioni segno/oggetto (che sono imparate indessicalmente). In altre parole, il rendersi conto che la relazione è simbolica piuttosto che indessicale è qualcosa che deve essere scoperto da ciascuno scimpanzé. E questa scoperta avviene solo dopo un laborioso addestramento ritualizzato. Vorrei avanzare l’ipotesi che la funzione di ciò che Gans chiama cultura “elementare” sia analoga agli esperimenti con gli scimpanzé: un lungo periodo di co-evoluzione tra cultura elementare e struttura del cervello umano, della durata probabile di milioni di anni, nel quale il cervello umano si è evoluto per divenire predisposto ad acquisire la cultura simbolica. La ragione per cui i bambini imparano il linguaggio in modo tanto facile è la conseguenza di questo lungo periodo di co-evoluzione. È anche estremamente significativo il fatto che i cosiddetti bambini-lupo—ovvero bambini che non sono esposti al linguaggio prima che il loro cervello maturi—non acquisiscano mai una normale capacità di linguaggio. In altre parole, a dispetto del fatto che noi siamo—grazie a millenni di co-evoluzione—biologicamente predisposti all’acquisizione della cultura simbolica, in ultima analisi quest’acquisizione ancora dipende da un livello di interazione che non è biologico ma antropologico, vale a dire dipendente dalla nostra partecipazione mimetica a qualcosa che discende dalla scena originaria.

Quello che sto dicendo è che forse le tue obiezioni sono eccessivamente focalizzate sul lato empirico dell’evento. Se i preumani sono così predisposti a varcare la soglia della cultura simbolica, perché non tralasciare del tutto l’evento originario? Perché non limitarsi a dire che gradualmente un numero crescente di preumani ha attraversato la soglia man mano che apprendevano a concentrare le loro aggressioni mimetiche su di una singola vittima? Penso che la gradualizzazione dell’evento dell’origine umana sia in effetti legata all’idea di Girard secondo cui quello del capro espiatorio è un meccanismo piuttosto che un evento conscio che può essere ricordato. Girard in verità qualche volta parla come se la pratica del capro espiatorio fosse innata nella natura umana, e qui egli va ad ingrossare le file dei sociobiologi. Gans dal canto suo non fa questo. Secondo lui la violenza umana si distingue radicalmente dalla violenza animale perché essa assume la struttura dell’evento originario, che si può concepire solo in termini di scena della rappresentazione, con una periferia, un centro e tutte le altre “categorie antropologiche fondamentali” che comprendono quelle linguistiche, estetiche, del sacro e dello scambio economico.

 

Pablo. In realtà, tu stai rispondendo ad un problema leggermente differente da quello che io ho in mente. Io non mi preoccupo di falsificare la teoria di Gans o quella di Girard (la mia domanda si rivolge ad entrambe). Gans e Girard la pensano allo stesso modo riguardo alla questione se le loro teorie siano o non siano teorie nel senso di Karl Popper, e sul valore di una teoria che non possa essere falsificata in linea di principio. Sono completamente d’accordo con quello che loro dicono su questo (e che dici anche tu). Il fatto che sia difficoltoso riprodurre un evento originario in laboratorio non significa che un evento siffatto non ci sia stato.

 

La mia domanda non è tanto sui dettagli specifici di come i preumani abbiano effettivamente imparato la cultura dai loro predecessori, ma se una cosa del genere sia del tutto possibile, da un punto di vista antropologico. Gans obietta ad ogni teoria che attribuisca qualità di tipo umano a quelli che debbono essere stati animali preumani. Fondamentalmente, io sollevo un’obiezione dello stesso genere. Proprio per il fatto che il linguaggio può essere imparato solo facendo l’esperienza dell’evento originario (e non geneticamente o per via di evoluzione), come possono imparare il linguaggio dei preumani che non abbiano fatto esperienza di quest’evento? Tu dici che l’hanno imparato imitando la ripetizione ritualistica dell’evento fatta dai loro predecessori. Questo ha senso per bambini o bambini-lupo, che sono già umani, ma non ne ha altrettanto per degli animali preumani. Come hai detto, potrebbe essere possibile per un animale avere spontaneamente “un’intuizione” dopo molti e molti anni di ripetizione (ho i miei dubbi su di questo, ma accantoniamoli per ora). Ma dopo pochi anni i membri originali del gruppo capaci di effettuare una ripetizione ritualistica sono morti. Mi rendo conto che questo ricade nel lato empirico delle cose, ma si tratta di un fatto basilare di cui occorre dar conto. Come è possibile per un animale preumano “imparare” la cultura da un membro del gruppo nel giro di pochi anni soltanto?

