Sul Manifesto dei conservatori di Roger Scruton

Fabio Brotto

brottof@libero.it

Roger Scruton è un pensatore che a me piace molto. In parte per la mia anglofilia, in parte perché è un conservatore, in parte perché ha scritto un libro in difesa della caccia. Il suo Manifesto dei conservatori, che esce ora nella collana diretta da Giulio Giorello per Raffaello Cortina (trad. di D. Damiani - brutto titolo italiano, l’originale è A Political Philosophy), è un libro da leggere assolutamente. Qui esaminerò alcuni dei suoi passaggi fondamentali. Scruton è intanto un difensore dello Stato-Nazione, e sospettoso nei confronti degli organismi sovranazionali. Eccone un passo:

… qualunque allargamento della giurisdizione oltre le frontiere dello stato-nazione conduce a un calo di responsabilità. Prendiamo l’esempio della Commissione Europea: dal momento della sua istituzione nessun contabile è stato in grado di far valere le sue relazioni e quando si permette di attirare l’attenzione pubblica su questo fatto può persino essere destituito dal (teoricamente responsabile) Commissario che lo considera incapace di ricoprire il suo ruolo. Lo scandalo che ne consegue dura per qualche giorno, ma il Commissario in causa - nel caso più recente Neil Kinnock - si limita a veleggiare nella tempesta con un sorriso, certo che nessuno sia autorizzato a destituire lui a causa di una così irrilevante interpretazione personale delle regole. Se si guarda ad altre istituzioni transnazionali, si scoprirà che prevale un analogo tipo di corruzione e gli organismi delle Nazioni Unite ne hanno data ampia dimostrazione - UNESCO, OMS, ILO (Organizzazione internazionale per il lavoro - OIL) in ugual misura.` Nessuno è autorizzato a fare la guardia a questi guardiani, visto che la catena di responsabilità che consente ai cittadini comuni di sollevarli dagli incarichi è stata efficacemente interrotta.

In poche parole, la responsabilità è un sottoprodotto naturale della sovranità nazionale messo in pericolo dall’autorità transnazionale. Anche se l’idea di diritti umani è associata alla Dichiarazione universale dei diritti umani, uno dei principi dello Statuto delle Nazioni Unite, questo universalismo va preso con un pizzico di buonsenso. I diritti non nascono solo perché si enunciano: nascono perché possano essere fatti rispettare; e possono essere fatti rispettare solo dove vi sia un principio di legalità. D’altra parte, si dà un principio di legalità solo dove esista una giurisdizione comune, grazie alla quale l’entità che applica la legge ne è anche soggetta. Al di fuori dello stato-nazione, in epoca moderna, queste condizioni non si sono mai prodotte. (p. 27)

Una solidarietà che lega i viventi ai morti che li hanno preceduti e da cui discendono, ai Padri, e di conseguenza la responsabilità di essere Padri delle generazioni che verranno: questo è ciò che dovrebbe esserci, secondo Roger Scruton, e che invece largamente manca. E a me pare che manchi particolarmente in Italia, dove il senso della nazione è debole, e anche chi rivendica lo spirito locale, per esempio della Padania, non si oppone alla devastazione del territorio, e al sorgere in ogni comune di una, due, tre zone industriali… Del resto, la nostra è una società senza Padri, che preferisce i Nonni. Quello che Scruton chiama ambientalismo radicale, quello che da noi è incarnato da Pecoraro Scanio & company, è in effetti, contraddittoriamente, un ambientalismo senza radici, senza tradizione nazionale, un ambientalismo individualistico nel senso peggiore, che ha alla base la mera spinta al godimento. Quell’ambientalismo che riempie i Parchi di visitatori che di natura non capiscono nulla, e si guarda bene dall’opporsi al proliferare delle piste da sci e alla neve artificiale. Poiché questo è un ambientalismo consumistico, che non vede l’origine del male, perché vi vedrebbe anche se stesso. Gli manca, come a tutta la nostra società, la moderazione (una delle quattro virtù cardinali, che oggi mancano tutte). Alle pp. 46 e 47 leggiamo:

A me sembra che il più evidente punto debole dell’ambientalismo radicale sia la sua incapacità di esplorare la motivazione umana. C’è una ragione schiacciante per il degrado ambientale: l’avidità umana. Nelle zone più ricche del mondo le persone sono troppo numerose, mobili, impazienti di soddisfare ogni loro desiderio, indifferenti allo sperpero che si accumula nella loro scia, troppo pronte - nel gergo dell’economia - a esternalizzare (a trasferire ad altri) i loro costi. La maggior parte dei nostri problemi ambientali è costituita da casi specifici di tale questione generale, che può essere più semplicemente descritta come il trionfo del desiderio sulla moderazione. Può essere risolta solo quando la seconda prevarrà sul primo o, in altre parole, quando la gente avrà appreso di nuovo l’abitudine al sacrificio. Per che cosa la gente è pronta a fare sacrifici? Per le cose che ama. Quando tali sacrifici tornano a vantaggio di quelli che non sono ancora nati? Quando sono fatti per i morti. Questi sono i sentimenti fondamentali ai quali Burke e de Maistre hanno fatto appello (...) In poche parole, dobbiamo cambiare il nostro modo di vivere e possiamo farlo solo se abbiamo un motivo di farlo, un motivo abbastanza forte da farci moderare i nostri appetiti.

In realtà, glosso, non si tratta tanto di appetiti quanto di desideri (qui Scruton è impreciso). Mentre gli appetiti appartengono alla sfera naturale, e la società può regolarli solo parzialmente, strutturandoli in modo da renderli inoffensivi per la collettività, i desideri sono esattamente ciò che tiene insieme la società stessa. Ed ognuna alimenta i suoi, secondo modalità ideologiche. Così i desideri di un giovane spartano sono differenti da quelli di un giovane italiano di oggi, mentre i loro appetiti sono, nella sostanza, più o meno gli stessi. Il motivo per farci moderare i desideri può essere il bene della famiglia (e fin qui un italiano ci arriva), o più in generale il bene della collettività e della nazione (e qui un italiano fatica enormemente ad arrivare).

Nella nostra società la morte è la grande assente. Si tratta di un modo di essere assente molto particolare, ben diverso da quelli del passato, in cui pur molti cercavano di esorcizzare thanatos mediante l’edonismo o l’impegno totale per una causa, due forme di rimozione del pensiero individuale, che si ripiega sulla fragilità del sé consapevole della propria finitudine. Il modo attuale è il modo della leggerezza: la morte diviene leggera mediante il suo allontanamento dalla vita reale - col confinamento del morente in ospedale - e la sua contemporanea inflazione mediatica nei termini della fiction. Dove aumentano i serial ospedalieri, pieni di malati e morenti e cadaveri, e ancor più i serial criminali, in cui si vedono ammazzamenti, morti, cadaveri sezionati nelle sale di anatomia, ecc. Addirittura vi sono canali dedicati, come Fox Crime. Tutto ciò è paradossale, ma l’essere umano è paradossale costitutivamente, per cui non è luogo a meraviglia. In un contesto culturale di questo tipo, vi è una forte spinta alla legalizzazione dell’eutanasia. Come ho indicato in un precedente post, la questione è estremamente problematica, e in tutte le questioni problematiche la legge deve essere cauta. Ma l’individualismo radicale di tipo pannelliano, diffuso assai più che non sembri, sicuro di sé e dogmatico, vuole la legalizzazione dell’eutanasia. Roger Scruton è contrario, con buoni argomenti.

L’amore, o comunque l’amore come noi lo conosciamo in questo regno terrestre, è una relazione fra cose che muoiono, e deve tutta la sua intensità e il suo potere consolatorio a fragilità e a fuggevolezza, contro le quali è l’unico rimedio. Non dobbiamo permettere alla legge di ripararci dalla nostra mortalità o dalla nostra fragilità, senza le quali non potremmo essere amati. Qualunque emendamento alle leggi che governano le cure mediche non dovrebbe essere volto a ripararci dalla morte, ma a proteggere il valore della vita umana contro quella che si potrebbe definire “l’erosione prodotta dalla medicina”. Se le persone verranno mantenute in vita da cure mediche oltre il punto dove l’amore finisce, e poi eliminate dalle stesse cure secondo un piano deliberato per sbarazzarsene, vivremo un’erosione costante del senso della vita umana come cosa a parte, e della morte come il suo limite luminoso. (p. 92)

Ma è appunto l’idea che l’umano è “cosa a parte” rispetto ad ogni altra forma di vita quello che l’Occidente sta perdendo.

