RICORDARSI  DI  AMALEK

 l’undici settembre e il pensiero generativo (II)

Da Anthropoetics 10, n. 2 (autunno 2004 / inverno 2005)

Adam Katz

Department of English
Quinnipiac University

Hamden, CT 06518
Adam.Katz@quinnipiac.edu

Traduzione dall'inglese di Fabio Brotto

 

brottof@libero.it  

 

www.bibliosofia.net

 

Trasparenza reciproca

 

Come guida ad un modo di pensare adatto ad una tale pratica, necessario sia per gli U.S.A. che per il resto del mondo, proporrei The Transparent Society di David Brin. Il libro di Brin può essere visto come un ampio esperimento di pensiero basato sulla possibilità (molto forte) che la società globale diventi sempre più trasparente, nel semplice senso che, come conseguenza di un perfezionamento delle tecnologie di sorveglianza e informazione, diverrà possibile conoscere tutto di ogni persona; ovvero diverrà impossibile impedire ad alcuno di conoscere di noi quel che vorrà. E tuttavia Brin, col suo esplicito e intenso interesse per i temi antropologici di base che sono in gioco, e col suo metodo di riformulazione dei dualismi metafisici come paradossi aperti a soluzioni (paradossalmente) pragmatiche, rigetta esplicitamente la moltitudine di sproloqui dei tecnofili e tecnofobi che circolano.

 

Significativamente, la prima mossa di Brin è sfidare le articolazioni vittimarie della domanda (in qualche modo non ingenua) che egli pone nel suo sottotitolo: “La tecnologia ci obbligherà a scegliere tra privacy e libertà?”. Brin identifica “due aspetti contrapposti che appaiono in un infinito numero di dispute sulla privacy”:

 

Una parte crede che un altro gruppo sia intrinsecamente pericoloso, e che la sua pericolosità sia acuita dalla segretezza. Pertanto si dovrebbe obbligare quel gruppo alla responsabilità mediante l’incremento del flusso di informazione.

L’altra parte sostiene che un qualche bene sarebbe minacciato dall’aumento della trasparenza, e quindi vuole che il flusso di dati che si propone venga bloccato. (p. 19)  

 

O più in generale: “Ogni qual volta sorge un conflitto tra privacy e responsabilità, la gente chiede la prima per sé e la seconda per tutti gli altri” (p. 12).

 

Quando si tratta di istituzioni potenti (come governi o multinazionali) o individui sospetti, la gente richiede trasparenza e libero flusso di informazioni; quando si tratta di se stessi, la gente richiede una zona di privacy sempre più estesa, o, più precisamente, vera e propria segretezza.

 

In opposizione alla costante generazione di scenari iper-mimetici, dove “loro sono di gran lunga più forti di me e pertanto si devono usare tutti i mezzi per controllarli, pur se, a causa della loro enorme potenza, non potrò mai contare su mezzi adeguati (o che siano mezzi miei, e non loro), cosicché si invoca la necessità di più mezzi…”, Brin propone la trasparenza reciproca. Questo proposito, abbastanza semplice, implica che entro le condizioni che conducono a scenari paranoici (capacità tecnologiche decentrate e incrementate che producono, secondo le parole dell’opinionista Thomas Friedman, “individui sovra-potenziati” che probabilmente vedono le istituzioni esistenti come fatte apposta per frustrarli, si trovino i mezzi per combatterli. Così, per esempio, se si è preoccupati della possibilità che la polizia collochi videocamere in luoghi pubblici, segua le nostre attività su Internet, raccolga sempre più facilmente informazioni potenzialmente compromettenti, e così via, la risposta non è invocare regolamentazioni arcane e complicate, e in ultima analisi inattuabili, per prevenire tutto questo. La risposta, piuttosto, è quella di indirizzare i riflettori in senso contrario: perché non videocamere nelle prigioni, nelle stanze dove la polizia svolge gli interrogatori, con un collegamento a Internet, perché non lavorare ad un accrescimento del flusso di informazioni anche dalla parte degli “osservatori”? Secondo Brin, questo potrebbe anche conferire a quegli individui sovra-potenziati, che chiama “T-cellule” sociali (“persone dalla mentalità originale… spinte da un ego sovralimentato al punto che il loro più sacro obiettivo è quello di trovare e rivelare qualche terribile errore o qualche progetto nefando” [p. 135]), una vocazione che servirà a rimettere il risentimento in circolo dentro il sistema.

Le tesi di Brin avrebbero chiaramente l’effetto di accelerare nella cultura  contemporanea le tendenze alla virtualizzazione: quanto più noi ci osserviamo l’un l’altro tanto più diamo per scontato di essere tenuti sotto osservazione e tanto più quindi rappresentiamo consapevolmente noi stessi entro strutture, generi, narrazioni… che hanno effetti già ben conosciuti. E quanto più noi facciamo questo, tanto più diventiamo delle funzioni che circolano attraverso tali sistemi di segni. A prescindere da una sottolineatura degli aspetti positivi del presentarsi di ciascuno di noi come un segno, che, insiste Brin, ci condurrà ad enfatizzare le nostre differenze e la nostra unicità, egli sostiene che le tendenze verso la virtualità, precisamente per il fatto di rendere possibili, perfino facili, e quasi irresistibili, vari tipi di falsificazione, ci condurrà a concentrare la nostra attenzione sugli elementi di base dell’interazione umana, come la credibilità, l’affidabilità e la reputazione: se per noi non vi è alcun modo di sapere se una fotografia o dei dati informatici siano stati alterati, tutto ciò che ci rimane è la fiducia che possiamo riporre nella persona che ha pubblicato o disseminato l’informazione, la fiducia che quella a sua volta è in grado di avere in chi gliel’ha   procurata, e questi nella persona che per prima l’ha registrata, e così via. In altre parole, l’emergere della trasparenza chiarifica e trasforma in una questione immediata e pragmatica quella che era sorta come questione degli universali antropologici. Uno di tali universali, che secondo me può essere rintracciato entro la scena originaria nella relazione tra il segno e l’appetitivo, è la relazione tra la virtualità e quello che possiamo chiamare, seguendo il filosofo pragmatista americano Charles Peirce, “indessicalità”—un segno che significa mediante una connessione diretta al suo referente, puntando direttamente qualcosa, la forma suprema di verifica. Ambo i lati dell’equazione comportano aumenti di potere e autonomia individuali—noi siamo in grado di vedere e ispezionare direttamente più che mai prima, e la nostra implicazione in un’ampia gamma di scenari manipolati diventa più forte che mai—mentre anche la trasparenza accresce le possibilità di articolare i due lati.