 

Quali che siano i dettagli esatti dell’origine dell’umanità (o del linguaggio, per voi gansiani), io penso che noi possiamo di sicuro dire due cose su questo: (1) è stato un evento singolo e improvviso, e (2) ha coinvolto un gruppo relativamente esiguo di animali protoumani (anche 50 o 100 animali rappresentano un piccolo numero su scala planetaria). Questo piccolo gruppo potrebbe essere sopravvissuto per un numero di anni relativamente piccolo. Questi fatti basilari, per quanto empirici possano essere, non possono essere ignorati. Se il gesto originario effettivo sia stato un dito puntato o un pugno agitato è secondario. Se la ripetizione ritualistica dell’evento implicasse fare baccano o un qualche tipo di sciarada è secondario.  Se degli animali preumani abbiano o non abbiano la capacità psicologica di apprendere un pensiero trascendente, e se i loro insegnanti siano stati a loro disposizione abbastanza a lungo per consentirglielo oppure no, queste sono questioni critiche.

 

Richard. In realtà io ho preso il tuo quesito originario nel senso che tu intendevi, e cioè come siano diventati umani tutti quei preumani che non hanno partecipato realmente all’evento originario.

La mia risposta: la scena originaria si propaga per diffusione, ovvero nello stesso modo in cui si propaga ogni cultura simbolica: con nuovi individui che partecipano alla riproduzione rituale che rimanda all’evento originario.

 

Tu obietti “Proprio per il fatto che il linguaggio può essere imparato solo facendo l’esperienza dell’evento originario (e non geneticamente o per via di evoluzione), come possono imparare il linguaggio dei preumani che non abbiano fatto esperienza di quest’evento?”. Nel mondo post-originario, si fa esperienza dell’evento originario riproducendolo. Questo è ciò che fa il rituale (e perfino la sua forma minimale, il linguaggio). Il rituale è una forma di rappresentazione dell’evento originario. È quello che obietto ai girardiani che insistono che la scena della vittimizzazione non implica la rappresentazione. Il rituale è sempre rappresentazionale: esso rappresenta la scena originaria.

 

Tu hai anche obiettato:  “Tu dici che l’hanno imparato imitando la ripetizione ritualistica dell’evento fatta dai loro predecessori. Questo ha senso per bambini o bambini-lupo, che sono già umani, ma non ne ha altrettanto per degli animali preumani”. Be’, in effetti esso “ha senso” per chiunque possa trarre senso dalla ripetizione rituale, compresi bambini-lupo, scimpanzé e—Dio non voglia!—robot. Questa è la definizione antropologica dell’umano: tu sei umano se sei capace (come Data in Star Trek, o R2D2 in Guerre Stellari, o Kanzi nel laboratorio di Sue Rumbaugh, o il preumano X a partire da tre minuti dopo l’evento originario) di partecipare all’evento originario. La differenza umano/preumano si colloca qui. Se gli animali preumani non ce la fanno, allora non sono umani.

