RICORDARSI  DI  AMALEK

 l’undici settembre e il pensiero generativo (I)

Da Anthropoetics 10, no. 2 (autunno 2004 / inverno 2005)

Adam Katz

Department of English
Quinnipiac University
Hamden, CT 06518
Adam.Katz@quinnipiac.edu

Traduzione dall'inglese di Fabio Brotto

 

brottof@libero.it  

 

www.bibliosofia.net

 

Disciplina e discepoli nel pensiero originario

È sensato pensare la nascita del pensiero originario come un evento molto simile a quello dal cui ricupero esso dipende. In effetti, a me sembra che il suo fondatore lo veda esattamente in questo modo: “L’evento unico nel quale la verticalità del linguaggio umano emerge dal mondo orizzontale dell’appetito è un momento di liberazione riattualizzato in ogni successivo atto di rappresentazione. Dobbiamo pensare la nostra unicità, che fino ad ora solo le religioni hanno articolato” (Signs of Paradox, pagina dei ringraziamenti). Dall’opinione di Gans in The End of Culture secondo cui le scienze umane dovrebbero prendere ora il posto occupato dalla cultura alta[1] a questa conferma di un’auto-riflessività scenica, la responsabilità del pensiero originario nella partecipazione al processo che esso analizza e nella sua facilitazione è stata asserita e adottata coerentemente.

Essendo a sua volta un segno, il pensiero originario sarebbe in tal caso un gesto di rinuncia alla posizione vittimaria che Gans pone come centro dell’era postmoderna[2]. Quel che rende possibile il pensiero originario, allora, è precisamente la crisi vittimaria indotta dal pensiero vittimario, ed è un tale gesto che simultaneamente (come nella scena originaria stessa) consente al pensiero originario di significare le pratiche teoretiche e culturali che sono state neglette da coloro per i quali il vittimario costituisce l’orizzonte del pensiero: pratiche che io riunirei sotto il titolo di “generative”, a suggerire l’intrecciarsi di auto-riflessività, relazioni interne, crescita immanente e ipotesi che abbraccia – per citare solo qualche aspetto – pensiero evoluzionista, pragmatismo, intelligenza artificiale, e perfino il fenomeno del blogging in internet.

Ovviamente, come l’antropologia generativa sa bene, simili pretese di originalità fanno di una disciplina a sua volta un bersaglio del risentimento. Il fatto che questo risentimento sia stato fino ad ora del tutto marginale si deve alla posizione marginale occupata dal pensiero originario all’interno dei due mondi altamente polemici della cultura accademica e di quella popolare[3]. Finora si sono interessati ad esso principalmente coloro che sono autenticamente interessati all’antropologia generativa. Una parte della forza del pensiero originario, naturalmente, sta proprio nella sua capacità di dare ragione di siffatto risentimento e di trasformare le risposte al suo stesso emergere in parte del suo oggetto di indagine, ciò che è quel che la rende intrinsecamente disciplinare. Per disciplina non intendo un luogo di indagine organizzato e istituzionalizzato, caratterizzato da metodi e regole di indagine specifici. Antecedente a questo deve essere la stessa comunità dei ricercatori, la cui attenzione comune sia concentrata su un singolo oggetto, con nessun’altra preoccupazione se non quella di definire progressivamente quell’oggetto mettendolo sempre più a fuoco, e di escogitare un vocabolario capace di descriverlo perché derivato dall’oggetto, e di stabilire una storia della disciplina onde la relazione sempre più profonda all’oggetto divenga una serie di azioni entro lo spazio disciplinare. Per metterla diversamente, una disciplina è una scena di indagine ed un segno della comunità più ampia: la sua implacabile indagine su quelle stesse strutture che la comunità preferirebbe ignorare è motivata dall’obbligo di trovare entro la comunità i mezzi per conservarla di fronte ad una crisi.

Penso che una tale concezione della disciplinarietà possa essere ricavata dalla gamma di discipline cui abbiamo accesso, succedutesi nella storia del mondo: dai sapienti rabbini che scrissero il Talmud all’Accademia ateniese, ai padri fondatori d’America, fino ai partiti politici marxisti, alla psicoanalisi e ai vari movimenti artistici moderni e postmoderni. In ciascun caso, da un lato la costituzione della disciplina implica una proliferazione di segni all’interno della disciplina (come ciascuna posizione teorica significa una particolare articolazione della disciplina) e dall’altro la disciplina stessa diventa un segno della società più ampia in cui la scena originaria è simulata. I discorsi esterni vengono tradotti in discorsi interni; è proprio la resistenza del mondo di fuori a confermare la diagnosi costitutiva della disciplina. Ed emerge una politica della disciplina che comporta solidarietà con quegli sviluppi sociali che rendono il mondo intelligibile nei termini della disciplina e in tal modo facilitano la convergenza della disciplina con strutture normative. Le discipline sono esperimenti di pensiero radicali che si confrontano con gli eventi—questo confronto in atto (e tuttavia sempre rinnovabile) è ciò che dà conto della loro generatività.

