Anthropoetics II, no. 2 (gennaio 1997)

Le pietre druidiche e il problema del sacrificio nel Romanticismo inglese

Matthew Schneider

Department of English
Chapman University
Orange CA 92666
schneide@nexus.chapman.edu

Traduzione dall'inglese di Fabio Brotto

brottof@libero.it

www.bibliosophia.homestead.com/Copertina.html 

 

Poco dopo l'inizio del Libro II dell'Hyperion (1818-1819), il primo tentativo di John Keats, non portato a termine, di rinarrare in versi sciolti il mito del rovesciamento dei Titani da parte degli dèi olimpici, le divinità sconfitte, che si curano le ferite in "covert drear", sono descritte come "scarce images of life. . .like a dismal cirque / Of Druid stones, upon a forlorn moor" (II, 33-4). Sebbene sepolta in un contesto di sofferenza miltoniana, questa similitudine rivela un importante elemento costitutivo del romanticismo di Keats e merita un'attenzione particolare. Nell'ottica del presente saggio, l'elemento più significativo della similitudine è il fraintendimento storico/archeologico contenuto nel mezzo metaforico: Keats ripete l'errore - comune ai suoi tempi - di attribuire i cerchi di pietre che segnano il paesaggio britannico ai Druidi, i sacerdoti celtici descritti nei Commentarii de bello gallico (e in altri testi classici) come dediti a sacrifici umani.

Il presente saggio esplorerà in modo abbastanza approfondito le fonti storiche e culturali dell'erronea associazione operata da Keats dei Druidi con i cerchi di pietre preistorici quali Castlerigg, che egli visitò nel suo viaggio attraverso l'Inghilterra del nord, l'Irlanda e la Scozia durante l'estate del 1818 (1) [fig.1] Quest'esplorazione servirà come punto di partenza per alcune più generali osservazioni sul problema del sacrificio nel Romanticismo inglese. Per i romantici inglesi il sacrificio rappresenta un problema perché - seguendo la visione paleoantropologica del loro tempo - essi associavano alcuni dei più imponenti e pittoreschi tratti del loro paesaggio nativo ad un culto sacrificale, e ne conseguiva che i loro dintorni familiari apparivano pieni di segni di istituzioni preistoriche di vittimizzazione. Così pensare in termini di origine - un principio guida del Romanticismo - significa porre il romantico inglese di fronte ad un duplice difficile compito: deve resistere al richiamo originario delle perduranti tentazioni sacrificali del paesaggio, e nello stesso tempo assimilare il sacrificio entro uno schema di evoluzione culturale ordinata. Si potrebbe distinguere Keats dai suoi precursori proto-romantici e romantici in base al relativo grado di serenità con cui affronta questi imperativi potenzialmente contrastanti.

Per Keats, come per il suo grande antecedente poetico William Wordsworth, i Druidi forniscono il legame cruciale tra il carattere sacrificale della preistoria e il paesaggio presente all'anima. Sul piano retorico, questo è il modo in cui funziona la similitudine dell'Hyperion: la rassomiglianza delle divinità sconfitte alle tracce ancora sussistenti, e persino familiari, del sacrificio umano suggerisce a Keats l'idea che i Titani, rappresentanti di un ordine sociale obsolescente, siano stati sacrificati dai loro successori. A livello ideologico, la similitudine allora suggerisce che nella visione di Keats il sacrificio è il motore dell'evoluzione culturale. Inoltre, con l'evocare un paesaggio contemporaneo e patentemente britannico entro il contesto di una scena di significativa transizione culturale ricreata ipoteticamente, Keats invita i suoi lettori a riconoscere la "rilevanza" di un distante mito greco - e, per estensione, di tutta la mitopoiesi. In breve, il ricreare una scena originaria - e rammentarci che i suoi poteri continuano a costituire la realtà, anche al livello della formazione del paesaggio - diviene il miglior mezzo per comprendere le perduranti operazioni costitutive di quella scena.