Così, volendo indulgere a qualche speculazione empirica, supponiamo che due milioni e mezzo di anni fa un piccolo gruppo di preumani (chiamiamolo gruppo A) stia vagando per la savana africana. Si imbattono in alcuni ghepardi che hanno appena ucciso un’antilope. Essi riescono ad allontanarli con pietre e bastoni e urla, ecc. Circondando l’animale ucciso, si avvicinano a quei resti di carne e pelo sanguinanti. Ma in quel momento ciascuno vede il gesto appropriativo degli altri, e ciascuno per un momento esita. Ciascuno percepisce il gesto dell’altro in un’oscillazione paradossale tra l’oggetto centrale e i gesti interrotti degli altri alla periferia. Ecco! Il gesto di appropriazione interrotto si trasforma in un segno: il differimento del conflitto mimetico mediante la rappresentazione. Dopo questa esitazione, la divisione della preda ha luogo nel susseguente sparagmos. Ma questo sparagmos è intriso per sempre della memoria del segno, che dimostra a ciascun individuo che la sua relazione all’oggetto appetitivo centrale è mediata dal desiderio dell’altro. Da quel momento in poi ciascun individuo sarà incapace di appropriarsi dell’oggetto centrale senza realizzare che sta partecipando ad un atto sociale che è mediato dal desiderio dell’altro.

 

Bene. Così ora supponiamo che, in un territorio vicino, un altro gruppo di preumani (gruppo B) abbia circondato e ucciso uno sfortunato cercopiteco. Segue una rissa per la carne, e come al solito il maschio alfa (chiamiamolo Conan) si appropria della preda intera e si dispone al suo banchetto, mentre il resto del gruppo sta ai margini elemosinando qualche resto dal possente Conan. Conan elargisce qualche boccone alle femmine, ma ingiunge ai maschi giovani di smammare con qualche morso alle loro mani protese. Quelli rispondono a loro volta con morsi, ma benché infastidito Conan non molla il suo bottino. Alla fine, stanchi della contesa, quelli si ritirano a leccarsi le ferite, e guardano imbronciati il trionfante Conan che pasteggia.

Ora supponiamo che il gruppo A rapisca una giovane femmina del gruppo B. Essa diviene parte del gruppo A. Durante una successiva spedizione alla ricerca di cibo, il gruppo disturba gli stessi ghepardi che stanno mangiando una nuova preda (forse sarebbe tempo che cambiassero zona?). Essi allontanano i felini e si fanno sotto per prendersi la carne. Ma questa volta il momento di esitazione si prolunga: l’oggetto centrale riporta alla mente l’oscillazione paradossale dell’occasione precedente (la scena originaria). Ciascun individuo indugia un po’ più a lungo sul gesto di appropriazione interrotto; la memoria dell’evento precedente rimane vivida nella mente di ciascun individuo. Tutti rievocano il momento della sospensione prima dello sparagmos in cui la carne è stata divisa tra di loro in modo più egualitario, così essi indugiano ancora, forse inchinando le loro teste davanti alla carne, che ora sembra resistere irresistibilmente ai loro desideri. Vi è una sola eccezione: la nuova femmina non ricorda un simile evento. Ma, non essendo avvezza ad esercitare la dominanza, anch’essa china la sua testa ad imitazione dei suoi simili, e prova lo stesso desiderio prolungato di possedere la carne che sanguina in modo così invitante davanti ai suoi sensi eccitati. questo desiderio si ferma qui. Quando l’inchino è finito, ha inizio lo sparagmos. Ma, con sua sorpresa, la femmina è trattata nello sparagmos come un’eguale. Anche lei riesce a strappare un pezzo di quella carne tremolante. Questa è la sua ricompensa per la sua obbedienza al dio della carne. Fianco a fianco con Maximus (l’equivalente di Conan nel gruppo A) essa condivide la carne sacra. Ed è precisamente perché Maximus ricorda il successo miracoloso dell’evento originario, nel quale ha ottenuto una porzione della preda senza dover combattere coi suoi rivali per averla, che lui desidera, ancora una volta, differire il suo appetito e chinare la sua testa alla carne invitante che gli sta di fronte.

 

Innumerevoli volte il gruppo A ripete questa struttura. E, in modo forse sorprendente, invece di indebolirsi diventa più forte. Ora si trova in vantaggio nelle contese territoriali col gruppo B. Progressivamente i membri del gruppo B vengono eliminati, come il testardo Conan che non si voleva inchinare al nuovo dio del gruppo A, o assorbiti nella sua religione, come la prima femmina che ha accettato con gratitudine il pezzo di carne eguale nel suo primo rito di passaggio in questa strana nuova comunità che insiste nella dilazione prima del pasto di carne. Il gruppo A espande irresistibilmente il suo territorio. Esso ora non è più tenuto insieme da una rete di relazioni di parentela biologica, ma da relazioni culturali: sono parte della comunità tutti quelli che partecipano al suo rito di passaggio di gratificazione  ritardata davanti alla carne.