Si sa che le discipline sono famose per le patologie di tradimento (scissioni), la persecuzione di eretici, la degenerazione in forme di culto, e in quei rari casi di discipline al potere (almeno nella società moderna) le conseguenze sono ben conosciute. Nella misura in cui la disciplina simula e rappresenta di nuovo la scena originaria, si perpetua ovviamente la possibilità che la disciplina ripresenti delle crisi mimetiche anziché risolverle. L’antropologia generativa è un’eccezione nella sua consapevolezza di tali possibilità e quindi nella sua capacità di immunizzare se stessa contro di esse—infine, si potrebbe dire che la potenzialità dell’antropologia generativa di trascendere il destino delle precedenti discipline è una sorta di prova della sua affermazione centrale: l’inesauribilità della scena originaria. In questo saggio cercherò di approfondire  il confronto dell’antropologia generativa con l’evento fondativo post-millenniale, l’undici settembre. Per prima cosa, tuttavia, suggerirò un modo per avanzare simili argomentazioni intra-disciplinari. Vorrei proporre un singolo “emendamento” alla concezione della scena originaria di Eric Gans: l’emissione del segno originario, il gesto di rinuncia attuato nel momento in cui la crisi mimetica minaccia l’esistenza della comunità stessa in un parossismo di violenza generalizzato, è attuato da un singolo individuo nel mezzo della crisi, e gli altri membri della proto-comunità a loro volta imitano e quindi confermano quel segno come segno. Nei suoi termini, mi sembra che questo affini precisamente gli elementi che il pensiero originario mette in opera, come spero di mostrare attraverso una breve analisi di una delle descrizioni della scena, che prendo da Originary Thinking:

…un cerchio di proto-umani, probabilmente dopo una caccia che ha avuto successo, circonda un oggetto che attrae gli appetiti, per esempio il corpo di un grosso animale. Un simile oggetto è potenzialmente il centro di un conflitto, dal momento che gli appetiti di tutti sono diretti verso qualcosa che non può appartenere a tutti… al momento della crisi, la forza della pulsione appetitiva è stata accresciuta dalla mimesi appetitiva, la propensione ad imitare i propri compagni nella loro scelta di un oggetto di appropriazione, fino al punto in cui la gerarchia di dominanza non può più contrastare la simmetria della situazione… Quindi, in violazione della gerarchia di dominanza, tutte le mani si protendono verso l’oggetto: ma nel contempo ciascuno è dissuaso dall’appropriarselo dalla vista di tutti gli altri che si protendono nella stessa direzione. La “paurosa simmetria” della situazione toglie ad ogni partecipante la possibilità di sconfiggere gli altri e proseguire nel gesto fino alla sua conclusione. Il centro del cerchio appare possedere una forza repellente, sacra, che impedisce la sua occupazione da parte dei membri del gruppo, il quale converte il gesto di appropriazione in un gesto di designazione, ovvero in un segno ostensivo. Così il segno sorge come un gesto di appropriazione interrotto, che giunge a designare l’oggetto invece che tentare di catturarlo. Il segno è un sostituto economico del suo inaccessibile referente. Le cose scarseggiano, e di conseguenza sono oggetti di potenziale contesa: i segni sono abbondanti perché possono essere riprodotti a piacimento (8-9)

L’eguaglianza o simmetria della situazione deve essere ciò che consente a ciascuno dei partecipanti di immaginare le conseguenze del proseguire il gesto fino alla sua conclusione: se io afferro l’oggetto il mio vicino farà lo stesso (perché è ciò che farei io se l’afferrasse per primo lui) e—cosa ancor più importante—ad un certo punto qualcuno non solo lo afferrerà insieme con me ma interferirà attivamente e violentemente nel mio tentativo di appropriazione, perché, ancora, ciò è precisamente quello che farei io se fossi in pericolo di essere escluso dal cerchio. Ma noi non possiamo assegnare una tale capacità di previsione ai membri del gruppo—ovviamente, le capacità rappresentative per immaginare un simile scenario non esistono ancora. Ma allora che cosa rende temibile la simmetria, se non il fatto che in qualche punto del gruppo la violenza ha già avuto inizio? E non significa questo che il segno ostensivo allontana un contagio mimetico in atto? In questo caso il gesto interrotto diventa un segno in distinzione dal contagio. Mentre si può pensare che il gesto interrotto sia compiuto da molti dei partecipanti, o anche da tutti, la distinzione necessaria dal processo di contagio suggerisce che in qualche punto questa distinzione debba essere più netta, e che se il segno in quanto segno emerge in qualche luogo entro la scena sia economico assumere che l’imitazione di quel gesto singolare sia più probabile di una scoperta simultanea della sua efficacia. E questo non costituirà una violazione della simmetria e reciprocità così centrali per la scena, se noi teniamo in mente che, come penso che sia già implicito nella esposizione di Gans, il segno originario è già in qualche modo un’imitazione modificata dei non-ancora-segni (le mani che si protendono) ai quali è risposta. Credo che il mio emendamento accentui la distinzione forma/contenuto, o appetitivo/rappresentativo, costitutiva del sorgere del segno, facendo della stessa forma parte dell’efficacia del segno originario: è la distinzione tra segno di rinuncia e (quel che è ora) segno di contagio a richiamare l’attenzione sul segno originario.