A questo riguardo, l'atteggiamento di Keats verso il passato mitico della Britannia esprime la quintessenza del Romanticismo: come ha scritto Eric Gans, "la conoscenza che la cultura estetica romantica offre, sebbene mediata da fatti mondani, non è conoscenza mondana ma antropologica - conoscenza della scena originaria nei suoi travestimenti moderni" (170). Come i Druidi siano arrivati a svolgere questo ruolo antropologicamente significativo per romantici quali Keats e Wordsworth è sotto molti aspetti tanto interessante quanto l'intuizione originaria alla quale in fine questa impostazione condusse. Prima di esaminare alcune specifiche evocazioni delle connotazioni sacrificali delle "pietre druidiche", spiegherò anzitutto come i misteriosi monumenti della Britannia siano giunti ad essere associati ai Celti, e, in secondo luogo, come la propensione dei Druidi al sacrificio sia stata assimilata entro un potente mito della loro "nobiltà".

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La Gran Bretagna ha la fortuna di possedere la più grande concentrazione di monumenti preistorici dell'intera Europa: oggi, i resti di centinaia di tumuli sepolcrali, di henges, ovvero recinzioni circolari circondate da uno o più terrapieni concentrici e fossati, e impressionanti cerchi di monoliti (più di 170 in Inghilterra, Galles e Scozia) sono sparsi per la campagna, attirando turisti, spiritualisti della New Age e archeo-paleontologi. Il più famoso di questi è, naturalmente, Stonehenge nel Salisbury Plain [fig.2], che, grazie alla notevole sofisticazione della sua ingegneria e all'allineamento celeste dei suoi pilastri di arenaria, ha funzionato da centro focale della maggior parte della speculazione paleoantropologica che i monumenti hanno ispirato. In effetti, siffatta speculazione ha una storia lunga e pittoresca, iniziata con Geoffrey di Monmouth (1100?-1154) che, secondo l'annotazione del compilatore dell'opera trecentesca Tractatus de mirabilibus Britanniae, scrisse che Stonehenge era stato trasportato dall'Irlanda alla sua collocazione attuale dal mago Merlino nel 438.

La speculazione di Geoffrey è tipica del pensiero paleoantropologico iniziale per due aspetti: connette i lineamenti del paesaggio britannico con il mito e la storia "ufficialmente riconosciuti", e sottostima drasticamente l'età dei monumenti che prende in considerazione. La ricerca archeologica moderna ha mostrato che Stonehenge, per esempio, fu costruito in tre fasi in un arco temporale di circa 1300 anni, dai suoi primi inizi come sorta di centro rituale intorno al 2800 A.C., attraverso varie configurazioni intermedie, fino alla sua forma attuale, che si crede sia stata completata intorno al 1550 A.C. La tendenza a collocare i monumenti in tempi relativamente recenti - che, come vedremo, spinse gli scrittori successivi ad attribuirli ai Druidi - sorse, come ha scritto Stuart Piggott, dal fatto che fino al sedicesimo secolo "il concetto di una antichità non-storica era quasi impossibile da afferrare" (Ruins 7). Come conseguenza della distruzione del mito della storia britannica di cui era sostenitore Geoffrey, scrive Piggott,

rimase un deplorevole vuoto. Era necessario costruire una nuova documentazione per il passato remoto, che potesse nuovamente connettere le antichità britanniche al passato storicamente documentato, quello della Bibbia o quello della mitologia e della storia classiche. Gli spiriti più audaci si impegnarono a combinare le due sfere, e così sfruttarono al meglio i due mondi antichi, il sacro e il pagano. Bale, per esempio, elaborò nel 1548 uno splendido schema, inventando un personaggio di nome Samothes, figlio di Japhet, che sarebbe stato il primo re di Britannia nel terzo millennio A.C., con un discendente collaterale, Albion, che sarebbe stato il figlio di Nettuno e il pronipote di Ham, e che sarebbe salito al trono di Britannia (Ruins 7).