Ma, davvero, ci dovrebbe essere un diritto all’eutanasia e al suicidio assistito? Per due ragioni ritengo sia pericoloso creare questi diritti. La prima è una preoccupazione generale, condivisa oggi da molti, per una sorta di “inflazione dei diritti”. Tutti nutriamo interesse per la salute, ma dire che io ho un diritto alla salute significa tramutare la mia salute nel tuo dovere. In senso lato, riempire il mondo di diritti vuol dire riempirlo di doveri e, di conseguenza, creare un fardello sempre più pesante, intollerabile ed eventualmente contraddittorio, di cui sia i cittadini in generale sia il governo - che è il loro capro espiatorio preferito - non possono liberarsi. Il diritto all’eutanasia porrebbe ai medici un dilemma impossibile, se ritenessero - come sicuramente farebbero molti - di non avere il dovere di assistere il suicidio in qualunque forma.. Sarebbe oggetto di controversia legale complessa e spiacevole, e ulteriore motivo di discredito della nozione di “diritto” agli occhi della gente comune. La seconda ragione per cui ritengo pericolosa la creazione di questi diritti è che chi traesse beneficio da una morte ne farebbe quasi certamente abuso. Dopo la morte, sarebbe difficile provare che il paziente non stesse esercitando il suo diritto di morire, e, al tempo stesso, sorgerebbero dei punti di domanda su qualunque eredità che provenisse da un decesso per eutanasia. Ancora una volta, ne scaturirebbe vasta controversia legale. (p. 93)

Parole molto sagge. Aggiungo che la questione dei doveri è fondamentale. Dovere è, in Italia, una parola quasi scomparsa dall’uso comune. Mentre i diritti abbondano, si moltiplicano, investono anche animali e piante, e fra poco saranno concessi anche i batteri.

Sul matrimonio gay Scruton esprime delle considerazioni in cui mi riconosco totalmente. Riporto il passo sine glossa.

L’unione eterosessuale è pervasa dal senso che la natura sessuale del partner ci sia estranea, un territorio nel quale si entra senza una conoscenza a priori e dove l’altro, e non il Sé, è l’unica guida attendibile. Questa esperienza ha ripercussioni profonde sul nostro senso del pericolo e del mistero dell’unione sessuale, e tali ripercussioni fanno sicuramente parte di ciò che la gente aveva in mente quando ha dato al matrimonio la sua veste di sacramento e attribuito alla cerimonia il ruolo di rito di passaggio da una forma di sicurezza a un’altra. Il matrimonio tradizionale non era solo un rito di passaggio dall’adolescenza all’età adulta, né l’unico modo di approvare e garantire l’allevamento dei figli. Era anche una drammatizzazione della differenza sessuale: la distanza che il matrimonio manteneva tra i sessi era tale che il loro congiungersi diventava un balzo esistenziale più che un esperimento transitorio. L’intenzionalità del desiderio ne era plasmata e anche se questo modellamento era - a qualche livello profondo - un universale culturale e non umano, donava al desiderio la sua nuzialità intrinseca e al matrimonio il suo fine di passaggio da uno status a un altro. Considerare il matrimonio gay semplicemente come un’altra opzione all’interno dell’istituzione significa ignorare che è proprio l’istituzione a dare forma alla motivazione per entrarvi. Il matrimonio si è sviluppato sull’idea della differenza sessuale e su tutto ciò che essa significa: rendere questa caratteristica incidentale invece che essenziale significa cambiare il matrimonio fino a non riconoscerlo più. I gay vogliono il matrimonio perché vogliono l’avallo sociale che comporta; ma se accettiamo questo tipo di unione, lo priviamo del suo significato sociale, come la benedizione conferita ai vivi da chi non è ancora nato. Pertanto, la pressione esercitata per l’accettazione dei matrimoni gay è, in una certa misura, controproducente. Assomiglia a ciò che ha fatto Enrico VIII per ottenere l’approvazione ecclesiastica al suo divorzio, nominandosi capo della Chiesa: la Chiesa che ha accettato il suo divorzio non era più la Chiesa di cui egli cercava l’avallo.

Questo non altera il fatto che il matrimonio gay alimenti la propensione occulta dello Stato postmoderno a riscrivere tutti i vincoli come fossero contratti tra i vivi. È praticamente una certezza che lo Stato americano, agendo attraverso la Corte Suprema, “scoprirà” un diritto legale per il matrimonio gay, esattamente come ha scoperto diritti costituzionali per l’aborto e la pornografia, e come - quando gli sarà chiesto - scoprirà il diritto a un divorzio “senza colpevoli” così da non avere, in pratica, alcuna motivazione.