Voglio sottolineare che il mio intento non è quello di “correggere” la versione di Gans. Piuttosto, io propongo una forma per le argomentazioni entro l’antropologia generativa, suggerendo che noi assumiamo che i disaccordi possano in ultima istanza essere riportati ad ipotetiche modificazioni della scena originaria, mantenendo nel contempo il criterio della parsimonia. Ovvero, essa fornisce un vocabolario per le controversie intradisciplinari: quello che si affermerà come il segno in grado di rovesciare le tendenze verso il contagio mimetico può essere determinato solo dopo l’evento (come Gans dice spesso, il fato del pensiero originario deve essere lasciato al mercato), ma naturalmente l’atto di individuare un singolo tipo di segno come “candidato” (come fa Raoul Eshelman col suo performatismo[4] ) è simultaneamente un contributo a questa determinazione, specialmente perché esso è di per sé necessariamente un’imitazione di quel modo di significare.

Più specificatamente, il mio emendamento mira ad impostare una discussione del pensiero originario come fonte originaria del pensiero dell’undici settembre, ovvero come un pensiero fondato sulla designazione dell’undici settembre come una svolta epocale, che rende irrilevanti intere regioni del discorso convenzionale e richiede nuove modalità di pensiero. Andando avanti svolgerò le implicazioni del mio emendamento, ma vorrei iniziare individuandone subito una: la necessità di dar conto non solo della permanenza del male nei termini della scena originaria, ma anche della comparsa delle capacità di scoprirlo. Di qui nel mio titolo il termine alquanto provocatorio Amalek: essendo Amalek, secondo la Bibbia ebraica, l’eterno nemico di Israele, come pure il primo ad attaccare (alle spalle, prescegliendo donne e bambini) gli Israeliti nel deserto durante l’esodo, giungendo a significare un tipo di antagonismo immotivato, puro. Possiamo spiegare Amalek non come un puro contagio mimetico incontrollato, ma come il nascondimento del contagio mimetico mediante l’imitazione di segni di rinuncia (vale a dire che ogni attacco è un attacco proditorio). Ed infine indicherò come l’insistere sulla permanenza di Amalek sia di fatto il modo migliore per attuare un’azione deterrente e di differimento nei suoi confronti[5].

La prima vittima (ideologica) dell’ undici settembre è, come ha dimostrato Gans, il pensiero vittimario, e l’analisi gansiana del terrorismo (e della connessa questione dell’antisemitismo islamico) è stata un’indagine sulla bancarotta del pensiero vittimario ma anche, ovviamente, sulla circolazione intensificata dei risentimenti come risultato della globalizzazione. Tenterò di aderire ai  criteri rigorosi che Gans ha stabilito per una tale discussione: dobbiamo “ metterci nella posizione di coloro che vogliono ucciderci… per affermare attraverso questo incontro l’unità dell’umano e il primato della reciprocità morale” mentre riconosciamo di essere impegnati in una guerra contro un nemico efferato la cui (non implausibile) vittoria “sarebbe un incubo per tutti tranne che per pochi tra i pochi sopravvissuti” (Chronicle 293). Inoltre “il rifiuto unanime del terrorismo non deve implicare l’ossessione di punire coloro che lo attuano. Esso può diventare la base per una genuina, se pur minimale, fraternità globale fondata sulla comprensione, infine realizzata esplicitamente nella sfera pubblica, che la funzione basilare dello scambio delle rappresentazioni che costituisce la cultura umana è il differimento della violenza” (Chronicle 253).

Gans affronta il problema del terrorismo globale su entrambi i versanti: i mezzi scelti e il significato di quei mezzi, come pure l’obiettivo strategico e politico della leadership di gruppi come Al-Qaeda. Nella sua analisi più recente, Gans colloca la possibilità del terrorismo nella stessa scena originaria: “L’umano è fondato sulla sospensione del soddisfacimento, cioè sulla sospensione della vita. Se noi fossimo totalmente immersi nel mondo della vita, non saremmo umani. Le diverse forme di sacrificio, compreso l’autosacrificio jihadista, rendono omaggio a questa configurazione originaria” Chronicle 293). “Il terrorista dallo scambio ritorna al sacrificio; dal mercato, nel quale è implicato nella misura in cui egli può agire soltanto dall’interno del sistema che tenta di distruggere, all’originario differimento del desiderio che fonda la cultura umana. La morte soltanto può garantire la negazione dello scambio da parte del terrorista, e come risultato di questa negazione rende più efficace la sua azione, recidendo gli ultimi legami di interesse personale condiviso tra l’uccisore e le sue vittime potenziali”. Il terrorista suicida rappresenta “una rinuncia senza compensazione al nostro appetito fondamentale—l’istinto di autoconservazione—operata al servizio della trascendenza: in una parola, teismo, in opposizione al differimento dell’appetito operato al fine di uno scambio pacifico: in una parola, umanesimo”.