Approssimativamente dopo 2 milioni di anni di questo tipo di comportamento, si è evoluta una cultura simbolica pienamente sviluppata, culminante nell’esplosione culturale del paleolitico superiore: strumenti litici, pitture nelle caverne e siti di sepoltura sono i segni materiali lasciati da quell’esplosione. Per parafrasare Neil Armstrong: “Un solo piccolo gesto di appropriazione interrotto per il gruppo A, una esplosione culturale gigantesca per il genere umano”.

 

Pablo. Un racconto eccellente! Fondamentalmente tu dici che nell’evento originario i preumani imparano il linguaggio dagli altri preumani nella periferia della scena. In seguito i preumani imparano il linguaggio allo stesso modo da quelli che sono già umani nella periferia riprodotta della scena. Ogni volta che l’evento originario è riprodotto e ripetuto (o meglio quasi ogni volta), dei nuovi preumani sperimentano effettivamente l’evento originario sperimentando la replica di quell’evento.

 

Ora, consentimi di tralasciare ancora una volta i dettagli empirici… Vi è, io penso, l’assunto di base che, a prescindere dai suoi dettagli precisi, l’evento originario in sé sia stato qualcosa di grande. Il che significa che è stato qualcosa di speciale e improbabile, altrimenti sarebbe probabilmente accaduto più di una volta in più di un luogo. Il gesto interrotto non è stato uno dei soliti vecchi gesti—è stato qualcosa di più di due animali cozzanti con la testa—è stato il risultato o il culmine di un insieme altamente specializzato di condizioni che normalmente in natura non esistono. Ricorda che non stiamo parlando di pochi animali che imparano un nuovo espediente, anche se impressionante come un nuovo gesto. Stiamo parlando di animali che acquisiscono la capacità di pensiero trascendente, senza il quale il linguaggio è impossibile. Pertanto mi sembra un po’ strano che, mentre un evento originario riuscito è così difficile da conseguire, la mera riproduzione di quell’evento, che non è molto differente, abbia uguale successo. Per dirla diversamente, se si eliminano tutti gli elementi e i parametri dell’evento originario e lo si riduce ad un singolo gesto, per quanto importante quel gesto sia, si avrà ancora l’evento originario con tutta la sua potenza? Anche se accettiamo l’idea che questo tipo di apprendimento possa darsi nel corso di molti anni, è difficile credere che possa avvenire durante i pochi anni in cui gli umani originali rimangono in vita. Per di più, esso deve essere avvenuto con estrema efficienza (letteralmente, quasi ogni volta in cui l’evento originario è stato riprodotto) per aver mantenuto di generazione in generazione un numero di umani crescente.

 

Non desidero insistere troppo sul punto. Onestamente devo dire che è proprio questo genere di cose che rende poco convincente per me una spiegazione puramente naturalistica dell’origine dell’umanità. In definitiva, la creazione del pensiero trascendente da un meccanismo immanente proprio non sembra logica. È lo stesso problema che pone il tentativo di spiegare l’origine della vita da un procedimento puramente naturale. Si può creare una scena plausibile che implica una pozza di brodo primordiale, qualche fulmine e—voilà!—ecco che la vita è nata. Ma questo in realtà non spiega nulla—è solo una possibile ambientazione per la scena dell’origine della vita. Per dirla in altro modo, immagina di assemblare un corpo umano servendoti di ossa e organi sani. Ciascuna singola parte del corpo è intatta e apparteneva a qualche corpo vivente, e tu metti tutto insieme così che ogni pezzo fino al più piccolo capillare sia connesso con assoluta precisione. Alla fine avrai ottenuto una persona vivente? No, ti troverai alla fine con un mucchio di parti corporee ben connesse e niente di più. Per creare la vita da zero ci vuole qualcosa che sia al di là dei meccanismi naturali a nostra disposizione. Per creare la vita ci vuole qualcosa che sia al di sopra della vita. Allo stesso modo, penso che per creare il pensiero trascendente ci voglia qualcosa di trascendente—qualcosa al di sopra dell’umanità per creare l’umanità.