Mentre lo spirito secolare del Rinascimento veniva rinforzandosi nel corso del diciassettesimo secolo, culminando nella fondazione della Royal Society for the Study of Antiquities nel 1662, gli "scavatori gentiluomini" continuarono a lottare con il concetto di antichità preistorica, e ancora ben entro l'Età della Ragione si trovarono a sondare tumuli con una mano mentre con l'altra tenevano le loro Bibbie e i Commentari di Cesare. Invero, fu al tempo dell'Illuminismo che ebbe origine il più grande errore archeologico riguardante la provenienza di monumenti antichi, per ironia proprio attraverso i benintenzionati sforzi dell'uomo che gode ancora della fama di aver fatto più di qualsiasi altra singola figura per preservare la ricca storia archeologica della Gran Bretagna. Quell'uomo fu William Stukeley (1687-1765). Dopo aver studiato a Cambridge (dove frequentò l'anziano Isaac Newton), Stukeley era medico a Boston nel Lincolnshire quando, nel 1719, visitò per la prima volta Stonehenge. Impressionato dalla maestà del luogo, nei successivi dieci anni passò il suo tempo libero catalogando e mappando monumenti preistorici, prevalentemente nel Wiltshire e nello Hampshire. La sua impresa di gran lunga più importante fu l'attenta e precisa misurazione che egli realizzò nel più grande e spettacolare sito archeologico della Gran Bretagna, il complesso templare ad Avebury nel nord-ovest del Wiltshire [figg. 3 e 4]. Sembra che questo sito, che comprende un cerchio di pietre tredici volte più largo di quello di Stonehenge, abbia svolto la funzione di principale centro cultuale preistorico della Gran Bretagna del sud, e include numerosi tumuli sepolcrali, lunghi "viali" delimitati da monoliti, e Silbury Hill [fig.5], la più grande collina artificiale d'Europa.(2) Stukeley compì un'impresa veramente epica: egli misurò e mappò con precisione le posizioni dei massi di arenaria che si trovavano nel luogo proprio davanti al naso dei lavoranti che stavano rovesciandoli e frantumandoli per ottenerne materiale da costruzione. Coloro che oggi visitano il sito, in effetti, devono essere grati a Stukeley, poiché si dovette largamente ai suoi sforzi se furono possibili gli scavi e i restauri delle pietre negli anni Venti e Trenta del Novecento.(3)

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E' ovvio che dopo tanto lavoro sul campo Stukeley abbia elaborato una teoria sulle origini e funzioni preistoriche del luogo che egli aveva mappato e descritto così appassionatamente. Tuttavia, quando infine dopo il 1740 egli decise di pubblicare le sue scoperte, Stukeley deluse fortemente i suoi colleghi antiquarii con la sua tesi secondo cui non soltanto Avebury era stato costruito dai Druidi, ma anche la disposizione dell'intero complesso templare "provava" che la religione druidica era stata un ramo collaterale del patriarcato pre-giudaico dell'Antico Testamento e addirittura una chiara anticipazione del Cristianesimo. Non scoraggiato dal fatto che (secondo le parole di Stuart Piggott) "negli scrittori classici non c'è alcun luogo in cui compaia una qualsiasi associazione tra i Druidi e cerchi di pietra o monumenti simili" (Stukeley 80), Stukeley concluse che i Druidi avevano dato al sito di Avebury la forma di un "tempio serpentino" [fig.6] al fine di esprimere simbolicamente la loro miracolosa intuizione della dottrina centrale del Cristianesimo, quella della Trinità:

La forma di quest'opera stupenda è una rappresentazione della Deità, più particolarmente della Trinità, ma più particolarmente ancora ciò che anticamente chiamavano il Padre e la Parola, che creò tutte le cose… Un serpente che procede da un cerchio è l'eterna processione del figlio, dalla causa prima… (citato in Piggott, Stukeley 104).
L'interpretazione simbolica della forma del luogo consentì a Stukeley anche di ricostruire la storia e la dottrina dei Druidi: Piggott riassume così le sue "scoperte":
I Druidi erano giunti in Inghilterra come parte di una "colonia orientale" di Fenici, "nei tempi più antichi, addirittura prima della fondazione di Tiro: durante la vita di Abramo, o poco dopo; certamente poco dopo il diluvio di Noè…" Sebbene Stukeley sia attento a precisare che "non possiamo dire che Jehovah sia apparso personalmente ai Druidi", tuttavia egli pensa che questi abbiano potuto, tramite la loro ragione, conseguire "una conoscenza della pluralità delle persone nella Deità" e così diventare quasi dei buoni uomini di chiesa. Isolati in Britannia ("lasciati nell'estremo occidente al progresso dei loro pensieri", come egli scrive), essi avevano serbato intatta la tradizione dei patriarchi - "la vera religione, dai tempi del ripopolamento successivo al Diluvio, sussistette principalmente proprio nella nostra isola". Questa religione "è così estremamente simile al Cristianesimo, che di fatto ne differiva solo in questo; essi credevano in un Messia che doveva venire nel mondo, come noi crediamo in colui che deve venire". Il capo degli immigrati druidici secondo Stukeley era l'Ercole di Tiro, "un valente discepolo di Abramo" e "appartenente alla stessa generazione dei pronipoti di Noè". Egli era sbarcato nella Britannia occidentale e probabilmente la costruzione del circolo di pietre di Boscawen-Un in Cornovaglia rappresentava una delle sue fatiche (Stukeley 99-100).
Che cos'aveva condotto Stukeley ad una conclusione tanto azzardata? E' facile dare una risposta: nel 1729 Stukeley abbandonò la medicina per ricevere l'ordine sacro nella Chiesa anglicana, e da quel momento in poi vide se stesso come un soldato in prima linea nella guerra contro il Deismo. Il Deismo seguiva David Hume nel ritenere che il progresso storico dal politeismo al monoteismo fosse il risultato naturale degli avanzamenti del potere della ragione, e che la tendenza egoistica del primitivo a "rintracciare le orme di un potere invisibile nei vari e contrastanti eventi della vita umana" conducesse necessariamente al "politeismo e al riconoscimento di numerose e imperfette divinità. . . . Possiamo pertanto concludere che, in tutti i popoli che hanno abbracciato il politeismo, le prime idee religiose sorsero non già dalla contemplazione delle opere della natura, ma da una sollecitudine riguardante gli eventi della vita, e dalle incessanti paure e speranze che stimolano la mente umana" (sezione II, paragrafi 3-4). Il monoteismo, al contrario, sorge dalla "contemplazione delle opere della natura", che rende necessario il formarsi della "concezione di un solo singolo essere che ha conferito l'esistenza e l'ordine a questa vasta macchina, e armonizzato tutte le sue parti, secondo un unico piano regolare o sistema coerente" (paragrafo 1). Descrivendo il complesso di Avebury nei termini di un siffatto "sistema coerente", Stukeley sperava di porre in ombra le ovvie implicazioni funzionali della sua forma (i viali come percorsi sacrificali per le vittime e la loro scorta, i cerchi come recinti per gli altari sacrificali) dietro un simbolo dottrinale implicante la presenza di una mente monoteistica. Come affermò in una lettera del 1730 al suo amico e collega antiquario Roger Gale, interpretare il monumento come "tempio serpentino" consentiva a Stukeley "di combattere i deisti da una posizione imprevista, e di preservare un così nobile monumento della pietà, anzi potrei aggiungere dell'ortodossia, dei nostri antenati" (citato in Piggott, Stukeley 104). 
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Questo obiettivo impose a Stukeley di tralasciare diligentemente non soltanto la possibilità che la struttura di Avebury avesse avuto un significato funzionale, ma anche di ignorare la descrizione di prima mano che dei Druidi forniscono gli autori classici, e soprattutto Giulio Cesare, i cui Commentarii de bello gallico documentano assai dettagliatamente le pratiche druidiche. Il punto chiave del resoconto cesariano sul culto dei Druidi concerne il loro amore del sacrificio: in realtà, la principale differenza tra i Germani e i Galli è che i primi "neque Druides habent qui rebus divinis praesint, neque sacrificiis student" (6.21).
Secondo Cesare
Natio est omnis Gallorum admodum dedita religionibus, atque ob eam causam qui sunt affecti gravioribus morbis quique in proeliis periculisque versantur, aut pro victimis homines immolant aut se immolaturos vovent administrisque ad ea sacrificia Druidibus utuntur, quo, pro vita hominis nisi hominis vita reddatur, non posse deorum immortalium numen placari arbitrantur, publiceque eiusdem generis habent instituta sacrificia. Alii immani magnitudine simulacra habent, quorum contexta viminibus membra vivis hominibus complent; quibus succensis circumventi flamma exanimantur homines. Supplicia eorum qui in furto aut in latrocinio aut ex aliqua noxia sint conprehensi gratiora dis immortalibus esse arbitrantur; sed cum eius generis copia defecit, etiam ad innocentium supplicia descendunt (6.16).
La descrizione della religione druidica che ci offre Stukeley non fa alcuna menzione di queste pratiche. Invero, Stukeley fa menzione del sacrificio solo una volta nella sua relazione su Avebury, e soltanto incidentalmente: "Pubblici sacrifici, giochi, canti di inni, ed osservanza sabbatica", scrive, furono probabilmente celebrati in quel luogo. In nessun passo egli riconosce la possibilità che alcuni di quei sacrifici siano stati di vittime umane.
Per ironia, scrive Stuart Piggott, l'arruolamento dei Druidi da parte di Stukeley nella battaglia contro il deismo ha dimostrato di essere una strategia ispirata: laddove la "controversia sul Deismo è ora una causa perduta in remote lontananze, relegata nelle pagine polverose di sermoni e pamphlet che nessuno legge, e viva solo per gli storici della Chiesa", i "Druidi sono duri a morire, come a proprie spese ben sa ogni archeologo britannico, e persino di recente sono potuti apparire di punto in bianco sulle pagine di qualche rivista proprio nei termini in cui duecento anni fa li aveva ornati il dott. Stukeley" (Stukeley 25). Pure, la testimonianza classica della loro essenza sacrificale non fu mai dimenticata nei termini in cui forse desiderò Stukeley; e persino quando il Romanticismo, bramoso di vedere i sacerdoti celtici come campioni della libertà per la loro resistenza all'imperialismo romano, diffuse il mito dei nobili Druidi, i loro difensori si trovarono spesso nella scomoda posizione di dover giustificare o spiegare in altro modo la conclusione ovvia che i cerchi di pietre fornivano gli spazi per riti indicibili. Invariabilmente sia la poesia pittoresca che le guide del tardo Settecento e del primo Ottocento che trattavano dei monumenti preistorici si imbattevano nel problema del sacrificio druidico, concludendo di solito al modo di Stukeley, cioè che la nobiltà del dogma dei Druidi compensava abbondantemente i loro costumi, feroci sì, ma in definitiva comprensibili. Si consideri, per esempio, la glossa posta dal Rev. J. Ogilvie nel suo poema The Fane of the Druids (1787) in riferimento alle "sacred virgins":