In questo caso, il terrorismo non deve essere—come argomenta Lee Harrris—un mezzo per qualche fine: potrebbe essere benissimo un “fine in se stesso”. Gans si accorge che il terrorismo odierno va ben al di là del terrorismo strategico tradizionale, che si basava sul senso di colpa bianco, l’indisponibilità ad accettare perdite di vite umane, e sul riconoscimento che la posta in gioco per obiettivi del Primo Mondo era molto limitata. Mentre gli obiettivi politici del terrorista diventano più nebulosi, egli si concentra più sull’uccidere che sul costruire qualcosa nel futuro: più si allontana dalla creazione di uno stato, più grande il suo interesse all’acquisizione di armi di distruzione di massa precedentemente riservate agli stati—è più cruciale diventa l’azione preventiva mirante a togliergli queste armi dalle mani” (Chronicle 292). Infine, Gans tocca brevemente un’altra possibilità (che implicitamente è sollevata anche dalla sua discussione dell’antisemitismo)—quella che il terrorismo contemporaneo abbia un carattere contagioso, in grado di farlo diventare un polo di attrazione per movimenti sociali disaggregati ma fortemente antagonistici e privi di un’alternativa al sistema di mercato: da un lato egli ricorda che “un’Internazionale del terrore è in via di formazione, estendendosi ben al di là dei limiti islamici di Al-Qaeda, cucita insieme dal comune risentimento nei confronti dell’Occidente e della sua prosperità causata dal mercato” (Chronicle 293); altrove, Gans allude ai “farsesco movimento di protesta che ora ha spostato la sua attenzione dal WTO alla nostra guerra razzista preventiva” (Chronicle 247).

Allo stesso tempo, e ciò è assai interessante, Gans attribuisce ai terroristi islamici non solo “una visione del mondo coerente”, ma un obiettivo meno auto-contraddittorio e utopistico di quelli del nazismo e del comunismo: “La distruzione del sistema mondiale del mercato simbolizzato dalle torri gemelle ci farebbe tornare ad un mondo preindustriale che gli islamisti troverebbero molto meno minaccioso del nostro e nel quale essi avrebbero buone possibilità di imporre le loro vedute religiose. A condizione che ci convertiamo all’Islam, noi tutti avremo un posto in questo mondo: a differenza del nazismo, gli islamisti non escludono nessuno su basi razziali. Né il loro ideale sociale appare irrealizzabile: qualcosa di simile ad esso esiste in molti luoghi e ha molti sostenitori in giro per il mondo…  Se il mondo intero fosse ridotto al loro livello e non vi fosse possibilità di disporre di ulteriori risorse, molti morirebbero, ma i sopravvissuti potrebbero ben trovare stabilità in qualcosa di simile ad un’esistenza governata dai Talebani” (Chronicle 247).

Vorrei tentare di distinguere queste affermazioni in rapporto alla necessità con cui discendono da un’analisi originaria della situazione. Anzitutto, la collocazione gansiana del terrorismo entro il teismo della scena originaria si situa alla massima altezza—come ogni altra possibilità umana, il terrorismo suicida deve derivare dagli elementi della scena. La più contingente delle affermazioni di Gans, d’altro canto, riguarda l’obiettivo che egli attribuisce agli islamisti, che egli conferma in una Chronicle molto recente: “Il terrorismo islamico non mira alla liberazione di forze indigene finora compresse dal controllo imperialistico, al fine di creare una nuova società. Il suo obiettivo è quello di creare un caos così violento da poter essere dominato solo mediante l’imposizione della Sharia per mano di gruppi di tipo talebano: non come un modo più stretto di regolare le relazioni economiche, ma come un loro sostituto” (Chronicle 293). Chiaramente, la chiave sta nel passaggio finale in corsivo: la tesi di Gans qui è coerente col modo in cui egli situa il terrorismo islamista nella scena originaria, come radicale appropriazione degli elementi sacrificali, trascendenti, teistici di quella scena contro i suoi elementi umanistici, mondani, scambisti. Tuttavia, Gans qui assume l’esistenza di una continuità nella catena di comando che potrebbe non esserci, che noi non possiamo provare (anche se basata su esplicite dichiarazioni dei jihadisti stessi) e a cui vorremmo opporci precisamente nel nome dell’affermazione dell’unità dell’umano: è essenziale che noi ammettiamo una qualche (anche infinitesimale) infiltrazione dell’umanistico nel processo per cui una persona sceglie la jihad come sua vocazione o destino, al fine di riconoscere che perfino la più pura motivazione jihadista dopo il fatto è di nuovo messa in circolo nel processo di scambio (per esempio come celebrità nei Territori palestinesi). Solo in questo modo si potrebbe pensare di affrontare il fenomeno rispettando l’essenziale umanità delle motivazioni dei suoi agenti, anche fino al punto di assumere questa mistura di motivazioni come qualcosa che ci ricorda il bisogno supremo di connettere l’umanistico e il teistico nella cultura contemporanea. In questo modo possiamo isolare in modo più scrupoloso la dimensione del sacro dagli altri elementi dello jihadismo che possiamo deplorare e attaccare senza riserve. 

In questo caso, il pensiero originario e l’antropologia generativa hanno molto da guadagnare, come disciplina, da un esame e da una sperimentazione di un’ampia gamma di spiegazioni del terrorismo islamico contemporaneo e delle risposte ad esso. Menzionerò quelli che mi paiono i modelli più produttivi.