 

Andrew. Questa implicazione del soprannaturale mi rende nervoso.

 

Pablo. Temo che sia inevitabile. In ogni caso, l’esistenza del soprannaturale non elimina o invalida il naturale.

 

Formulo la domanda: “Se si eliminano tutti gli elementi e i parametri dell’evento originario e lo si riduce ad un singolo gesto, per quanto importante questo gesto sia, si avrà ancora l’evento originario con tutta la sua potenza?”. Mi potresti rispondere: “Sì, Pablo. L’evento critico nella scena originaria è il gesto interrotto. Era difficile che questo gesto avvenisse accidentalmente in natura, ma una volta verificatosi la sua riproduzione deliberata è una conseguenza lineare”.

 

Quel che mi disturba in questo è l’idea che un singolo gesto, riprodotto così facilmente e indipendente da qualsiasi contesto speciale o scenario specifico, possa essere responsabile della creazione del pensiero trascendente. Fondamentalmente, se è così facile trasformare un animale in un umano (una volta appreso l’espediente), si dovrebbe pensare che si possa farlo in un laboratorio.

 

Richard. Essenzialmente quello che sostieni è che, data la tremenda differenza tra la cultura simbolica e tutti gli altri sistemi pre-simbolici di organizzazione sociale, è impossibile credere che questa differenza possa essere ridotta  ad un miseramente piccolo atto di appropriazione interrotto. Se l’evento originario è realmente l’origine della trascendenza, bene, allora non esitiamo e parliamo della trascendenza in termini che siano convenientemente trascendenti.

 

Io simpatizzo con il tuo trascendentalismo scettico, ma il minimalismo della scena originaria è il prerequisito di ogni antropologia fondamentale che desideri evitare di essere designata come mito di origine. Se si comincia a caricare la scena di ogni tipo di figure (ad esempio introducendovi la vittima umana di Girard), non si ha più un’antropologia minimale. Quel che si ottiene è una riproduzione rituale/mitica che va decisamente contro il minimalismo del pensiero originario.

 

Ma io non penso che il gesto interrotto come segno simbolico possa essere ridotto alla nozione di un semplice espediente che qualsiasi ominide scaltro avrebbe potuto escogitare. Il punto naturalmente è che il segno simbolico non è un espediente (come nel caso di uno scimpanzé che per raggiungere una banana usa un lungo bastone), ma la condizione di una scena mimetica altamente instabile: il triangolo mimetico minimale o scena originaria della rappresentazione. Perciò sono in disaccordo con te quando dici che si può eliminare da questa scena tutto tranne il gesto interrotto senza perdere nulla. Il gesto interrotto esiste come segno soltanto entro il contesto complessivo della scena. È questa la ragione per cui i segni indessicali prodotti da primati non umani non si possono considerare linguaggio.

 

Ovviamente, la ragione per cui gli scimpanzé non producono cultura simbolica sta nel fatto che il conflitto mimetico non ha mai rappresentato quel tipo di problema assoluto che ha rappresentato per i nostri antenati ominidi. Come dice Gans, quella umana può essere definita semplicemente come la specie per cui il problema più grave è posto dal conflitto interno piuttosto che dal conflitto esterno con l’ambiente. Per cogliere la verità di questo è sufficiente guardare alle precarie condizioni in cui versano oggi gli scimpanzé. Essi sono in pericolo a causa nostra, non a causa di se stessi.

 

L’altro punto è che tu sembri confondere la scena originaria con la riproduzione di quella scena. Tu sembri presupporre che se la probabilità dell’evento originario è bassa, ne segue che la probabilità della sua riproduzione sia egualmente bassa. Ma questa non è una conseguenza necessaria.

 

Un’analogia: pensa ad uno di quei rompicapo che ti richiedono di individuare la figura nascosta in una immagine.

