Siamo tutti stranieri

 

Elisabetta Liguori

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Oggi ho Lo straniero di Albert Camus tra le mie mani, forse tra i suoi quello più indicativo di un diverso modo di essere al mondo. Una delle più recenti edizioni della Bompiani.

Un libretto piccolo, ma esplosivo. Oggi più che mai.

Esplosivo pur essendo un romanzo totalmente immerso nel silenzio, come ne scriveva Silvio Perrella nella sua postfazione italiana, e come aveva urlato anche il suo amico/antagonista di sempre Jean Paul Sartre. E altri con loro.

Il silenzio di Camus è stato, infatti, a lungo oggetto di studio critico.

Per questo non è facile parlarne: lo sforzo enunciativo, interpretativo, è di per sé una contraddizione in termini. Oggi che tutti al contrario rumoreggiano, s’adirano, complottano, s’avversano, si smentiscono a voce alta e si mettono in mostra, mentre l’impegno politico diventa fonte di sempre più acuta disillusione, dubbio crescente e contraddizioni, mi par opportuno tornare a discutere di quel Silenzio, che a suo tempo provocò un rumore assordante, in letteratura ma anche a livello politico e sociale. Un rumore già contemporaneo nel 1942, quando fu pubblicato per la prima volta, e ancora indimenticato, ancora netto, limpido. Preciso come quei quattro colpi di pistola esplosi in un pomeriggio d’estate su una spiaggia assolata e deserta.

Sono proprio quattro spari a spaccare in due questo breve romanzo, a segnarne radicalmente il ritmo. La vita del protagonista di questa piccola grande storia, il giovane impiegato algerino Meursault, è infatti divisa a metà: nella prima parte tutto scorre in lenta monotonia: la morte della madre, il lavoro, i colleghi, le donne, gli amici, il condominio, il mare, la sua luce; nella seconda parte gli eventi precipitano verso l’assurdo a seguito dell’assassinio di un arabo sulla spiaggia da parte dello stesso protagonista, dopo quei quattro spari appunto. Mentre nella prima parte il mondo sembra avvicinarsi gradualmente al protagonista, nella seconda si allontana da lui irrimediabilmente. A seguito degli spari, che lui esplode senza una ragione precisa, il protagonista viene condannato a morte. Una trama semplice e atroce.

La vicenda, sempre a causa della morte violenta di uno dei personaggi si spacca, ma il silenzio resta il medesimo. È il silenzio che nasce dell’estraneità e dallo stupore. Meursault è straniero perché separato dal mondo. Lui non è mai del tutto felice, né del tutto infelice. Percepisce coi sensi, la vista, il tatto, l’olfatto, l’udito, ma il suo pensiero non è in grado di cogliere motivi e significati degli eventi che gli ruotano attorno, dei quali lui è artefice passivo. Illogico e attonito burattino. Lui rappresenta l’esistenza umana colta nella sua dimensione più naturalistica, quella che prescinde dall’interno, dall’interiorità, ma si nutre della verità dell’esterno, delle sue apparenze sensibili.

Ecco un diverso modo di essere uomo. Ecco la diversità.

Ecco l’annunciarsi di quello che possiamo definire come “pensiero meridiano”, osteggiato negli anni del dopoguerra perché ritenuto opposto al pensiero di chi voleva che gli intellettuali, tra gli altri individui e più degli altri, militassero attivamente nella società e per la società. Opposto a quello che considerava l’impegno pubblico un obbligo morale, oltre che civile, anche nelle forme del più acceso nichilismo, purché fosse attivo, radicale, vistoso parto della propria consapevolezza intellettuale e della circostanza stessa di essere uomini nel mondo.

Perché è pensiero meridiano non soltanto quello che ripensa, reinventa, riscopre il sud.

Pensa meridiano chi ripensa la terra, la vita naturale, chi immagina se stesso partendo dalle percezioni primarie dei sensi, dalle proprie potenzialità naturali, e da queste assorbe nuova forma esistenziale, restando sempre originale, unico. Fedele a se stesso.