 

Un altro degli universali in questione è il rapporto che Brin pone tra potere e responsabilità. Ovviamente, il potere precede la responsabilità, che Brin vede come uno strumento del Nuovo Occidente nella sua lotta contro la tirannia. Tuttavia, una comprensione della responsabilità come restaurazione dell’uguaglianza e reciprocità della scena originaria complica quest’ordine temporale apparente e ci consente di vedere la relazione tra potere e responsabilità come generativa. Così, invece di vedere il potere come qualcosa che deve essere limitato, e la responsabilità come il mezzo per fare questo, Brin propone una relazione dialettica tra di essi: è necessario che noi connettiamo la responsabilità al potere al fine di correggerlo, ridirigerlo e alla fine migliorarlo, mentre la stessa elaborazione dei mezzi per mantenere responsabili gli individui e i vari centri di potere genera nuove modalità di potere, che a loro volta richiedono che si connetta loro la responsabilità, ecc. Per tornare al mio emendamento alla scena originaria, l’ipotesi che potremmo formulare sulla base delle argomentazioni di Brin è che la scena originaria comincia finalmente a funzionare precisamente quando il confronto tra il primo individuo (il significante primario, primo-tra-eguali) che presenta il suo gesto e il contagio mimetico emergente si converte in una catena scaglionata di imitazioni di quel gesto, che è completa solo quando il primo individuo lo ripete (in una forma lievemente modificata), realizzando quindi ciò che segue: la sua stabilizzazione come segno con una determinata forma; la reintegrazione di quell’individuo entro la scena nella mera qualità di un membro tra gli altri che imitano il segno; laddove il precedente della trasparenza è il bisogno di ogni persona di tenere sotto osservazione tutti gli altri e restituirgli in modo chiaro il loro segno. In effetti, l’osservare visibilmente il gesto di ogni altro è esso stesso parte del gesto.

 

Dalla mia illustrazione dovrebbe essere ormai chiaro come la posizione di Brin sia ottimisticamente proiettata verso il futuro: egli è un evoluzionista culturale, che vede nel Nuovo Occidente l’erede delle conquiste e dei successi culturali più grandi e avanzati della storia umana. Per Brin, il Nuovo Occidente, mentre su di un livello corrisponde a “tutte le democrazie costituzionali del mondo” (p. 336), su di un altro, più importante, livello si riferisce ad “una visione culturale condivisa basata sull’individualismo, l’eccentricità e il sospetto nei confronti dell’autorità”, che opera in “zone fluide” non necessariamente corrispondenti ai confini nazionali. Brin tende anche prevalentemente a vedere il Nuovo Occidente in termini politici, come libertà, rintracciando un filo che connette il Nuovo Occidente a “poche altre brevi oasi di relativa libertà—l’Althing islandese, qualche città stato italiana, la confederazione degli Irochesi, e forse un paio di momenti luminosi entro la storia della repubblica romana o del califfato di Baghdad—circondate da lunghe ere in cui in ogni luogo la piramide sociale è stata dominata da gruppi di privilegiati” (p. 17—io devo precisare che la democrazia ateniese, palesemente assente da questa lista, era già stata menzionata da Brin col dovuto rilievo).

 

L’emergere del Nuovo Occidente ora sta facendo crollare i “gruppi di privilegiati”, compresi ancora in termini coerentemente non vittimari (ovvero: non viene privilegiata l’ottica della vittima, ma quella che emerge da un centro di potere in competizione). Quello che maggiormente interessa Brin non sono i rovesciamenti di potere, reali o immaginari, ma la perdita di autorità di coloro che potremmo chiamare mediatori culturali: editori, istituzioni culturali, media, burocrazie, a favore di una quantità di aficionados, autodidatti esperti in ogni campo dello scibile, reporter e investigatori spontanei che si occupano degli illeciti commessi dagli uomini politici e dalle grandi imprese, nuovi siti per la disseminazione delle informazioni (il fenomeno del blog, che è emerso anni dopo il libro di Brin, è un esempio perfetto):

 

Fra qualche decennio sul nostro pianeta vivranno dieci miliardi di persone, e computer sofisticati come gli attuali mainframe saranno più economici delle radio a transistor. Se questa combinazione non condurrà alla guerra e al caos, condurrà ad un mondo in cui innumerevoli uomini e donne affolleranno i dataways alla ricerca di qualcosa di speciale da fare—per qualche ricerca oltre i loro soliti confini, per sentirsi ciascuno un po’ straordinario. Mediante Internet, stiamo forse assistendo all’inizio di una grande esplorazione in ogni direzione di interesse e curiosità concepibili. Un’esplorazione verso i limiti di quello che siamo, e di quello che potremmo diventare. (p. 49)

 

Se questa combinazione non condurrà alla guerra e al caos—se rivediamo queste parole in modo che suonino al fine di impedire che questa combinazione conduca alla guerra e al caos, possiamo vedere come Brin operi su presupposti antropologici, che facilmente si integrano nel pensiero originario: la circolazione dei segni non è più sufficiente, ciascuno di noi deve diventare segno, un significante della differenza che genera altre differenze invece che affermare un nuovo centro[1].

 

Ho sottolineato l’ottica politica di Brin al fine di continuare a sviluppare una linea di indagine per il pensiero originario che ho impostato in un precedente saggio su Anthropoetics[2] e nella mia discussione di Harris: in che modo, entro il quadro dell’antropologia generativa, consideriamo la realtà degli impegni e obblighi collettivi, e delle azioni pubbliche, in quanto queste non sono riducibili al dispiegamento dell’etica originaria della reciprocità universale su di un livello estetico? Come dobbiamo intendere la politica senza ridurla ad una branca del mercato? In parte quello che io intendo come un rifiuto, da parte di Gans, della necessità o possibilità di pensare la politica nei termini della scena originaria è dovuto, penso, al fatto che nella politica vi è qualcosa di irriducibilmente ritualistico. O, per essere più precisi, il terreno della politica è sempre ritualistico. Anche gli ordinamenti politici più democratici richiedono che i loro cittadini seguano dei codici ritualistici (e consentono la revisione di quei codici soltanto in accordo con un altro meta-codice). Certi elementi della scena fondatrice dell’ordinamento politico rimangono intatti. Questo è un dato irriducibile in ragione del fatto che parte del fine della politica è la difesa del confine tra interno ed esterno: se tali confini sono necessari e (per porre la stessa questione in altro modo) esistono degli intrinseci limiti alla de-ritualizzazione (in quanto articolazioni del potere e responsabilità richiedono indessicalità, precedenti, un quadro a priori che renda l’azione significativa in modi specifici) allora deve essere definito uno specifico campo della politica[3]. Una politica originaria o generativa, in questo caso, sarebbe una politica in cui la scena fondatrice dell’ordinamento politico è mantenuta nella sua integrità solo come un segno della scena originaria—come opposta sia ad una negazione risentita e idolatrica della scena originaria sia ad uno pseudo-universalismo ugualmente risentito che rifiuta tutte le scene come “particolaristiche”.

 

La politica, per porre la questione in modo diverso, è il riconoscimento della contingenza, della fragilità invero, della scena originaria. A differenza dal segno formale, infinitamente trasferibile e riciclabile, la politica richiede che se una scena fondatrice deve essere sostituita, la si debba scambiare con una egualmente densa o ricca di indici. Diversamente dal rituale, però, le scene fondatrici possono essere sostituite deliberatamente. È precisamente in tali interregni, allora, che si aprono numerosi varchi per il contagio mimetico, la ferocia, la tirannia: nell’interregno è molto difficile dire se concetti largamente accettati, innocui, perfino essenziali (come sovranità, diritti umani, legge internazionale, stabilità, ecc.) siano coperture per azioni di risentimento calcolatore. In verità, che cosa se non una simile crisi potrebbe spingere al ritrovamento del segno originario? In tali condizioni, l’articolazione dei confini che distinguono e relazionano la scena originaria e l’evento fondatore di una data comunità divengono l’occasione per una ricostituzione dei confini che delineano il potere e la responsabilità, la virtualità e l’indessicalità, e altri che necessariamente seguono. È proprio la rarità delle istituzioni autocoscienti della propria libertà, che contrasta con il tipo di continuità a lungo termine e visibile evoluzione delle relazioni di scambio, che forse ha contribuito a rendere il politico così marginale rispetto al pensiero originario (a eccezione di quel che può essere assimilato allo scambio). Ma perlomeno nella misura in cui certi salti drammatici nell’evoluzione culturale richiedono che noi giustifichiamo quei poteri interni ad ogni comunità che si pongono a tutela del confine tra l’interno e l’esterno, dobbiamo spiegare il politico in modi che aumentano la nostra comprensione della scena originaria e della essenziale derivazione da essa di tutte le categorie culturali durevoli.