 

Chris. I rompicapo del tipo occhio magico! Oh, io li odio!

 

Richard. Perché?

 

Chris. Non riesco mai a individuare la figura nascosta!

 

Richard. Bene, prima tu non la vedi. Poi all’improvviso (abbi pazienza, Chris) tu la vedi. Dopo di ciò diventa impossibile fallire. Ora tu puoi “riprodurre” l’intuizione originale sempre di nuovo senza difficoltà. Forse tu puoi anche mostrare a qualcuno che non sa ancora vederla come fare per vederla. In verità, forse è così che tu hai imparato a vederla la prima volta, cioè grazie a qualcuno che ti ha mostrato come trovarla.

 

Ora proiettiamoci indietro all’evento originario. Prima dell’evento, l’oggetto era solo un pezzo di carne qualsiasi. Durante l’evento, la carne diventa l’oggetto paradossale del segno originario, la prima figura in una serie infinita di figure simili. Voilà: la scena generativa dell’origine. Il primo momento originario fornisce la differenza cruciale.

 

Andrew. Questo è grande. Mi pare di sentire che questo dialogo ci stia aiutando a vedere la figura nascosta nella scena originaria…

 

Chris. Pablo, quello che bisogna ricordare a proposito della tua obiezione—“se è così facile trasformare un animale in un umano (una volta appreso l’espediente), si dovrebbe pensare che si possa farlo in un laboratorio”—è che l’origine del linguaggio è un little bang. Così lo descrive Gans (vedi http://www.anthropoetics.ucla.edu/ap0501/gans.htm ).

 

Pablo. L’analogia del little bang mi sembra sensata. La mia idea è che l’evento umanizzante, originario o riprodotto, deve essere un bang per tutti gli ominidi che ne fanno esperienza. Si ha come l’impressione che per ogni ripetizione susseguente dell’evento originario Gans mantenga il little ma lasci fuori il bang.

 

Richard. Vedo quel che dici, Pablo. Dal punto di vista di coloro che partecipano alle riproduzioni rituali post-originarie dell’evento, queste riproduzioni non possono essere considerate dei meri supplementi. Al contrario, esse sono indispensabili all’atto di sacralizzazione. Da un punto di vista interno, non vi è alcuna differenza tra l’evento originario e la sua ripetizione. Ogni ripetizione è originaria, almeno per quelli che attuano la ripetizione (che quindi non sarebbe considerata affatto una riproduzione). Ma Gans parla dal punto di vista teoretico o epistemologico dell’antropologia generativa. Da questo punto di vista, la differenza minimale ha luogo proprio all’inizio, nel gesto mimetico interrotto della scena originaria.

 

Ricorda poi che—antropologicamente parlando—la chiave del successo dell’evento originario non è individuale ma collettiva. Una volta che la scena collettiva (che richiede almeno due individui) è fondata nel cruciale evento originario, l’introduzione in questa scena collettiva ora esistente di successivi nuovi venuti è un evento di ordine molto diverso.

 

Si potrebbe istituire un’analogia con i riti di passaggio che segnano una vita individuale: nascita, entrata nell’età adulta, matrimonio, morte. Questi per l’individuo sono dei little bang, ma presuppongono l’esistenza della scena originaria collettiva. Gli individui non inventano la cultura. Essa preesiste alla loro esistenza. L’eccezione è data, ovviamente, dall’evento originario, nel quale almeno due individui hanno inventato, o più precisamente scoperto, il differimento della violenza mediante la rappresentazione. Una volta che la scena virtuale sia stata scoperta, diventa una questione di insegnamento agli altri. Ma penso anch’io che nell’era post-originaria immediata, le susseguenti repliche rituali dell’evento originario debbano essere state piuttosto spettacolari. Il modo migliore per persuadere gli altri dell’efficacia dell’evento originario è di sovraccaricarlo.  Il rituale ha luogo sempre nella forma di un sovra-caricamento dell’originario.

 

Chris. Così questo significa che i figli dei primi umani non diventano essi stessi umani finché non gli si insegna ad essere umani?