Possiamo chiederci: è un pensiero presuntuoso questo, che allontana gli altri individui, che rifiuta di mettersi in connessione con la società, di comprenderla e che si concentra sul proprio individuale Sentire? Non so dirlo, quello che posso affermare con certezza è che dietro un pensiero come questo, a cui hanno fatto ricorso, in  momenti e contesti differenti, anche altri filosofi, come Franco Cassano nei suoi saggi meridionalistici, vi è sempre una forte critica nei confronti della società moderna, la sua fretta, la sua disattenzione, la sua superficialità, la sua omologazione.

Una critica che non dimentica mai l’uomo. Le sue peculiarità.

È proprio per questa ragione che uno dei pensieri più rilevanti della poetica di Camus coincide con una domanda semplice quanto crudele: vale la pena vivere?

Come nel mito di Sisifo, ciascun uomo porta faticosamente il suo personale macigno in cima ad una montagna, poi lo osserva rotolare giù, dunque ricomincia la sua fatica. Sempre così. La morte è nella vita: è questo l’assurdo. Ed è la morte l’unico evento significativo nell’esistenza umana. L’unico, che sia morte naturale, o suicidio o omicidio, sulla quale valga la pena soffermarsi a riflettere. Chi crede nella natura non può non credere nella forza della morte. Sappiamo di dover morire, d’accordo, ma questo non esclude che si continui a cercare la felicità. Ciascuno a proprio modo, nell’arco della vita, schiera da una parte il sentimento della felicità naturale, la percezione fisica della natura e delle sue dolcezze, dall’altra la mortalità umana come certezza razionale.

Si vive dunque nel più folle conflitto.

E il conflitto è quello che patisce Mersault nella sua cella, mentre aspetta che all’alba sia eseguita la pena capitale a suo carico. Desidera che la morte arrivi comunque (tanto prima o poi deve arrivare per tutti, no?), ne subisce il conflitto, il dolore irragionevole, lo splendore accecante, e nello stesso tempo gradualmente cerca di accettare la morte come fatto naturale, per superarlo e ricominciare e “aprirsi alla dolce indifferenza del mondo”.

Alla sua posizione emotiva si oppone quella del protagonista del Il Muro narrato da Sartre, amico storico, referente, collega. Antagonista politico più che culturale. L’uomo impegnato contro l’uomo stupito: una guerra che infiammò la Francia.

E del resto ogni conflitto genera altri conflitti.

Quello di Camus, proprio perché totale, diventa silenzio.

Il romanzo comincia nel silenzio della natura, del suo accadere, e termina nel medesimo silenzio, nel medesimo accadere. Il fine è quello di raccontare il graduale disinteresse dell’uomo per il mondo e del mondo per l’uomo. Entità connesse ma inconciliabili. Incomprensibili l’uno all’altro.

Come può una scrittura raccontare questo silenzio? Camus ci riesce. Roland Barthes parla di scrittura basica, di grado zero della parola. Pura essenziale sensualità. Fondo da cui partono e si sviluppano tutte le altre scritture possibili.

Solo da questo silenzio arriva la verità. Che sia letteratura, ma non solo.

Non si può fingere nel silenzio. Gli altri uomini, gli amici, i conoscenti, i giudici, la corte chiedono a Mersault di mentire, di salvarsi la vita, di adattarsi ai codici umani universalmente condivisi, ma lui non può mentire. Non rientra nella sua natura. Non ne è capace. Lui è il grado zero, è l’inizio di tutto. Lui è il primo dubbio, oltre che la prima verità, quella in cui l’affannarsi umano, il suo necessitato impegno civile si rivela per quello che è: una sorta di condizionamento cerebrale al mito, più che alla storia o alla natura.

La vera storia per l’Estraneo (o Lo straniero) non è altro che un susseguirsi di eventi chiusi in sé.

Una visione, questa, fortemente destabilizzante, ambivalente, che potrebbe decostruire il senso della stagione tra gli anni 40 e i 60, che preannunciava sonoramente il maggio francese, ed essere messa in connessione con quella che viviamo oggi. Per spiegare cioè quello che nel terzo millennio non siamo più, quello che non facciamo più, quello che non comprendiamo più, quello che non diciamo più, dacchè il mito dell’uomo sembra essere stato scalfito, se non distrutto, dall’uomo stesso.

 

 

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