·       Il terrorismo islamico è parte di una lotta per il potere all’interno del mondo islamico: il proposito, in reazione all’arenarsi del tentativo pluridecennale di prendere il potere nei paesi islamici, è quello di spostare i termini del gioco provocando una massiccia rappresaglia americana, che a sua volta causerà il discredito dei regimi filoamericani e faciliterà la presa del potere da parte degli islamisti. In questo senso, gli USA sarebbero anzitutto un fattore interno al mondo arabo e musulmano, implicato in una guerra civile tutta interna ad una civiltà. (Tra gli islamisti e chi? I governi moderati filoamericani? I sostenitori della democrazia liberale?—il che complica le cose, ovviamente, perché questo schieramento è quasi inesistente, e noi dobbiamo agire confidando che le nostre azioni lo faranno nascere).

·       Il terrorismo islamico è, più radicalmente, intrinsecamente parassitario rispetto alla civilizzazione—esso si affida a oggetti e stili di vita consumistici occidentali per i suoi propri mezzi di distruzione, sui media occidentali e sull’opinione pubblica occidentale per confermare la sua esistenza, sulla volatilità dei cicli politici occidentali per far registrare i suoi effetti, ecc.—ovvero, il ciclo di terrore e ritorsione è un fine in se stesso (cosa che potrebbe spiegare—ma lo potrebbe anche la stupidità—il fatto che la provocazione agli Stati Uniti sembra aver vanificato il tentativo così promettente di prendere il potere copertamente e gradualmente nell’Arabia Saudita e specialmente in Pakistan, dove avrebbero anche avuto accesso alle armi nucleari). Secondo questo modello, i segni che noi emettiamo—compresi i nostri dibattiti pubblici, certamente seguiti con attenzione dai terroristi e dalle fonti mediatiche a loro favorevoli come Al-Jazeera—sono cruciali. Quel che vogliono gli islamisti, allora, sono gli effetti spettacolari che affermano la loro centralità. Sotto questo aspetto, il terrorismo islamico è in pratica una rappresentazione materiale delle patologie e divisioni interne dell’Occidente.

·       Il terrore islamico è un’escrescenza patologica, eretica, di un processo che deve essere valutato nei suoi termini: una reviviscenza islamica, che può essere compresa per analogia con la nascita del Protestantesimo come rinnovamento del Cristianesimo e della civiltà europea (nascita anch’essa accompagnata da movimenti apocalittici estremamente violenti). In termini politici, questo implicherebbe che gli obiettivi dei terroristi siano esattamente quelli che essi di tanto in tanto ribadiscono: reinsediamento di forme medievali di governo islamico transnazionale (il Califfato), recupero di territori perduti, ecc. Questa spiegazione, più delle altre, ci porta a concentrare l’attenzione più specificamente sull’Islam, e non solo sulle sue distorsioni da parte dei terroristi: sono in questione le risorse che l’Islam ha a disposizione per istituire delle genuine distinzioni tra forme legittime ed illegittime di Islam[6].

Qui una parte del problema sta in ciò che non vi è molto senso nel discutere queste proposizioni (in aggiunta a quelle di Gans, anch’esse piuttosto ampiamente condivise), perché esse non si contraddicono tra loro. Prima di tutto, dalla nostra prospettiva, esse sono coerenti fin tanto che possono essere portate a indicare differenti livelli sui quali potremmo organizzare i nostri sforzi, e differenti metri con cui potremmo valutare il nostro progresso. La loro coerenza riposa nel limite entro il quale, secondo ciascuna di queste interpretazioni, il terrorismo islamista significa la tensione tra la nostra capacità (e desiderio) di immaginare il mondo come una unica società e la necessità (e la richiesta) che noi lo vediamo come una pluralità di società. In ognuna delle spiegazioni che ho appena proposto, la relazione tra effetti interni ed esterni, azioni strategiche e simboliche, è indecidibile: l’impegno a restaurare il Califfato potrebbe apparire una faccenda interna, con gli estranei visti come nemici nel senso tradizionale, ma questo impegno è, ovviamente, definito in termini di una serie di perdite ed umiliazioni che debbono essere vendicate, e se la vendetta può procedere indipendentemente dalla riconquista prospettata, bene, questo ci conduce ad affermare che l’islamismo è puramente parassitario. Il terrorismo islamico potrebbe essere interessato meramente a spettacolari dimostrazioni di risentimento, ma se dalla parte delle sue vittime del Primo Mondo emergesse un modello coerente di resa, esso assumerebbe forse un qualche tipo di prospettiva strategica. Ma, naturalmente, una siffatta prospettiva strategica sarebbe essa stessa completamente basata sulla calibratura delle risposte psicologiche da parte dei suoi agenti, il che ci riporterebbe puramente e semplicemente alla dimostrazione spettacolare, che ora diventa ulteriore prova dell’imminenza del collasso della civiltà occidentale, che conduce… In altre parole, ciò che rende queste spiegazioni alternative coerenti dalla loro prospettiva è il fatto che tutte implicano un assalto a dei confini in quanto tali: pertanto è impossibile dire che cosa per i terroristi significhi scegliere un obiettivo o un altro. Per tornare alla coerenza di questi obiettivi dalla nostra prospettiva, la questione  è che la vittoria implicherà la soluzione di questa crisi dei confini tramite un riconsolidamento dei confini: confini morali ed etici, ma in quanto questi sono incastonati in un insieme di altri: nazionali/globali, legali/politici, civili/militari, tra guerra e pace, e così via.