 

Richard. Sì, nella misura in cui la partecipazione alla scena rituale è una forma di insegnamento.

 

Chris. In altre parole, stai dicendo che l’ontogenesi non ricapitola la filogenesi finché i piccoli non imparano come essere umani dai rituali dei loro genitori?

 

Richard. Dipende da quali piccoli tu prendi in considerazione. I piccoli dell’homo sapiens moderno ricapitolano la filogenesi, nel senso che il loro sviluppo ontogenetico presuppone l’esistenza di un lunghissimo tratto di preistoria coevoluzionaria o filogenetica (all’incirca dall’homo erectus all’homo sapiens, più o meno due milioni di anni). Ma i figli dei primi umani non hanno alcuna evoluzione umana da ricapitolare. L’unica cosa che possono ricapitolare è l’evento originario. Ed è quello che fanno.

 

Chris. Questo non mi sembra corretto. I piccoli umani non hanno la capacità di formare idee astratte anche prima di apprendere qualcosa su qualche banchetto di sparagmos comunitario?

 

Richard. Dipende da quel che intendi per “idee astratte”. Tutti gli animali superiori hanno capacità di categorizzazione cognitiva. Le scimmie hanno un’idea di tipi di predatore (ad es. leopardo, serpente o aquila). Ed esse possono perfino emettere richiami che associano il richiamo stesso (= segno indessicale) all’idea o categoria di particolare predatore. Ma idee del genere non sono una questione di astrazione da tipologie naturali: ad esempio categorie antropologiche come il sé, il desiderio, la moralità, ecc. Queste si imparano soltanto partecipando di una cultura umana, che trova la sua origine storica nella scena originaria.

 

Chris. Come si possono dare a qualcuno degli insegnamenti su di una scena virtuale se quello non è ancora capace di idee astratte circa una tale scena?

 

Richard. La differenza è quella tra un’idea come forma di astrazione o categorizzazione cognitiva e l’idea come significato o categoria simbolica. Le idee antropologiche (il sé, la morale, il bene, il bello) esistono solo come astrazioni dalla scena originaria. Per esempio, l’idea del bello non è una categoria che possa essere derivata esclusivamente da teorie della selezione sessuale: ad es., la cognizione maschile selezionata per ammirare giovani femmine, ecc. Non dubito che vi siano dei fattori genetici profondamente radicati che giocano un ruolo in categorie antropologiche come quella della bellezza (femminile): un filosofo potrebbe dire che queste sono condizioni necessarie ma non sufficienti per l’idea antropologica di bellezza. La condizione sufficiente è l’astrazione simbolica, che richiede la configurazione mimetica minimale della scena originaria. Come confermano i dati delle ricerche di Deacon, l’astrazione simbolica non è qualcosa che possa essere assimilato geneticamente. L’ontogenesi umana moderna è selezionata evolutivamente per una predisposizione all’astrazione simbolica, ma senza l’infrastruttura virtuale della cultura, il nocciolo della quale è la scena originaria, nessun bambino acquisirà un comportamento simbolico.

 

Propongo questo esperimento di pensiero: immaginate che l’intera specie umana sia improvvisamente spazzata via da un virus. Sopravvive solo una piccola bambina. Essa viene accolta da alcuni scimpanzé che l’allevano come una del loro gruppo. (Sì, questo è il Pianeta delle scimmie per filosofi). Sebbene la piccola sia geneticamente predisposta per la cognizione simbolica, la sua nuova situazione non la incoraggia mai a sviluppare questa capacità. Mentre il suo cervello matura nel corso dell’infanzia e dell’adolescenza, tutte quelle cellule cerebrali che normalmente sarebbero state impiegate per  associare significanti e significati durante l’acquisizione del linguaggio verranno invece impiegate per comportamenti da scimpanzé, vale a dire per categorie non-antropologicamente specifiche (ad es. richiami di allarme indessicali, comportamenti di cura, controllo del territorio, uso di strumenti, ecc.). Senza dubbio essa riuscirà eccezionalmente bene in alcune mansioni (ad. es nel forgiare strumenti), e piuttosto male in altre (ad es. nel fiutare i predatori). Ma il punto è che non acquisirà mai la cultura simbolica perché non esiste per lei alcuna infrastruttura che le consenta di apprenderla.