 

L’approccio di Brin, che ad ogni stadio unisce il paradossale e il pragmatico, affronta inoltre il processo più individualizzato della creazione di distinzioni all’interno della cultura. La sua impostazione politica conduce Brin a privilegiare inequivocabilmente la libertà sulla privacy: la libertà è il concetto privilegiato perché se perdiamo la nostra libertà non avremo più alcun modo di tutelare la nostra privacy, mentre finché noi manteniamo la nostra libertà potremo essere in grado di escogitare dei mezzi collettivi per preservare una zona di privacy. Ciò che questo implicherebbe, entro il quadro della “sorveglianza vicendevolmente assicurata”, è l’evoluzione, questa volta in forma deliberata e aperta, di norme culturali riguardanti il lasciarsi reciprocamente soli—anche di più, questo ci impegnerà tutti in ricerche antropologiche riguardanti i beni centrali ed essenziali in quanto opposti a quelli apparenti e secondari della privacy (e di altre categorie): a quale bisogno umano, esattamente, va incontro il nostro desiderio di privacy? Senza un modello politico, tuttavia, simili distinzioni diverrebbero di gran lunga più arbitrarie, e si dimostrerebbe impossibile la formulazione dei nessi virtualità/indessicalità o potere/responsabilità che trasformano gli opposti metafisici in paradossi pragmatici risolubili.

 

Non ci sorprende che Brin abbia risposto all’undici settembre con una riflessione insieme pragmatica e ispiratrice, insieme patriottica ed universalistica. Applicando una delle sue argomentazioni centrali di The Transparent Society, smontando l’assunto che vi debba essere uno scambio tra sicurezza e libertà, e utilizzando una delle sue immagini privilegiate, quella dell’aficionado impegnato o T-cellula sociale, Brin mette in luce il fatto che gente comune armata delle invenzioni e dei valori caratteristici della nostra civiltà è stata di gran lunga più efficace delle istituzioni ufficiali gerarchiche o degli esperti:

 

  • Gran parte dei video che abbiamo visto sull’undici settembre sono stati girati da privati cittadini, ciò che potrà costituire un elemento potenzialmente cruciale in emergenze future.
  • I telefonini privati hanno diffuso le comunicazioni più rapidamente dei mezzi ufficiali.
  • Sui luoghi dei disastri si sono precipitati volontari in massa. Le autorità locali hanno ben presto tralasciato ogni comune preoccupazione circa la loro affidabilità e professionalità al fine di poter utilizzare ogni braccio disponibile.
  • Nel momento stesso in cui si diffondono voci, falsi allarmi e teorie della cospirazione, il ruolo di smontare le falsificazioni ricade quasi interamente su siti web privati.
  • Cosa più importante di tutte—le sole azioni efficaci intraprese quel giorno contro il terrore sono state quelle sul volo United Airlines 93 da parte di individui armati di sagacia e strumenti di comunicazione—e con una missione—completamente al di fuori dei canali ufficiali.
  • Sto forse suggerendo che i privati cittadini si accollino il duro compito della punizione che fin qui ricadeva sulle forze armate? O il ruolo dei servizi segreti nello stanare le cellule terroristiche? O la responsabilità del governo e degli organismi pubblici nella sicurezza della collettività? No, ovviamente!
  • Quello che sto dicendo è che gli eventi dell’11 settembre indicano una tendenza ad un continuo accrescimento dei ruoli dei cittadini nella società del XXI secolo—una tendenza esattamente opposta a ciò che abbiamo osservato nelle ultime generazioni, in cui l’amministrazione di ampie zone della vita quotidiana sono state assunte da figure professionali, specialmente la riduzione del pericolo.

(http://www.futurist.com/portal/future_trends/david_brin_empowerment.htm)

Ora, questa esposizione ovviamente tralascia esplicitamente l’applicazione dei principi di Brin in quelle aree in cui le tradizionali gerarchie e norme di segretezza potrebbero essere centrali per il duro compito della punizione. E questa potrebbe essere un’eccezione piuttosto vasta da concedere. Ma proviamo ad usare l’approccio di Brin per riflettere su di un tema che lancia un ponte tra il regno del vittimario ed il post-millenniale: il profilo razziale o etnico. Gli attivisti dei diritti civili negli USA sono passati direttamente (e preventivamente) dalle loro obiezioni al profilo razziale degli Afroamericani alla collocazione del profilo di arabi e musulmani sotto lo stesso tabù (da “guidare l’auto anche se nero” a “volare anche se arabo”). A parte l’appropriatezza dell’analogia, il problema qui è reale: l’applicazione delle conoscenze socio-scientifiche alla prevenzione del crimine e del terrorismo (che può implicare il raggiungimento di conclusioni probabilistiche circa l’associazione di certe categorie della popolazione con certe classi di attività) ha per lo meno il potenziale di infrangere gli assunti di eguaglianza universale e di presunzione di innocenza.

 

La risposta ovvia, tuttavia, è che il rifiuto di usare qualsiasi conoscenza possa accrescere la sicurezza collettiva non solo è totalmente irresponsabile ma è anche impossibile: anche senza statistiche, il delineare dei profili è parte del formulare giudizi e decisioni al livello del senso comune. Il vittimario raggiunge chiaramente i suoi limiti al punto in cui per essere scrupoloso un poliziotto debba cancellare il ricordo di essere intervenuto per dozzine di furti in un quartiere contro una o due in un altro. E le obiezioni diventano ancora più assurde quando ci si rende conto che l’uso universale del profilo fa parte della crescita della trasparenza (come sa chi ha comprato un libro su amazon.com e in seguito riceve suggerimenti circa “altri libri che potrebbero interessarLa”—e questo esempio suggerisce l’idea che, lungi dal contraddire le tendenze all’individualizzazione, il profilo è in sintonia con esse). Quel che Brin ci fa vedere, tuttavia, è che questo doppio legame non è necessariamente un gioco a somma zero. Esso può altrettanto facilmente condurre a nuove forme di dialogo (inevitabilmente asimmetrico), come la diffusione di pubblica informazione porta a ulteriore trasparenza (autoesame, dibattito) all’interno delle comunità. Ecco l’uso di meccanismi di trasparenza per far rispettare il confine tra sorveglianza e interrogatorio da un lato, e maltrattamento non necessario, arresto e incriminazione ingiustificati dall’altro. Ecco anche l’esame cui sono sottoposte le sesse categorie necessariamente fallibili, che spesso deve evidentemente essere avviato da coloro che esse distinguono. In altre parole, il profilo è solo una parte del più ampio processo, tanto faticoso quanto liberatorio, mediante il quale ognuno diviene un segno.