Se noi allora cerchiamo dei parametri per misurare il progresso nella lotta contro il terrorismo possiamo trovarli, semplicemente, nella scoperta degli stessi parametri adeguati: cioè un qualche tipo di commensurabilità tra cultura e politica, in cui, per esempio, il profilarsi di dispute entro l’Islam potrebbe avere una qualche visibile associazione con l’emergere di nuovi segni di movimento entro la società civile, che a sua volta presenterebbe dei discernibili legami ai cambiamenti nel comportamento degli stati, ecc. Che noi non abbiamo alcun modo di conoscere che cosa i terroristi vogliano realmente, o se l’Arabia Saudita e il Pakistan siano acerrimi nemici o amici affidabili, o se l’Iran sia guidato da una tradizionale realpolitik o da fanatismo islamico; e in aggiunta, che tutti questi agenti a loro volta possano essere nient’affatto più sicuri di quel che siamo noi: di queste condizioni il terrorismo è sia un sintomo sia un tentativo di mantenerle e sfruttarle. A questo cul de sac del discorso vittimario (domande crescenti alla parte dominante coincidono con uno svuotamento di responsabilità degli oppressi) deve essere opposto un modo di formazione di quei confini che in una cultura post-metafisica non si possono più considerare come dati.

La resistenza a questa nuova forma di terrorismo comincia già in quello stesso giorno, nel mezzo dell’evento stesso. Mi riferisco, naturalmente, alla rivolta dei passeggeri del volo UA 93, ma ciò che è maggiormente rilevante qui va al di là della loro notevole audacia e senso della responsabilità—non la loro mera disponibilità a dare la vita (su questo non avevano comunque scelta), ma la loro capacità di trovare le risorse per agire nella consapevolezza che la loro missione doveva operare entro i parametri di quella suicida impostata dai terroristi. Anzitutto, sono stati gli strumenti più avanzati della società di mercato (i telefoni cellulari) quelli che hanno permesso ai passeggeri del volo 93 di acquisire la intelligence che ha consentito loro di comprendere che non si trattava di un normale dirottamento . In secondo luogo, la rivolta dei passeggeri rappresenta una decisiva rottura rispetto al dirottamento normale, in cui la risposta ragionevole è quella di non creare alcuna difficoltà, nel presupposto che i dirottatori stessi prevedano o almeno sperino di uscirne vivi. Questo frammento di una sorta di contratto sociale, fondato più in generale sul senso di colpa bianco (l’atteggiamento verso i normali dirottatori ufficialmente raccomandato è sorprendentemente simile a quello adottato dall’Occidente verso il terrorismo precedente l’undici settembre—il terrorismo visto come una sorta di costo di produzione dell’espansione del mercato), è totalmente dissolto—il che spiega, tra parentesi, perché non vi sia la minima possibilità che un altro attacco sullo stile dell’undici settembre possa aver successo, almeno negli Stati Uniti. Lo spazio che i ribelli hanno generato mediante le loro azioni ha sospeso l’immersione dei passeggeri nel mondo della vita tanto quanto quello dei terroristi, ed è pertanto un segno della cancellazione del dualismo teista/umanista da cui il terrorismo trae la sua forza.

Nella trasformazione qualitativa del dirottamento realizzata dai terroristi noi possiamo scorgere chiaramente la complicità del discorso vittimario nella nostra vulnerabilità: gli aerei hanno potuto essere trasformati in armi soltanto sul presupposto di una sorta di modus vivendi tra il terrore e la civiltà garantito dal vittimario. Allo stesso modo, è nella rottura col discorso vittimario—la sua cancellazione—che noi possiamo situare l’associazione tra la rivolta dei passeggeri e la scena originaria. E la rottura col discorso vittimario e correlativo senso di colpa bianco qui rappresentata può ricevere una designazione storica più specifica. Come Gans ha sostenuto spesso, l’Olocausto è il “momento inaugurale dell’era vittimaria dalla quale ora stiamo venendo fuori” (Chronicle 290). Così è nella misura in cui la reazione all’Olocausto ha condotto ad una lettura di tutte le relazioni sociali in termini di relazioni tra vittime e carnefici. Ma la ragione per la quale l’Olocausto divenne applicabile in termini così strettamente vittimari è dovuta al fatto che, in forza della struttura molto avanzata della società tedesca, e della sua somiglianza ad altre società occidentali, tutte le istituzioni presuntamente neutrali necessarie per una qualsiasi società avanzata sono state irreparabilmente inquinate: medicina, scienza, arte, burocrazia, sistema educativo, mass media ecc. furono tutti complici e quindi contaminati. In altre parole, la potenza del modello derivante da Auschwitz sta nel fatto che esso consente di scoprire relazioni carnefice-vittima in pratiche apparentemente innocue e del tutto familiari.