 

Pablo. Chris, pare che tu la pensi non molto diversamente da me per quel che riguarda la scena originaria (sebbene voi qui abbiate in verità corretto il mio pensiero su alcuni punti). In risposta alla tua domanda, penso che Richard potrebbe indicare il fatto (per dir così) che i piccoli umani sono condizionati biologicamente ad apprendere la cultura dopo milioni di anni di ripetizione della scena originaria, ma alla fine le radici di questo condizionamento affondano in quella scena (scusami per averti messo in bocca le parole, Richard). Ma io penso che la tua ultima domanda, Chris, vada realmente al nocciolo della questione: “Come si possono dare a qualcuno degli insegnamenti su di una scena virtuale se quello non è ancora capace di idee astratte circa una tale scena?”. Questa è una migliore formulazione della mia semplice domanda originale, “È davvero possibile insegnare ad un animale ad essere umano?”.

 

Il punto insuperabile è che questo apprendimento deve realizzarsi in modo cosciente (questo per Gans è un requisito importante). Anch’io mi trovo in difficoltà con l’idea di un animale preumano che riconosce un gesto deliberato come una rappresentazione astratta. Nel caso dell’evento originario stesso, ciò potrebbe essere possibile in forza dell’accumulazione di parametri particolarmente drammatica e improbabile che ne ha fatto per la prima volta un tale evento speciale. Ma sembra strano che si possa ottenere lo stesso effetto in riproduzioni successive dell’evento. Questo infine rimanda al concetto di trascendenza come caratteristica che definisce l’umano, dalla quale viene il linguaggio. Qui possiamo situare la differenza principale tra Girard e Gans—Gans situa l’origine dell’umano nell’origine del linguaggio, che deve essere un evento riconosciuto in modo cosciente. Girard colloca l’origine dell’umano nell’origine del pensiero trascendente, che è il primo riconoscimento dell’Altro come Altro, e questo molto probabilmente è accaduto come risultato di un meccanismo inconscio.

 

Speravo di ascoltare le vostre riflessioni su un paio di questioni che sono ancora aperte…

 

Gans afferma che il gesto interrotto è necessariamente seguito dalla pacifica distribuzione dell’oggetto, senza la quale esso non permarrebbe nella memoria del gruppo. Lo sparagmos, di contro, è un violento sfogo di tensione mimetica che segue anch’esso il gesto interrotto, e che sfocia nel violento smembramento dell’oggetto. Come coesistono entrambi nella scena originaria?

 

La seconda domanda è più tecnica. Gans afferma che al fine di rendere durevole l’evento originario nella memoria del gruppo  era necessario che direttamente “esso conducesse ad una soddisfazione appetitiva maggiore, o comunque più sicura, di quella che era disponibile in precedenza”. Possiamo presumere che la distribuzione pacifica dell’oggetto appetitivo abbia adempiuto questa funzione fornendo ad ogni membro del gruppo un pezzo dell’oggetto, mentre si rischiava che tutti ne fossero esclusi. Ma non è vero che ogni membro del gruppo inizialmente sperava e tentava di ottenere per sé l’oggetto intero, piuttosto che solo una sua parte? Il pensiero di restare con nulla in mano probabilmente non è mai entrato nel cervello di nessuno. Ciascun animale perseguiva l’oggetto—l’oggetto intero, senza alcuna intenzione di condividerlo. Così, in paragone, ottenere solo una parte di esso sarebbe stato meno soddisfacente, e non maggiormente. Questo non contraddice il requisito di Gans?

 

Andrew. Bene, la discussione è terminata. Forse non è stata data risposta a tutte le vostre domande, ma certamente qualcuna è stata presa in considerazione. Se trovate stranamente soddisfacente questo rituale comunitario—benché abbiate ottenuto di meno piuttosto che di più—incontriamoci presto di nuovo per il nostro prossimo Sparagmos! 

 

 

GENERATIVA