 

Inoltre, se noi seguiamo l’argomentazione di Harris, l’approccio di Brin ci consente di formulare una strategia ed una richiesta nel confronto con i nostri nemici: noi stiamo tentando di renderli trasparenti (i loro flussi di denaro, i loro legami politici con vari stati e servizi segreti, le gradazioni tra le espressioni ideologiche di simpatia, più o meno sottili, e le cospirazioni e finzioni reali) e insistiamo, come definizione della vittoria sulla necessità che le società da cui emerge il terrorismo islamico si rendano trasparenti. In altre parole, Brin ci consente di formulare richieste di trasformazione democratica e di supporto alle tendenze civilizzatrici in termini pragmatici: il problema più grave con società che, nei termini di Harris, rimangono dedite alla violenza interna, è che per coloro che ne sono fuori non v’è alcun modo di fare ragionevoli previsioni su quello che esse potrebbero fare domani.

 

Un excursus su Charles Sanders Peirce

 

Ho già identificato le tendenze rappresentate dagli scrittori che ho discusso in quanto pragmatici, suggerendo che questo approfondisce quello che hanno in comune con l’antropologia generativa—e ho già iniziato a far uso della semiotica di Charles Sanders Peirce. Io vorrei rendere più rigorosa questa connessione e fornire una base per concludere la mia riflessione svolgendo una breve argomentazione mirante a fare di Peirce un elemento più canonico all’interno del pensiero originario. Gans paragona Peirce e Saussure nell’ottica dell’antropologia generativa in Signs of Paradox, trovando che Peirce è in grado di afferrare soltanto l’orizzontale (relazioni segno-referente) mentre Saussure “non vede nel segno altro che la verticalità” (p. 14). In questo caso i loro limiti sono complementari, ma mi sembra che noi possiamo vedere, e per ottime ragioni (sopra tutte per il fatto che ciò che distingue davvero il segno è la verticalità), una forte preferenza di Gans nei confronti di Saussure. Ma vorrei esporre una tesi a favore di una più forte appropriazione della semiotica di Peirce, per due ragioni: anzitutto, la semiotica di Peirce è molto più facilmente riportabile ad una comprensione scenica del linguaggio rispetto a quella di Saussure, e in secondo luogo la triade di Peirce icona/indice/simbolo potrebbe essere fatta corrispondere piuttosto strettamente a quel che Gans rintraccia nello sviluppo del linguaggio dall’ostensivo all’imperativo al dichiarativo finale[4]. In apparenza, l’icona, un segno che rappresenta mediante la sua somiglianza all’oggetto, è molto differente dal gesto ostensivo: la somiglianza deve giungere ad uno stadio di sviluppo molto più tardo. Se tuttavia noi accostiamo la triade semiotica di Peirce alla sua distinzione dei tre modi di essere primarietà, secondarietà e terziarietà, emergono nuove possibilità.

 

La primarietà è una percezione diretta, la pura presenza di una qualità prima che essa possa essere separata dalla cosa o dall’evento che sono esperiti: “uno stato che finché dura è presente nella sua interezza in ogni momento del tempo” (p. 82). La secondarietà è una relazione, o collisione, tra due oggetti separati, l’elemento della mutazione, della lotta, “vicissitudine” (p. 88). La terziarietà è l’interscambio regolato tra la mente e il mondo o, si potrebbe dire, la generazione di nuove e ampliate relazioni primarietà/secondarietà e relazioni tra relazioni. Ora, è abbastanza chiaro che l’indessicalità è prossima alla secondarietà, e il simbolo alla terziarietà (dal momento che il simbolo, ovvero il segno convenzionale, assume il suo significato mediante la sua prevedibilità e ripetibilità in nuove relazioni), mentre pare meno chiaro l’accostamento dell’icona, che sembra presupporre due oggetti separati, uno dei quali assomiglia all’altro, alla primarietà. Ma se noi consideriamo che la primarietà e la secondarietà possono essere distinte all’interno del simbolico soltanto retroattivamente e ipoteticamente, e debbono essere simultaneamente presenti come implicite precondizioni di ogni significazione, allora il segno iconico è semplicemente il modo in cui la primarietà appare ad un altro (e pertanto anche a sé stessi come ad un altro, in quanto spettatori della propria esperienza) nel solo modo in cui può apparire ad un altro—in quanto indicizzato dall’individuo che sperimenta la primarietà: esattamente nello stesso modo in cui qualsiasi persona emetta il gesto ostensivo sia ha una relazione senza precedenti all’oggetto, sia rappresenta quella relazione agli altri (con la rappresentazione che è infine la relazione). La prima persona, il significante primario, che emette il segno è, allora, il primo segno iconico, somigliante a una particolare relazione all’oggetto (la rinuncia). Ne seguono due implicazioni che a mio modo di vedere sono entrambe altamente produttive per il pensiero originario: in primo luogo l’emittente di qualunque segno è nello stesso tempo un segno iconico, nella sua relazione indessicale sia all’oggetto che ai destinatari, conferendo coerenza al segno effettivamente emesso. In altre parole, il primo segno, e qualsiasi segno, funziona o si regge per il fatto che l’individuo che lo emette lo garantisce: in aggiunta al significato proprio di ogni segno viene significata anche l’attendibilità della persona che lo emette. In secondo luogo, questo arruolamento di Peirce ci mette in grado di rinforzare l’affermazione che ogni segno è intrinsecamente ipotetico, dal momento che il segno iconico secondo Peirce è la fonte delle ipotesi[5]. La mia linea argomentativa porta a concludere in primo luogo che la lezione del pensiero originario per la riflessione sull’undici settembre è che il processo mediante il quale l’attività di ciascun individuo è resa autoriflessivamente iconica deve essere approfondito e accelerato; e in secondo luogo che una teoria della politica propriamente generativa consiste nel concettualizzare specifici modi pubblici di attività iconica, o più precisamente di attività iconica indicizzata dalle articolazioni potere/responsabilità. Al fine di portare a termine il mio discorso, e giungere ad una conclusione più direttamente politica, vorrei che il pensiero dell’undici settembre assumesse una dimensione necessariamente post-sacrificale. Ovvero, noi dobbiamo avere le risorse concettuali per vedere i nemici come nemici, per mettere a fuoco, quando è necessario (e sapere anche quando è necessario), precisamente quella qualità che li rende nemici. Dobbiamo concepire degli esperimenti di pensiero intorno a quale rivendicazione avanzata da altri li renda inconciliabili al 100%, li renda Amalek, la qual cosa richiede che si presupponga che il nemico rappresenti, come sostiene Harris, una categoria permanente dell’esperienza umana. E nel contempo—come risultato di questa designazione senza compromessi—dobbiamo individuare modi di agire come se, o rappresentanti la possibilità che, il nemico con cui ci confrontiamo oggi potrebbe essere l’ultimo per sempre, infine una fonte di conoscenza antropologica e auto-conoscenza e nello stesso tempo un problema strettamente tecnico. Imporre a noi stessi questo doppio legame richiede che noi ci opponiamo ai segni di unità che misurano il valore delle azioni secondo l’accumulo di vittime santificate. E questo richiede una sacralità secolare, che deve essere essa stessa  il fondamento di un’etica mimetica che sia in grado, eticamente ed epistemologicamente, di scoprire e contrastare l’evidenza di quello che ho chiamato iper-mimetismo: la crisi mimetica nelle condizioni contemporanee, in cui una stretta aderenza all’etica mimetica può sfociare nell’incommensurabilità di virtualità e indessicalità, potere e responsabilità, poiché le capacità tecnologiche di rispondere antagonisticamente all’altro eccedono il quadro temporale richiesto per valutare la retroazione relativa agli effetti di risposte precedenti, così che azioni e contro-azioni possono soltanto essere modellate nell’assenza di indici. L’esempio più ovvio, naturalmente, è dato dalla deterrenza, o politica della distruzione reciprocamente assicurata, che ha mantenuto l’equilibrio della Guerra Fredda. In simili condizioni, princìpi come quello della proporzionalità della risposta diventano una sciocchezza: una volta che si sia fatta la prima mossa, tutte le mosse susseguenti sono essenzialmente arbitrarie. Vorrei proporre l’idea che la supremazia degli Stati Uniti ci fornisce l’occasione unica di prevenire l’emergere della simmetria tra grandi potenze che conduce inesorabilmente all’iper-mimetismo. E queste condizioni a loro volta forniscono un ombrello sotto il quale potrebbero emergere delle autentiche e pragmatiche norme internazionali.

