Rappresentare la vita

Leggendo e rileggendo S’è fatta ora di Antonio PascaleMinimumfax 2006

 

Elisabetta Liguori

elisabetta.liguori-lisi@poste.it

 

Antonio Pascale mi aiuta. Sarò sfacciata, paradossale, ma non tanto lontana dalla verità, perché mi riferisco ad uno scrittore che, scrivendo appunto, sembra poter porre rimedio al vivere. 

In questo suo ultimo romanzo S’è fatta ora, edito dalla Minimumfax, come del resto già aveva fatto negli altri, Pascale ritorna al realismo a lui caro: intimo, lieve, ma oggi con un approccio maggiormente scientifico. E si badi bene: non di cura si tratta, ma di piccolo rimedio sperimentale, di sollievo breve, ma essenziale, da medico condotto primi novecento, volto a porre un temporaneo, apparente, salutare ordine tra le cose.

La sua letteratura è un percorso, non un album di foto statiche; se ne può fare un discorso omogeneo  ma variabile, per passi cadenzati. Ciascun passo è diverso dal successivo; le cose cambiano all’improvviso, e, nonostante la tenuta del ritmo, l’inciampo è dietro l’angolo. Nessun rimedio ci mette definitivamente al riparo, ma aiuta.

S’è fatta ora è un romanzo breve che racconta una vita per tappe. L’infanzia, l’adolescenza, il lavoro, l’amore, la paternità e l’avvertimento della morte che ne deriva. Per piccoli passi, fermate e marce nuove, per immagini, per ricordi, per tesi e antitesi, movimento e riposo. E sembra voler porre l’attenzione proprio sui passi più difficili, quelli stranianti, inattesi, decodificandoli.

Far ordine è importante, nella vita quanto nella scrittura. Io trovo che nel gesto del mettere ordine, più che nell’ordine in sé, ci sia grande bellezza, grande armonia, e grande vigore ci sia anche nella scrittura di Antonio Pascale, ancora una volta.

Proprio tale spirito domestico ed austero fa sì che i tanti racconti di questo autore, divenuto ormai di culto, abbiano conquistato nel tempo, gradualmente, una forza quasi metaletteraria. Pascale, con il suo alter ego Vincenzo Postiglione, presente anche il quest’ultimo romanzo, vive la propria esistenza secondo l’imperativo dell’analisi reiterata, della “memoria rimeditata”, come dice Genna in una sua recente recensione al testo, della rilettura costante, spinto proprio da quel bisogno, tutto umano, di mettere ordine, da sempre alla base dell’impulso letterario. Postiglione parla di sé, dei suoi cambiamenti, e così diventa egli stesso letteratura. Agevole rappresentazione. Tema, protagonisti ed autore del libro diventano gli elementi di un’equazione algebrica. E Postiglione mette ordine, non con i grandi furori, ma con piccoli gesti, brevi misurazioni di pesi, fragili rilevazioni di forza o debolezza, prudente scandaglio di minuscole ferite.

La ferita, appunto. Un tema che ritorna quello del tragico Filottete dell’opera omonima di Sofocle: l’uomo morso da una vipera che non riesce a guarire, e che, quindi, impara a convivere pudicamente con la propria ferita, ormai allontanato dagli uomini che hanno preferito la menzogna alla verità fetida e puzzolente della sua malattia. Una ferita durevole resa guardabile, pulita, ordinata. Da rispettare. C’è nella poetica di Pascale, infatti, un enorme rispetto per la ferite di ciascuno, quelle che non possono guarire, quelle che invece possono, quelle di tutti; un grande amore per le tracce del passato e gli indizi del futuro che ognuna di queste ferite nasconde. La ferita non si cura, non si cancella, non si ignora, ma la si comunica, ci si convive; eccola, c’è, è lì, vicinissima, la si può vedere. La si può avvicinare, purché lo si faccia con pudore, però. Ogni forma di morte, cellulare, fisica o psichica, morale, sociale, richiede pudore.

Con questo nuovo libro Pascale aggiunge al suo percorso d’uomo e scrittore un nuovo passo: il pudore. Questo profilo rende il suo raccontare ancor più intimo, attento, più quieto.