Non si deve negare che corre voce che quelle donne siano state gli strumenti della perpetrazione di atti nell'oblazione di sacrifici umani; il che non si può riferire, e neppure soltanto pensare, senza orrore. Alcuni antichi scrittori sembrano soffermarsi su questo argomento con una certa soddisfazione, che potrebbe indurre un lettore imparziale a sospettare che i loro resoconti siano largamente esagerati. . . . Io tuttavia farei ingiustizia a coloro che costituiscono il mio argomento se non osservassi in questa occasione, per loro conto, che nell'esercizio di questa pratica, nella maniera inumana in cui si dice che si siano ad essa disposti, i Druidi manifestano un fine del tutto singolare e straordinario. Perché, sebbene la storia ci faccia vedere nazioni barbare, che sacrificavano vittime umane in tal guisa, nelle celebrazioni delle loro orribili orge, tuttavia noi ci dobbiamo ricordare che esse intendevano, mediante questo rito, conciliarsi il favore di certi esseri malvagi, che si supponeva traessero piacere dalle miserie del genere umano, e a cui credevano di aver recato offesa. Ma noi abbiamo già visto che i Druidi nutrivano le più pure e sublimi concezioni intorno alla maestà e perfezione della mente divina; che essi veneravano la quercia, come gli Ebrei il santo dei santi, solo in quanto onorata dalla sua immediata presenza; che essi officiavano tra gli uomini come suoi rappresentanti; e che essi ovunque inculcavano la dottrina dell'immortalità... D'altra parte, né i Romani né i Cartaginesi, che praticavano anch'essi questo rito inumano, avevano motivo di biasimare gli altri a causa di esso (22).
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Per gli intenti del presente saggio, l'eredità più importante che Stukeley ha lasciato, stabilendo l'inevitabile associazione dei Druidi con le tracce preistoriche del paesaggio britannico, è costituita dal sottofondo di colpevole auto-giustificazione che permea questo passo. Nell'accettare che fossero stati i Druidi a costruire i cerchi di pietre, i romantici si trovarono a doversi confrontare con quello che potremmo chiamare il colpevole segreto sacrificale del paesaggio, dal momento che la loro intuizione antropologica non poteva valersi di quella trasformazione che Stukeley aveva attuato per motivi polemici dei Druidi in proto-cristiani. Per resistere alle tentazioni sacrificali del paesaggio si svilupparono varie strategie. Per fornire uno sfondo contrastante che porrà in massima luce la singolarità dell'approccio di Keats a questo dilemma, esamineremo anzitutto una isolata, ma nondimeno caratteristica, risposta del grande precursore di Keats, William Wordsworth (1770-1850), alla sfida sacrificale latente nel paesaggio.
Come Ogilvie, Wordsworth riconosce ma poi subito occulta il segreto sacrificale dei Druidi: la loro associazione con boschetti sacri e recinti circolari di pietre presta a tutti i luoghi siffatti un aspetto vagamente violento; ma questa associazione è sorvolata o soppressa perché si possa realizzare qualche altro scopo - la commemorazione della vittima o la lode della misura dell'io lirico. An Evening Walk, una delle prime opere poetiche pubblicate da Wordsworth, comincia collocando il suo soggetto lirico in un paesaggio assolato, con la presenza amichevole di bestiame e cavalli. Tuttavia, la sua strada sembra naturalmente indirizzata fuori della luce; e come egli cerca qualche sollievo dal calore presso un rivo, un "obscure retreat. . .opened at once, and stayed my devious feet." Incantato dalle acque stillanti che danzano nella luce, il "listless swain" riposa un poco, e si sofferma a lodare il ritiro in cui si trova così piacevolmente accomodato:
Did Sabine grace adorn my living line,
Blandusia's praise, wild stream, should yield to thine!
Never shall ruthless minister of death
'Mid thy soft glooms the glittering steel unsheath;
No goblets shall, for thee, be crowned with flowers,
No kid with piteous outcry thrill thy bowers;
The mystic shapes that by thy margin rove
A more benignant sacrifice approve--
A mind, that, in a calm angelic mood
Of happy wisdom, meditating good,
Beholds, of all from her high powers required,
Much done, and much designed, and more desired,--
Harmonious thoughts, a soul by truth refined,
Entire affection for all human kind (4).
"Soft glooms" e "mossy rocks" suggeriscono quelle loro circostanze concomitanti, che per il poeta post-stukeleiano del paesaggio britannico sono inevitabili: il "glittering steel" del coltello sacrificale e il grido della vittima, "thrilling" ma insieme "piteous". La precipitosa, e proprio per questo rivelatrice, risposta di Wordsworth a questa catena di associazioni è non solo tipica della sua prima poetica, ma tale da predeterminare lo stampo di molte delle più affascinanti liriche della sua "grande decade" 1797-1807. La sfida del paesaggio britannico ai suoi cari ideali di intrinseca benevolenza degli uomini continuerà a trovare risposta in "more benignant sacrifices" rispetto ai riti di sangue del passato. Come quello di Stukeley, il pensiero originario di Wordsworth ripete puramente e semplicemente la realtà sacrificale che esso scopre, col sostituire un'espulsione intellettuale a quella fisica che tanto lo offende.
In antitesi, l'evocazione fatta da Keats del paesaggio druidico - e, per estensione, del sacrificale in genere - rivela un riconoscimento in qualche modo più sereno della centralità della pratica per una comprensione originaria dell'umano. Che il sacrificio giochi un ruolo importante nella vocazione poetica e nelle opere di Keats non è dimostrato soltanto dal fatto che esso compaia così frequentemente nella sua poesia. Questo dopo tutto si potrebbe spiegare soltanto col fatto che Keats scelse, specialmente nelle opere più ampie, di trarre i suoi soggetti dalla mitologia greca. Al centro della poesia più famosa di Keats, l' Ode on a Grecian Urn, e di qui forse al centro del suo progetto poetico, sta un'affascinante scena sacrificale:
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Who are these coming to the sacrifice?