Chi si angustia per tutto ciò e vuole esprimere la sua protesta dovrà lottare contro potenti forme di censura. La gente che dissente da ciò che sta rapidamente diventando un’ortodossia nella questione dei “diritti dei gay” è regolarmente accusata di “omofobia”. In tutta l’America ci sono comitati, preposti alle nomine di candidati, che li esaminano attentamente per sospetta omofobia, e certuni vengono sommariamente liquidati una volta che sia stata formulata l’accusa: “No, non si può accettare la richiesta di quella donna di fare parte di una giuria in un processo, è una cristiana fondamentalista e omofobica”; “No, anche se è un’autorità mondiale in materia di geroglifici della 11 Dinastia, non si può farlo entrare di ruolo all’università dopo quella sua filippica omofobica di venerdì scorso”. Questa censura promuoverà la causa di chi si è impegnato a “normalizzare” l’idea dell’unione omosessuale: non sarà possibile opporsi, non più di quanto sia stato possibile opporsi alla censura femminista sulla verità della differenza sessuale. Forse, fra adulti consenzienti, solo in privato, sarà possibile coltivare il pensiero che il matrimonio omosessuale non sia affatto un matrimonio. (pp. 117 - 119)

L’anno scorso, durante la stagione della caccia, mi è capitato di entrare in un bar vestito da cacciatore, per un caffè. Il barista mi ha rivolto uno sguardo carico d’odio, e mi ha servito il caffè con evidente disprezzo. Poi l’ho sentito mormorare alla moglie: “vorrei che un’animale potesse sparargli”. Sono sicuro che se fossi entrato tutto vestito di nero, con una pistola visibile sotto l’ascella, e con l’aria da killer professionista, nello sguardo del barista avrei intravisto paura, fascinazione, interesse, ma non odio né disprezzo. Un segno del crollo della differenza essenziale tra l’umano e l’animale, e addirittura della tendenziale supremazia dell’animale sull’umano, che è uno dei segni epocali nel nostro Occidente. Naturalmente, là in quel bar erano visibili tramezzini al prosciutto, al salmone, al granchio. Ma l’importante è che il morire dell’animale non sia mai reso visibile. Solo la visione, infatti, desta la falsa coscienza. Per questo, nessun programma tv mostra mai l’uccisione dei vitelli e dei maiali, delle cui carni tuttavia i nostri supermercati sono pieni. Le mamme cucinano quelle carni, mentre raccontano ai loro figli la storia di Cappuccetto Rosso in versione animalista, senza il cacciatore che uccide il lupo. Ma con il lupo che diventa buono (cosa mangerà in futuro, erba?). Scrive Roger Scruton a p. 160 del Manifesto dei conservatori:

Nella misura in cui consideriamo le persone come animali, gli animali diventano a loro volta un problema per noi. Essendo discesi nella loro sfera, li guardiamo come guardiamo alle persone, ed è da qui che è sorto quello strano movimento - nel quale si è riversato un fervore che ha molto del religioso - per la “liberazione degli animali” e i “diritti degli animali”. Con una impegnativa argomentazione filosofica sarebbe possibile provare che gli altri animali sono metafisicamente diversi da noi e che, interpretata nel modo giusto, la vecchia opinione che noi, ma non loro, abbiamo un’anima è corretta - anche se il termine “anima” non dovrebbe costituire parte della prova.` È anche possibile mostrare come non ci siano elementi per attribuire diritti agli animali o per credere che abbiano desiderio o siano capaci di “liberazione”. Tuttavia, un’argomentazione filosofica non serve a dissuadere chi non capisce la questione, dal momento che le tesi filosofiche, a differenza delle convinzioni religiose, non diventano percezioni. Nella Lebenswelt, come la modella la religione, un animale e una persona occupano due nicchie diverse. Un animale non viene visto come un centro di individualità e di libertà; non è una fonte di vergogna o di giudizio; ma una parte normale del mondo empirico che condivide alcuni nostri sentimenti, senza aspirare mai al nobile, al vero o al buono. Da quella percezione degli animali scaturiva la vecchia moralità che ci proibiva di trattare le persone come animali, e viceversa: quando quella percezione si affievolisce fino a scomparire, la moralità tradizionale subisce la stessa sorte.

I diritti proliferano tanto più quanto più inconsistente o irreale è il loro fondamento. Non possono infine che generare conflitto e caos, crollo di ogni differenza e ritorno alla legge del più forte.

28 ottobre 2007

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