 

Il sacro in un’era post-sacrificale

 

Torniamo alla affermazione di Gans circa le basi teistiche dell’attentatore suicida, dicendo che noi potremmo, in particolare per poterci confrontare perfino (o specialmente) con tale fenomeno alla luce della reciprocità umana, vedere atti del genere come un modo di resistenza al prevalente umanesimo di una società di mercato pienamente sviluppata. La mia risposta era essenzialmente che noi allora dobbiamo far fare alla cosa un passo in avanti. Prima di tutto, l’attentatore kamikaze può plausibilmente essere visto come una riduzione dell’umanistico al teistico, ma nondimeno come un’articolazione dei due: l’attentatore suicida è un segno di tale resistenza, e come tale eminentemente scambiabile. L’esempio che ho fornito in precedenza era quello della trasformazione dei terroristi suicidi in celebrità all’interno dei Territori palestinesi; si potrebbero ugualmente citare le t-shirt con la faccia di Osama Bin Laden, o le scaltre tecniche sensazionalistiche di Al-Jazeera.  Una parte del mio intento qui è indicare quanto normale sia il processo di produzione di terroristi kamikaze: in esso vediamo elementi assai familiari, come la pressione esercitata dai compagni, la preoccupazione per la situazione finanziaria della propria famiglia, il desiderio di vendetta, l’idolizzazione, e così via. Sicuramente l’antropologia generativa tanto quanto qualsiasi altra linea di pensiero ci rende scettici circa le pretese di resistere assolutamente al mercato, e ci dispone a vedere tali pretese come modi di prepararsi alla partecipazione al mercato[6]. È tuttavia chiaro che una siffatta preparazione non è quel che sta accadendo qui—questa articolazione del teistico e dell’umanistico deve essere compresa diversamente. Qui è schiettamente privilegiato il teistico, ma in un modo che è inseparabile da una relazione parassitaria e distruttiva all’umanistico. L’intento non è quello di sottrarsi allo scambio, oppure di aprire degli spazi ove un simile sottrarsi sia possibile, o anche di entrare nei circuiti dello scambio nel modo minimo indispensabile per portare avanti dei progetti pratici: piuttosto è quello di dimostrare che i mezzi e i prodotti del sistema di scambio possono essere indirizzati a finalità nemiche del sistema stesso. Questo vuol dire introdurre il dubbio entro ogni atto di scambio e significazione, e senza figure iconiche a sostenere i segni è difficile vedere quali potrebbero essere i limiti alla vulnerabilità del sistema di scambio. Così, per portare il punto di vista di Gans ancora più in là, non dovremmo noi accogliere da questa visione del nostro stesso sistema che ci è fornita dal terrorismo globale il suggerimento che forse un’altra modalità di articolazione dell’umanistico e del teistico deve essere l’antidoto—una modalità in cui il teistico, il verticale, è apertamente reso generativo mediante l’orizzontale, la proliferazione dei segni? Non mi riferisco ad un revival religioso (alla nuova strumentalizzazione della religione). Per ritornare ancora una volta al mio emendamento alla scena originaria, se la scena è completa solo una volta che il segno torni al significante primario che lo imita e quindi certifica la sua ripetibilità, cioè se la scena è marcata dalla sua contingenza, allora noi abbiamo un modello del problematico emergere della scena mediante il divenire-segno (iconico) del significante primario e la reimmersione del significante nella comunità. Questa articolazione della scena, tuttavia, implica che il contagio mimetico abbia un’apertura in cui si dispiegano segni apparentemente innocui prima che chiunque possa esprimere la differenza. È precisamente in questo momento—che diviene, nel segno compiuto, prendendo  a prestito l’espressione da Peirce, un “istante infinitesimale”—tra “emissione” e “reimmersione” che il segno è vulnerabile alle appropriazioni feroci che pretendono di rappresentare la comunità come un aggregato di risentimenti.

 

Come ho proposto precedentemente nella mia discussione di Peirce, il segno iconico può essere visto come un’iterazione dell’ostensivo. Questo avviene per il fatto che esso rappresenta l’esistenza simultanea del segno per tutti quelli che lo usano. Un modo in cui potremmo comprendere questo è rappresentarci il significante iconico primario come quello che cancella, col comune consenso, l’istante infinitesimale tra l’emissione e la reimmersione: in altre parole, un’asserzione implicita che il confronto emergente col contagio mimetico non è mai accaduto, che ognuno ha compiuto il gesto esattamente nello stesso tempo. Andrei tanto in là da suggerire che è del tutto impossibile evitare questo modo di rappresentare la scena—in condizioni normali, tale rappresentazione servirebbe allo stesso scopo del segno originario stesso, così una condanna della sua ipocrisia è ovviamente fuori luogo.

 

Tuttavia, l’altro modo di esprimere l’iterazione dell’ostensivo da parte del segno iconico è come rappresentante simultaneamente il gap tra emittente e destinatario, produttore e consumatore. Questo implicherebbe una dimensione apertamente auto-riflessiva che si appella esplicitamente al destinatario per destare la fede necessaria per ritrovare, preservare e migliorare quel segno: essere convertiti noi stessi in segni iconici. Questa è una forma secolare di sacralità della quale, almeno secondo la mia esperienza, certi scrittori postmoderni e innovativi hanno dato la testimonianza più efficace[7]. Ed essa ci fornisce un criterio per mantenere, se non sfere separate, almeno (e meglio, a mio giudizio) una distinzione tra gli elementi di cultura alta e di cultura popolare. Se dal punto di vista storico, come ha detto Gans, mentre la cultura popolare ci porta ad identificarci con la folla linciatrice, la cultura alta ci schiera con le vittime e di qui instaura un modo universale di reciprocità, noi forse potremmo, entro un quadro post-sacrificale, emendare ciò nel modo seguente: la cultura popolare ci ricorda che noi tutti abbiamo preso parte alla scena originaria, mentre la cultura alta ci ricorda che la scena non è ancora stata portata a compimento, e che ora tocca a noi. Quella che chiamerei scena originaria uniforme (tutti noi abbiamo significato, letteralmente, esattamente nello stesso momento) è abbastanza vera e va abbastanza bene per la maggior parte delle esperienze sociali. Quella che potremmo chiamare scena varia (imitazione scaglionata e ritorno all’emittente del non-ancora-divenuto-segno), che io identificherò, in modo forse non sorprendente, con la scena disciplinare, diviene prevalente in circostanze più critiche. Solo la scena varia possiede un meccanismo di trasformazione che può sia retroagire con gli scambi piatti della vita di ogni giorno sia distaccarsene. Di più, a questo punto della storia non vi è alcuna ragione per cui noi non possiamo promuovere con successo delle relazioni amichevoli tra gli abitatori delle due scene (e, ovviamente, tutti noi risiediamo, in momenti diversi, in entrambe le scene). Piuttosto che adottare un approccio di tipo missionario, critico e demistificatorio alla scena uniforme, noi possiamo operare con la fede che anche le tracce segniche più appiattite dell’origine sacra della significazione possano essere recuperate e articolate.