To what green altar, O mysterious priest,

Leads't thou that heifer lowing at the skies

And all her silken flanks with garlands drest?

Queste serie domande, come generazioni di lettori hanno riconosciuto, si situano nel nucleo del progetto artistico di Keats. La loro ricerca, tuttavia, non è così strettamente storica o esclusivamente estetica come si è presupposto; ricercare l'urna reale, che sia letterale o figurativa, evocata da questi versi significa distogliersi, al modo di Stukeley e Wordsworth, dalla sfida antropologica posta da scene su urne greche e dai "desolati circhi" di "pietre druidiche" che emettono le loro proprie sfide nel paesaggio familiare. Ai nostri fini, l'auspicio di Wordsworth che un "più benigno" sacrificio sostituisca i riti non detti, ma presumibilmente brutali, dei Druidi può vedersi come la risposta convenzionale della prima generazione alle tentazioni sacrificali del paesaggio. Il modo in cui Keats evoca il paesaggio druidico differisce dalle rappresentazioni sentimentali dei Druidi e dei loro riti che si leggono in Ogilvie e Wordsworth - una visione che deve ritrarsi colpevolmente dalla realtà violenta delle loro pratiche - in quanto il romantico più giovane antropologizza il sacrificio: invece di nasconderlo o rifiutarlo, egli rintraccia il significato originario della pratica.