Ancora oltre: vi è una terza categoria che deve essere introdotta nell’analisi dell’Olocausto, come parte della struttura triadica introdotta, in particolare da Raul Hilberg (alle cui analisi sono debitori altri autori canonici come Hannah Arendt): la categoria dello spettatore[7]. La colpa bianca è la colpa dello spettatore, che trae beneficio dalla struttura di dominio senza parteciparvi attivamente o consapevolmente e senza opporvi resistenza. Naturalmente, questo fornisce una convincente giustificazione teorica al terrorismo (forse di più per gruppi terroristici occidentali come la Baader Meinhoff o Weather Underground): la complicità dello spettatore è il supporto del sistema e quindi deve essere minata. Lo spettatore deve essere obbligato a schierarsi apertamente ed esplicitamente. Non esiste lo spettatore innocente. In quel caso, la rivolta del volo 93, nella misura in cui è conservata come evento e articolata come segno che si oppone al contagio mimetico, smantella la struttura vittima/carnefice/spettatore.

In termini originari, il terrorismo può essere definito come il punto in cui il vittimario diventa contagioso, un luogo di crisi mimetica. In questo caso, se non dobbiamo più essere spettatori colpevoli ma funzionari della civiltà, dobbiamo articolare un qualche metodo di annullamento simultaneo dei discorsi vittimari e del contagio mimetico. Uno dei modi per inquadrare questo problema è chiedersi che effetto farà l’abbandono immediato e incondizionato di tutti gli argomenti che recano in sé la minaccia implicita o esplicita che l’azione di un soggetto porterà, da un lato, instabilità o caos, o dall’altra crescente ostilità od odio. Questi sono i tipi di argomento che sono marchiati dall’apologetica corrente del vittimario e dalla penombra del contagio mimetico. Per prima cosa, strettamente parlando, cose come caos e instabilità non esistono come tali nelle faccende umane. Si dovrebbe sospettare fortemente di un resoconto degli eventi che non possa essere riempito da una schiera concreta di attori sociali—alleanze e para-istituzioni esterne o avverse al controllo dello stato e della società civile potrebbero acquistare forza, ma questo non è caos; dei regimi possono essere rovesciati in breve tempo, ma questa è instabilità (o addirittura imprevedibilità) solo dal punto di vista di un insieme di pregiudizi molto ristretto. E se l’azione di qualcuno generi ostilità ed odio piuttosto che gratitudine ed emulazione potrebbe costituire una riflessione su coloro che esibiscono simili responsi tanto quanto su quell’azione stessa. Talvolta è meglio che l’ostilità si manifesti piuttosto che rimanga latente, e che l’odio sia reso esplicito e che coloro che ne sono posseduti siano spinti a “mettere il loro denaro dove sta la loro bocca”.

Quando siamo lì a tentare di soppesare gli effetti del risvegliare nemici dormienti contro il rischio di incoraggiare altri nemici che vedono il nostro allarme al minimo accenno di simili effetti, noi stiamo ponendo le domande sbagliate entro un quadro temporale sbagliato. È più utile convertire le risposte alle nostre azioni, e gli echi che esse suscitano, in indicatori della qualità dei nostri alleati presenti e della capacità di attrazione di nuovi alleati (non potrebbero forse i nostri nuovi nemici farsi, dal canto loro, dei nuovi nemici?). Al di là della inconsistenza di simili argomenti e avvertimenti, tuttavia, si pone il loro uso al fine di intimidire, o piuttosto la volontà di coloro che ne usano di contare su altri per fornirsi della forza di intimidazione che potrà camuffare la loro inconsistenza. Questa diventa un’alleanza reale (per dire, tra i media, gli attivisti contro la guerra e i terroristi) fin tanto che tutti coloro che vi sono implicati hanno l’incentivo a massimizzare i segni di instabilità, caos e odio e ad erodere la nostra capacità di valutare e utilizzare gli elementi di forza e di debolezza dei nostri nemici, l’unica misura che dia un qualche significato ad uno qualsiasi di questi effetti che si manifestano. Siamo diventati immuni a questi discorsi e comportamenti virali in quanto noi inquadriamo le nostre azioni in modo tale che siano sufficientemente prevedibili per i nostri alleati e troppo imprevedibili per i nostri nemici, al fine di determinare incentivi ad essere i primi e formulare criteri per identificare i secondi. Quanto più gli effetti delle nostre azioni ci forniscono un’utile base per articolare azioni con effetti sempre più prevedibili, tanto più noi siamo in grado di identificare l’imprevedibilità con ostilità specifiche, e tanto più noi siamo “sulla pista giusta”. Al fine di realizzare un approccio così rigoroso, però, dobbiamo trovare nella scena originaria non solo il terrorista suicida, ma anche la resistenza che gli viene opposta.

L’emendamento che propongo per la scena originaria, allora, ci consente di vedere che oggi siamo posti di fronte precisamente a quel genere di situazione che io descrivo in essa, ove dobbiamo trovare i segni capaci di scoprire e contrastare il contagio mimetico nascente. Ne segue pertanto che la guerra contro il terrorismo deve essere essa stessa un tale segno, per poter avere successo—o piuttosto una serie, un insieme di segni del genere. Quello che intraprenderò ora è il tentativo di individuare e produrre alcuni di questi segni discutendo due pensatori post-vittimari entro il quadro della scena originaria. Ricercherò nodi di dialogo tra antropologia generativa e queste altre tendenze, e in questo modo sosterrò la centralità del pensiero originario nello studio di una linea per la serietà dell’alta cultura e la responsabilità della politica sulla scia dell’undici settembre.