 

Ancora, quest’operazione può essere effettivamente realizzata, e con la consapevolezza del fatto che la scena uniforme ha dimenticato quello che è ricordato dagli efferati—il confronto originario col contagio mimetico. E per questo abbiamo bisogno di una teoria generativa del giudizio: giudizio nel senso che dobbiamo essere capaci di distinguere tra il contagio mimetico e la scena uniforme che lo ha dimenticato, e nel più ampio senso prudenziale che non è sempre ugualmente urgente insistere su questa distinzione. Se la scena uniforme è abbastanza vera e va abbastanza bene il più delle volte, vi sono dei casi in cui non è abbastanza vera e non è adeguata quando vi sia una posta in gioco.

 

Una lettura iconica dei fenomeni culturali—leggere ogni cosa come se fosse una esemplare e consapevole rimessa in atto della scena originaria—sarà benevolmente satirica in modi che in una cultura postmoderna producono miglioramento e ricircolo nella inoffensiva scena uniforme, funzionando contemporaneamente come spietata esposizione dei tentativi mascherati di far implodere quella scena. Mettere in luce i modi in cui lo jihadismo ha generato una modalità di circolazione culturale che ha ulteriormente e radicalmente degradato i peggiori elementi della cultura popolare americana ci consente di smantellare senza compromessi le sue pretese teistiche, opponendo ad esse con forza le nostre stesse rivendicazioni del sacro.

 

Ho iniziato questo saggio esprimendo la speranza di contribuire al pensiero iconico come disciplina, e sono giunto ad un principio centrale del pensiero dell’ undici settembre: rappresentare sé stessi e ogni altro iconicamente, e aiutare a creare le condizioni in cui gli individui possano circolare in quanto segni iconici, e testi, pratiche e istituzioni possano essere indicizzate mediante segni iconici. Questo comporta una restaurazione della scena mimetica come principio organizzatore della civiltà, ma senza rappresentazioni esterne (cioè metafisiche) di quella scena: piuttosto, le rappresentazioni di qualsiasi scena sono esse stesse costitutive di un’altra scena: una scena disciplinare interessata alla giocosa contemplazione dei segni che è insieme il deliberato ritrovamento della scena della loro produzione. Ed è precisamente su questa scena disciplinare—lo sviluppo più alto della scena originaria, poiché emerge dalla crisi mimetica, e dal bisogno che la comunità ha di segni che siano simultaneamente veritieri e conciliatori— che quando i segni diventano problematici ognuno appare immediatamente come segno.

 

In sostanza, evidenzio l’interdipendenza di due tipi di attività civilizzatrice: l’accresciuta capacità di assumere un interesse disinteressato ai segni—di qualsiasi genere, poiché l’interesse li trasforma comunque—con un’attenzione particolare ai segni di contagio mimetico, ed una determinazione a presentarsi con forza come icone della civilizzazione di fronte ad essi. Quel che ciò implica su di un piano più pratico è un riconoscimento esplicito che precisamente la diffusione e il lavoro in rete di attività non ufficiali (dilettantistiche) svolte, infine, per puro amore dell’inventività, dell’improvvisazione, dell’esibizione di sé, della sperimentazione, della scoperta… sono la più grande fonte della potenza economica, politica e militare impiegata contro i nostri nemici (e forse la principale fonte dell’impazienza nei confronti dei discorsi vittimari). E quello che potrebbe tenere insieme tutti i nuovi modi di produrre, trasmettere, inabitare, e articolare i segni è ciò che potremo chiamare l’immaginazione scenica: costituire una singola scena è un modo di sottoporre ad esperimento un’ipotesi generata in una scena precedente, mentre la descrizione della propria azione in quella scena diventa un segno attorno al quale si raccoglie una nuova scena, che a sua volta genera una nuova ipotesi…

 

Questa modalità di pensiero si pone a diretto confronto con le forze che guidano oggi il contagio mimetico, che io riferisco alla immagine del mondo dei diritti umani. Questa è l’immagine del mondo dipinta da coloro che sono immersi nel modello di relazioni sociali carnefice/vittima/spettatore: il privilegio epistemologico è garantito alle vittime seriali dei normali. Intendo normale qui in entrambi i suoi sensi: come il risultato stabilizzato della vasta interazione dei fattori mimetici che alla fine riducono gli orientamenti accettabili ad un numero limitato, e come la valorizzazione di tali risultati (ovvero, la consueta affermazione implicita che non si tratta soltanto di una media statistica) come norma etica. Il progetto, di enorme successo, del discorso vittimario postbellico è stato quello di rappresentare la normalità come una serie di attacchi nascosti (e perciò tanto più violenti) alla differenza (come possiamo vedere nelle rappresentazioni che demonizzano gli anni Cinquanta o i sobborghi in quasi ogni film hollywoodiano). Naturalmente, come sostiene Brin, questo è stato un progetto necessario in quanto ci inculca l’idea molto produttiva che possiamo essere individui solo nella misura in cui siamo unici e sospettosi dell’autorità.

 

E dovremmo anche riconoscere che l’immagine del mondo dei diritti umani è plausibile finché noi accettiamo ciò che a sua volta era plausibile nelle condizioni iper-mimetiche della Guerra Fredda: che l’immensa capacità distruttiva delle armi nucleari significava che il mimetismo stesso (modellare le proprie azioni su quelle del rivale) avrebbe condotto inevitabilmente ad una violenza indicibile e quindi doveva essere prevenuto.  Ovvero, noi possiamo collocare anche il vittimario entro la scena originaria, col suo intento che è quello di rendere permanente l’emergenza che stimola il gesto originario—cioè di rendere il gesto, con tutta la sua rischiosità e generatività, non necessario, e quindi (dato che comunque esso viene offerto) complice esso stesso di quella violenza che esso semplicemente rende meno invisibile. Il problema, ovviamente, è che il quadro (come ogni stato di emergenza perpetua) è completamente circolare ed intrinsecamente non falsificabile e parassitario: secondo la sua logica antinomica, tanto più gli assunti egalitari su razza, genere, sessualità… prevalgono in superficie, tanto più profonda e quindi pericolosa deve essere la violenza. (O in quella che è essenzialmente una versione rovesciata della stessa logica, solo mantenendo e intensificando la resistenza queste conquiste possono essere protette contro le orde maccartiste che non aspettano altro che l’occasione per schiacciare tutte le differenze). Intanto, occorre dire che il differimento della violenza può apparire simile alla paralisi delle istituzioni rappresentative, ma in effetti è molto differente. Ed è solo nella forma di tale paralisi (portata alle sue conclusioni logiche, ogni parola o gesto dovrebbe essere ripulito delle sue conseguenze vittimarie prima di essere espresso, ma questo a sua volta richiederebbe un insieme impermeabile di regole ad amministrare questa ripulitura, e regole che ci assicurassero circa la purezza delle regole, ecc.) che i discorsi vittimari potrebbero effettivamente essere istituzionalizzati.