Una estesa dimostrazione di questo aspetto della poesia di Keats oltrepassa ovviamente lo scopo del presente saggio. D'altro canto non intendo suggerire che Keats meramente ipostatizzi il sacrificio come ancora un altro mezzo per alleggerirlo di una parte del suo terribile potere. Al fine di suggerire come Keats differisca in pratica dai suoi predecessori pre-romantici e romantici, concluderò con uno sguardo a quella delle grandi odi di Keats che forse è la più trascurata dalla critica, l' Ode to Psyche. Composta alla fine di aprile o ai primi di maggio del 1819, Psyche è solitamente ritenuta una sorta di esercizio di preparazione alle più famose delle sue odi, le poesie sorelle (composte nel tardo maggio del 1819 Ode to a Nightingale e Ode on a Grecian Urn. Psyche comincia - piuttosto convenzionalmente - con un'evocazione di questa dea della tarda antichità, "wrung by sweet enforcement" (Keats 275). Come in An Evening Walk di Wordsworth, l'attenzione del soggetto lirico in Psyche sposta il centro della sua attenzione dal paesaggio peripatetico ad una scena interiorizzata, che, fatto eloquente, è velocemente riconfigurata come una capanna druidica. A causa della tardità dell'ascesa di Psiche alla condizione olimpica, immagina Keats, è venuto a mancare il gesto indispensabile per stabilire la sua divinità - un sacrificio. A questa omissione rimedieranno, egli promette, i processi mentali instaurati dalla composizione dell'ode:

O latest born and loveliest vision far
Of all Olympus' faded hierarchy!
Fairer than Phoebe's sapphire-region'd star,
Or Vesper, amorous glow-worm of the sky;
Fairer than these, though temple thou hast none,
Nor altar heap'd with flowers;
Nor virgin-choir to make delicious moan
Upon the midnight hours;
No voice, no lute, no pipe, no incense sweet
From chain-swung censer teeming;
No shrine, no grove, no oracle, no heat
Of pale-mouth'd prophet dreaming (275).

Impegnandosi di persona ad un servizio sacerdotale per la dea trascurata, Keats fa voto di "build a fane / In some untrodden region of my mind" :

And in the midst of this wide quietness
A rosy sanctuary will I dress
With the wreath'd trellis of a working brain,
With buds, and bells, and stars without a name,
With all the gardener Fancy e'er could feign,
Who breeding flowers, will never breed the same:
And there shall be for thee all soft delight
That shadowy thought can win,
A bright torch, and a casement ope at night,
To let the warm Love in! (275)

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All'inizio del suo ultimo e più grande sforzo creativo, Keats entra in una capanna sacrificale vistosamente diversa da quella che produce la travagliata evocazione wordsworthiana del colpevole segreto connesso al paesaggio su cui aleggiano i fantasmi dei Druidi. Invece che affrettarsi ad una vaga ma confortante predizione che riti non specificati ma meno cruenti soppianteranno presto le violente realtà del passato, Keats qui cerca qualche modalità di assimilazione dell'ubiquità del sacrificio ad una comprensione di processi umani essenziali e perduranti. Egli la trova nella provocante equazione metaforica tra gli spazi sacri che marcano il paesaggio e la "untrodden region" entro la sua mente. Ciò porta a sua volta ad una intuizione essenzialmente scenica: la nascita di "psyche" (il pensiero) può essere pensata non solo sul piano temporale ma anche su quello spaziale - quello di cui si necessita per la creazione continua di nuova conoscenza è uno spazio liberato e separato da tutto ciò che gli sta intorno mediante un qualche confine chiaramente riconoscibile. Un "dismal cirque of Druid stones," o qualsiasi altro tipo di sacra recinzione, fornisce proprio siffatto confine fondativo. Le vestigia di sacrifici druidici sparse per la campagna non sono perciò meramente le allusioni ad un segreto storico di colpa; esse sono tracce di gesti originanti, di nuovi pensieri. Per Keats, cerchi di pietre e monumenti misteriosi forniscono i punti di partenza per una comprensione del ruolo che il sacrificio gioca nella creazione delle strutture permanenti sia del pensiero che della storia. L'apparente ubiquità della pratica porta con sé per lui, quindi, una minore minaccia alle sue concezioni della bontà fondamentale dell'uomo e dell'antica sovrapposizione delle funzioni di sacerdote e di bardo.