Però è strano. Come può un racconto essere pudico? O si racconta o non si racconta; o si svela o si mantiene il segreto. Come si realizza il compromesso? Ecco la parte più oscura della scrittura di Pascale, forse il suo segreto: la già descritta attitudine all’ordine, alla classificazione, alla pulizia si mescola alla curiosità, al caos, alla ricerca. Come avviene?  Forse è merito della vecchiaia, che ci sfiora tutti, o forse solo del ritmo, di un tocco volatile, se pur ruvido, in qualche modo baciato dalla grazia. Oppure è frutto della semplicità di una narrazione che segue lo sguardo, solo lo sguardo. Come ad aver tra le mani un vecchio Tangram, il vecchio gioco d’abilità; risolverlo per puro caso e poi non vantarsene in giro, ma conservare intatto il coraggio, lo stupore e il bisogno umano di mostrarlo in tutta la sua risplendente verità, attenendosi ai dati, passandolo infine ad altri, pronto per altri occhi e altre mani. Così il rompicapo di una vita, risolto senza formule, appare faccenda ben più facile; l’intera esistenza di un uomo come Vincenzo Postiglione sembra semplice, lieve.

 

Io pure, diventavo a mano a mano sempre più intimo. All’improvviso facevo un battuta. La vittima della battuta era una ragazza. La quale, a sua volta, rilanciava con un’altra battuta. Sempre su di lei. Perché in queste feste l’intimità si conquista così, con una battuta autoironica ben piazzata. E poi alcune ragazze erano parecchio autoironiche, questo mi piaceva, e allora, bastava individuare un punto divertente e ribattere, e poi insistere con una domanda riservata. Tanto lo sapevo che non esistono domande indiscrete: solo le risposte lo sono.

 

Semplicità, intimità, attenzione vigile, curiosità, pudore, rispetto, memoria: mi paiono queste le chiavi del libro. Un vero miracolo della narrazione contemporanea a chiave multipla.

Pascale scrive come se volesse costruire un tavolo. Ci sono poche regole di base. Di ogni evento, gli piace conoscerne il contesto, la matrice, così come afferma l’autore stesso in qualche intervista più recente. Così capita che uno compri un libro in libreria, e poi si ritrovi tra le mani un tavolo: perfetto nella linea, semplice, stabile, rispettoso delle leggi fisiche. Non è cosa di tutti i giorni. Una fortuna, secondo me. Tavoli o castelli di sabbia, o qualunque altra rappresentazione oggettiva del reale, sia chiaro: l’approccio scientifico è il medesimo.

Antonio Pascale sa bene come si costruiscono i castelli di sabbia. È lui a dirlo: è quella tipologia di scrittore che sa come erigere castelli e poi aspettare che un’onda, ladra ma non imprevista, butti giù tutto. Può sempre arrivare un’onda qualunque. Davanti ad un’ evidenza storica, empirica come questa, ci sono due strade percorribili alternativamente. Si può scegliere di non costruire più castelli, mai più, né di sabbia, né di zucchero, e stop, pazienza. Oppure si può continuare a farlo; in barba alla loro caducità, si può scegliere di continuare a giocare. Postiglione/Pascale sceglie la seconda opzione.

Come nei racconti di Cechov. E’ lo stesso Pascale a citare l’ideale narrativo del grande prosatore russo senza menzogna, la sua fruibilità, la sua appassionata immediatezza, l’obiettività della sua analisi. Infatti Cechov costruiva le sue storie rapide intorno ad un unico accadimento, un unico tessuto connettivo compatto e trasparente, fitto di dettagli e ferreo per elementi e destinazione. La sua era pura registrazione della verità obiettiva, che ne svelava il motore, il contesto, cogliendone, quasi miracolosamente, oltre all’essenza del presente, anche quella del passato e persino del futuro, secondo una logica deduttiva.

Il tavolo, o il castello di sabbia, è quel singolo evento anche per Pascale. Tangibile, forse instabile, caduco, ma tangibile. Il segreto che vuole svelare il suo raccontare è celato proprio nella reazione umana davanti a quel certo evento, nella tensione che ne scaturisce.

Su questo si può lavorare come fosse un Tangram.

Pascale continua ad impastare sabbia per castelli, a narrare, a chiedersi come, a mettere ordine, nonostante la certezza che, dopo poco, la fatica sarà tutta da rifare.

Per comprendere a pieno il senso di questa pacata ostinazione, bisognerebbe leggere gli altri libri di questa autore, venuti prima dell’ultimo, autonomi tra loro, eppur connessi per artigianato, e magari quelli che verranno dopo. E poi ancora dopo.

L’affresco di un’epoca richiede pazienza e tempo.

 

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