 

E tanto più nascosto e insidioso è il normativo, altrettanto pervasive e libere devono essere le resistenze, motivo per cui il quadro del mondo dei diritti umani è una perfetta alleanza di diffusori di contagio mimetico: tali diffusori debbono esistere, dopo tutto, e, perversamente, tanto più la loro azione è arbitraria tanto meglio. Richieste provenienti da qualche fonte determinabile cui si potesse rispondere in modo trasparente condurrebbero la resistenza a giustificare, contro la sua volontà, lo status quo: le richieste sarebbero limitate, finendo per legittimare il sistema. Quindi noi abbiamo lo scenario spasmodico di nemici che quasi sembrano voler far di tutto per provare di essere malvagi, perfino nel senso più trito, da cartoni animati del sabato sera, in compagnia di dissidenti nella nostra stessa società che sono costretti a velare parti sempre maggiori della realtà per poter evitare di denunciarli senza equivoci. Su questo punto è chiaro l'estremismo iperbolico di molti che a sinistra si oppongono alla guerra—non basta dire che Bush ha commesso degli errori, che è andato troppo oltre, o che ha ingannato (tutte cose che lascerebbero aperta la questione se egli abbia fatto alcune cose giuste, sia stato meno menzognero su certi punti, ecc.): egli deve essere il peggiore presidente di tutti i tempi, incapace di pronunciare una frase sincera, "che conduce la politica estera più disastrosa degli ultimi 200 anni", "calpestando i diritti civili", "distruggendo la Costituzione" e così via. Un tale linguaggio è necessario per evitare di affrontare il fatto (paradossalmente per i sostenitori della differenza) che là fuori vi sono degli altri, con interessi e ragioni loro, ed anch'essi stanno dando forma a quella realtà a cui anche noi rispondiamo—questi altri non sono semplici accessori per inscenare una critica postmoderna.

 

In questo contesto, vorrei concludere su di un piano politico più immediato, con una difesa dell'invasione dell'Iraq e dell'abbattimento del regime di Saddam Hussein come atto calcolato per la restaurazione di corrette relazioni tra il mimetico e il generativo. (Come minimo, questo atto può e deve essere appoggiato, e la sua logica estesa per questi motivi). In contrasto con le caricature grottesche fatte dal movimento contro la guerra (che ancora non è arrivato, e forse non vuole arrivare, ad una narrazione coerente, come dimostra l’abborracciato Fahrenheit 9/11 di Michael Moore), il problema dell’Operazione Iraqi Freedom è precisamente il fatto che essa è troppo stratificata e ha troppe finalità (e questo è il motivo per cui la tendenza—esagerata ma reale—dell’Amministrazione a ridurla alla questione delle armi di distruzione di massa è stata un grave errore). In realtà, l’assunto acritico (che costituisce anch’esso un indicatore della potenza del quadro del mondo dei diritti umani) per cui la guerra può essere giustificata soltanto o in termini di autodifesa immediata (il nemico sbarca sulle nostre coste) o come operazione eccezionale, sulla base di un mandato giuridico con un retroterra transnazionale imprecisato, ci ha resi totalmente impreparati perfino a porre una discussione sulla guerra nei termini necessari. L’Operazione Iraqi Freedom ha completato la prima Guerra del Golfo ed è anche intervenuta progressivamente a fianco delle forze che rappresentano un futuro decente per i mondi arabo e musulmano. Essa ha rimosso un’accusa primaria avanzata dai terroristi (la presenza di truppe USA in Arabia Saudita) assumendo una posizione di offensiva contro le forze jihadiste. Ha rappresentato un passo avanti nel modo umanitario di fare la guerra dimostrando la possibilità di colpire i gangli centrali di un regime tirannico e risparmiare largamente la popolazione civile e ha confutato la convinzione (che aiuta l’arruolamento di terroristi islamici, ed è in effetti un punto cardine della loro analisi del loro nemico) che gli Americani possano combattere solo dall’alto. Essa riprende l’antica distinzione tra repubbliche e tirannie (un elemento centrale nella cultura mimetica) collocando l’onere della prova dalla parte del tirannico (e reticente) stato iracheno, ristabilendo nel contempo la distinzione tra civile e militare erosa dalla guerra totale, dalle guerre anti-coloniali, dalla deterrenza nucleare ed ora dal terrorismo globale. Ha ampliato l’ambito della guerra al terrorismo al di là di quello strettamente legalistico col far dipendere la nostra vittoria dalla solidarietà liberamente scelta dei popoli della regione. Infine, essa ha offerto a coloro che aderiscono al quadro del mondo dei diritti umani una realtà ben solida che si avvicina moltissimo alla possibilità di conferire ai loro assunti una qualità verificabile: il quadro manterrebbe qualche praticabilità epistemologica ed etica se i suoi aderenti potessero trovare un modo per sostenere sinceramente la costruzione di un Iraq stabile e democratico coerentemente con la loro denuncia dell’illegittimità delle azioni americane. (Fino a questo momento non ne ho visto neppure il tentativo). Nel complesso, l’invasione dell’Iraq sostituisce scene reali (con dramatis personae le cui interazioni possono essere mappate, misurate, collocate entro una narrazione) a scene virtuali (gli USA imperialisti servi dei petrolieri controllati da neo-conservatori ebrei contro… chi esattamente?). Come suggerisce Lee Harris, e per usare un linguaggio perceano, essa introduce fattualità nella situazione: “Una duplice coscienza dello sforzo e della resistenza” (Buchler, p. 76)[8]. L’anello mancante nella politica dell’amministrazione Bush è stato la mancata incorporazione dell’icona che ho discusso in precedenza (e questa è stata in realtà una mancata fiducia in quella che era stata apparentemente l’intuizione originaria di Bush, che lo aveva portato a fare di “let’s roll” [muoviamoci! – il grido di uno dei passeggeri dell’aereo dirottato l’11 settembre che si ribellarono – nota del trad.] il suo motto per la guerra annunziata), e sulla quale Brin ha incentrato la sua argomentazione: l’eroismo del Volo 93 e le sue implicazioni per una cittadinanza più auto-riflessiva e autonoma che può essa stessa essere integrata come fattore nella guerra, e la cui trasformazione in corso è di fatto parte della guerra. Ma l’opera di universalizzazione di modi di auto-riflessività iconica programmata per essere allergica al contagio mimetico è opera della cultura non meno che della politica. Un pensiero dell’undici settembre deve mirare a facilitare letture dei testi e delle istituzioni contemporanee che trovino in essi tracce secolarizzate del segno originario (o ne mostrino l’assenza): una sacralità che è contemporaneamente generativa, che volge il ritrovamento del segno originario in nuovi centri intorno ai quali nuove scene si condenseranno. Ed io spero che il mio contributo a tale pensiero sia stato un ragionamento sul (o nel) pensiero originario che rinforzi i suoi assunti centrali mostrando come essi siano indispensabili per gli spazi disciplinari del dopo undici settembre. Entro questo ragionamento, ho tentato di introdurre le seguenti questioni, e forse anche entro un certo limite dei dissensi, nel pensiero originario:

 

  • Come questione di metodo, la necessità di inflettere ponendo retroattivamente un processo subordinato di differenziazione entro la (culminante nell’omogeneità della) scena originaria al fine di articolare una tesi verificabile entro l’antropologia generativa.
  • Un tentativo di sollevare il profilo della politica, come insieme di azioni iconiche che indicizzano articolazioni di potere/responsabilità e virtualità/indessicalità, come elemento autentico della scena della rappresentazione.
  • Un aiuto a rendere, come propone Gans in The End of Culture, le scienze umane veramente efficaci come nuova alta cultura, formulando la questione della disciplinarietà dell’antropologia generativa in termini derivabili dalla scena originaria.

 

Opere citate

 

Brin, David, The Transparent Society: Will Technology Force us to Choose between Privacy and Freedom?, Addison-Wesley, New York 1998.

Buchler, Justus, ed. Philosophical Writings of Peirce, Dover Publications, New York 1955.

Gans, Eric, Signs of Paradox: Irony, Resentment and Other Mimetic Structures, Stanford University Press, Stanford, CA 1997.

----------, Originary Thinking: Elements of Generative Anthropology, Stanford University Press, Stanford, CA 1993.

----------, The End of Culture: Toward a Generative Anthropology, University of California Press, Berkeley/Los Angeles/London 1985.

----------, The Origin of Language: A Formal Theory of Representation, University of California Press, Berkeley/Los Angeles/London 1981.

Hazony, Yoram, The Dawn: Political Teachings of the Book of Esther, Shalem Press, Jerusalem 2000.

Harris, Lee, Civilization and its Enemies: The Next Stage in History, Simon & Schuster, New York 2004.

Hilberg, Raul. Perpetrators Victims Bystanders: The Jewish Catastrophe. Perennial, 1993.

Katz, Adam. "The Originary Scene, Sacrifice, and the Politics of Normalization in A.B. Yehoshua’s Mr. Mani." Anthropoetics VII no 2, Fall 2001/Winter 2002.

Vlahos, Michael. "The Muslim Renovatio and U.S. Strategy." Tech Central Station http://www.techcentralstation.com/ April 27, 2004.

 

GENERATIVA

 

 

 

 



[1] Penso che si possa vedere in Brin un apporto al progetto che Gans avanza alla fine di Originary Thinking: “Il processo storico della desacralizzazione non opera né mediante l’interminabile decostruzione del centro originario né mediante il suo definitivo rigetto, ma attraverso la sua moltiplicazione onnicentrica. Perfino decentralizzazione è un termine  pericoloso: quel che si richiede è l’universale proliferazione dei centri—ciascun essere umano essendo un centro.

[2] Vedi Katz, 2001/2002.

[3] Gans afferma la priorità e la superiorità del segno sul rituale nell’iterazione della scena originaria nello sviluppo della cultura con maggior insistenza in The End of Culture, ma naturalmente questa priorità è legata alla convinzione gansiana che il mercato moderno (implicante de-ritualizzazione e secolarizzazione) sia il telos della scena originaria. La mia posizione, ovviamente, si accorda completamente con questa visione—suggerisco che simultaneamente esistono delle condizioni del mercato, e in particolare modi di affrontare le minacce al mercato,  che non sono intrinseche al mercato stesso, e possono persino essere oscurate (nel breve periodo—ma il “breve periodo” potrebbe fuorviare il lungo periodo) dal mercato lasciato a sé stesso. In breve, il mercato non può difendere se stesso. In Signs of Paradox, Gans ritorna con intensità al tema del rituale, discutendolo primariamente in termini di pratiche sacrificali e di sparagmos, e mi sembra che qui vi sia qualche percezione dei limiti della deritualizzazione.

[4] Peirce è più facilmente riconducibile ad una comprensione scenica in forza del suo assunto che i segni debbano sempre essere interpretati come costitutivi di una scena di indagine: lo studio dei segni implica “raggiungere conclusioni riguardo a ciò che sarebbe vero dei segni in tutti i casi, purché l’intelligenza che li usa sia scientifica”  (Logic as Semiotic--The Theory of Signs, in Buchler 98). Questo equivale a vedere i segni come prodotti di una scena disciplinare, accentuando il loro carattere ipotetico. Per l’evoluzione delle forme linguistiche secondo Gans, vedasi The Origin of Language, capp. 3-5, e Originary Thinking, cap. 4.

[5] L’icona viene selezionata mediante ciò che Peirce chiama abduzione, la quale è il modo di analisi che, in quanto opposto a induzione e deduzione, è “l’unico processo col quale nel pensiero può essere introdotto un elemento nuovo” (p. 224). Per Peirce “Un’abduzione è un metodo per formare una predizione generale senza alcuna assicurazione positiva che essa si verificherà… la sua giustificazione essendo nel fatto che essa è l’unica speranza di regolare razionalmente la nostra condotta futura” (p. 229). L’occasione dell’abduzione “è una sorpresa… qualche credenza, attiva o passiva, formulata o non formulata, che è appena stata infranta” (p. 287). Viene a noi “come un lampo”, ed è un “atto di intuizione”, per quanto “estremamente fallibile” (p. 227). Infine, nell’abduzione “i fatti suggeriscono l’ipotesi per somiglianza”, cioè iconicamente, perfino “sfumando in giudizi percettivi” (p. 227).  È interessante che Peirce, nel suo A Neglected Argument for the Reality of God descriva l’abduzione come dipendente da uno stato di Divertimento o Puro Gioco, nel quale una contemplazione indisciplinata delle relazioni sempre più intricate e complesse tra i tre modi di essere porta non solo alle ipotesi ma ad una fede nella realtà di Dio in forza del sempre più evidente principio di crescita sottostante alla realtà che tale divertimento deve rivelarci.

[6] Per citare un solo esempio, si vedano le analisi di Romanticismo e Modernismo in Originary Thinking.

[7] Secondo me, il migliore esempio è fornito dalla scrittura innovativa di Ronald Sukenick, il cui progetto estetico io leggerei come un tentativo in corso di ritrovare il segno originario dall’interno delle rappresentazioni proliferanti, orizzontali e piene di risentimento della cultura contemporanea. Conto di scrivere nel prossimo futuro su Anthropoetics qualcosa su questo. Peraltro, anche uno scrittore molto più conosciuto come John Barth può essere compreso allo stesso modo: le costruzioni metanarrative più sofisticate mirano sempre a raggiungere e rimettere in circolo una forma narrativa originaria che è perdurata perché significa la sospensione del risentimento, o amore.

[8] Sull’indulgenza del liberalismo occidentale nei confronti dei produttori e consumatori arabi di ideologie sognatrici dice Harris: “Noi li abbiamo privati di quell’indispensabile senso di realismo che si può conquistare solo cozzando la testa contro quell’oggetto resistente chiamato il mondo reale” (p. 34).