La permanenza è la chiave di volta delle restanti grandi odi di Keats, completate tra il maggio e l'ottobre del 1819. La permanenza trascendente che i cerchi di pietre britannici sembravano possedere servì come punto di partenza per una considerazione più particolareggiata e profonda della transitorietà nel mondo umano, un tema che notoriamente percorre Nightingale e Grecian Urn. La transitorietà tuttavia non è stata soltanto uno dei molti "temi" o idee in cui Keats si è imbattuto e che ha esplorato nella sua carriera poetica tragicamente breve. E' stata invece, come ha messo in luce W.Jackson Bate, il culmine di un processo di pensiero, iniziato nelle lettere di Keats, ma completato, meditativamente, per così dire, in versi (486-7). Per quanto intramontabili e commoventi continuino ad essere queste meditazioni, noi dobbiamo continuamente ricordarci che esse, come tutti i pensieri, non saltano fuori ex nihilo dalla mente eccitata del poeta. Come i suoi colleghi romantici, Keats scoprì nella sua terra nativa abbondante evidenza per una riflessione sul carattere e le pratiche delle culture incipienti. Diversamente da molti dei suoi pari del primo Ottocento, tuttavia, Keats accettò coraggiosamente l'inferenza alla quale lo conducevano i cerchi di pietre e i monumenti di derivazione sacrificale.

Note

  1. Molti critici e biografi convengono che l'immediata fonte di Keats per l'immagine nell'Hyperion sia stato questo monumento, ancora in piedi presso Keswick nella contea del Cumberland. Per i particolari del viaggio a piedi e per una fotografia del cerchio di pietre, vedi Carol Kyros Walker, Walking North with Keats (New Haven: Yale Univ. Press, 1992), 17-18.
  2. Come la figura mostra, il cerchio di pietre ad Avebury è complesso, consistendo di un terrapieno e di un fossato (dal diametro di circa 1400 piedi) e di un cerchio esterno di monoliti (dal diametro di 1100 piedi) che a sua volta racchiude due anelli di monoliti più piccoli. Silbury Hill, circa lo scopo del quale non si è giunti a conclusioni definitive, si innalza a quaranta metri e ha un diametro di 165 metri alla base. Si crede che il suo innalzamento abbia occupato gli anni dal 2750 al 2700 A.C.
  3. I visitatori debbono essere grati all'iconoclasmo della cristianità medievale anche per un altro motivo, poiché durante il medioevo molti monoliti vennero abbattuti e sepolti al fine di nascondere l'evidenza del passato pagano della Britannia. Stukeley stesso portò alla luce molte di queste pietre; ma la maggior parte di esse giacque indisturbata fino agli anni Trenta del Novecento, quando Alexander Keiler scavò e restaurò i monoliti che oggi vediamo eretti.

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Opere citate

Bate, Walter Jackson. John Keats. Cambridge, Mass: Harvard University Press, 1963.

Burl, Aubrey. Prehistoric Avebury. New Haven: Yale University Press, 1979.

Caesar, Julius. C?ar's Commentaries on the Gallic and Civil Wars. http://etext.lib.virginia.edu/etcbin

Gans, Eric. Originary Thinking: Elements of Generative Anthropology. Stanford: Stanford University Press, 1993.

Hume, David. The Natural History of Religion. http://unix1.utm.edu/research/hume/wri/nhr/nhr.htm

Keats, John. Complete Poems. ed. Jack Stillinger. Cambridge, Mass: Harvard University Press, 1971.

Ogilvie, Rev. J. The Fane of the Druids. London: printed for J. Murray, 1787.

Piggott, Stuart. Ruins in a Landscape. Edinburgh: Edinburgh University Press, 1976.

----------. William Stukeley: An Eighteenth-Century Antiquarian. London: Thames and Hudson, 1985.

Wordsworth, William. The Poetical Works of William Wordsworth. Boston: Houghton Mifflin Co., 1982.

 Illustrazioni

  1. Castlerigg
  2. Stonehenge

3. Avebury

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

4. Avebury

  1. Silbury Hill
  2. Il "tempio serpentino"