Dimenticanza ed efferatezza

Per Lee Harris, le lezioni dell’ undici settembre possono essere riassunte così: noi ci siamo dimenticati “che vi sia mai stata una categoria dell’esperienza umana chiamata il nemico”:

Questo, prima dell’undici settembre, è ciò che ci era capitato. Lo stesso concetto di nemico era stato messo al bando dal nostro vocabolario morale e politico. Un nemico era soltanto un amico per il quale noi non avevamo fatto ancora abbastanza. O forse vi è stato un fraintendimento, o una distrazione dalla nostra parte—qualcosa che potremmo correggere (XII).

Introduco Harris nella discussione per diverse ragioni. Anzitutto, la sua risposta analitica all’undici settembre e alle sue conseguenze è stata tra le più innovative e ampiamente discusse, e a mio parere una delle più profonde. In secondo luogo, Harris nel suo ragionamento incontra l’antropologia generativa su di un terreno comune: come Gans, Harris cerca il significato del nostro vocabolario politico, morale e intellettuale in esperienze ed eventi originari, e fa un uso costante di esperimenti di pensiero miranti a ricostruire tali esperienze ed eventi. E come Gans Harris mostra un forte interesse ai tentativi da parte dei pensatori dell’Illuminismo (specialmente Hegel) di costruire delle versioni idealizzate delle origini, denunciando implicitamente la proscrizione postmoderna (vittimaria) della ricerca delle origini. Infine, Harris presenta una forte sfida all’antropologia generativa: una questione sulla quale Gans sembra spesso ambiguo o incerto, ovvero quella dei limiti, posti in qualsiasi momento dato (e quindi la necessità per le risorse culturali di prepararci per questi momenti) all’estensione delle relazioni di mercato (la conversione delle asimmetrie in simmetrie formali che rende possibile la negoziazione) come modo di differimento della violenza[8]. La posizione di Harris è chiara e convincente su questo punto: non soltanto quella di nemico sarà sempre una categoria rilevante dell’esperienza, ma lo stesso tentativo di immaginare in altro modo—ovvero di immaginare che noi dobbiamo soltanto aprire nuove posizioni sul mercato—rinforza e incita i nemici della civiltà.

I primi due capitoli del libro di Harris Civilization and its Enemies: The Next Stage of History si basano su quelli che probabilmente sono I suoi saggi più letti e provocatori—Al Qaeda’s Fantasy Ideology e Our World Historical Gamble. Nel primo di questi saggi, Harris sostiene che gli attacchi dell’undici settembre non sono stati, strettamente parlando, atti di guerra, almeno non di guerra intesa al modo di Clausewitz, in cui entrambe le parti usano la forza per piegare l’altra alla loro volontà, situazione in cui ciascuna deve rendere nota all’altra la propria identità e i propri fini: “Noi stiamo combattendo un nemico che in tutto ciò che fa non ha un obiettivo strategico, e le cui azioni hanno un significato solo nei termini della sua ideologia di fantasia” (17). Per “ideologia di fantasia” Harris intende un’azione simbolica che ha luogo in uno scenario pubblico ma il cui senso è accessibile solo all’attore o al suo scelto uditorio, mentre coloro che si trovano all’esterno di questo circolo servono solo come attrezzi di scena:

L’undici settembre non è stato un atto di terrore clausewitziano—cioè terrore usato come arma strategica per il suo effetto psicologicamente debilitante sul popolo americano. È stato un dramma simbolico, un grande rito a dimostrazione della potenza di Allah, uno spettacolo destinato a inviare un messaggio non al popolo americano ma al mondo arabo. Ulteriori azioni su scala minore non avrebbero esercitato alcun fascino, ed era il fascino—e la grandiosità—ciò che Al-Qaeda perseguiva (15).

Harris, però, in questo capitolo non si dedica alla fonte e potenza di questa ideologia di fantasia, se non per suggerire che essa implica una “compensazione” per “carenze” (6), e fa riferimento a “certi gruppi che non sembrano avere una particolare capacità di autovalutazione realistica” (8)—sostenendo che è “assurdo” ricercare “cause profonde” in “povertà, mancanza di istruzione, mancanza di democrazia, e così via” (15), o nelle nostre azioni o politiche. Queste spiegazioni, insieme con le conclusioni circa una risposta adeguata, vengono nel capitolo seguente, “Our World Historical Gamble” [Il rischio storico del nostro mondo].

Qui, Harris afferma che noi siamo, nel mondo post-undici settembre, messi di fronte ad una crisi storica mondiale, in cui “un’epoca in cui tutti gli attori rilevanti di un conflitto internazionale recitavano seguendo le stesse regole di base” (23) sta venendo sostituita. I nostri concetti correnti, come realpolitik, autodeterminazione, o leggi e istituzioni internazionali, sono divenuti irrilevanti—per il fatto che una parte importante non sta più seguendo le regole. Per di più, “Questo collasso del ben ordinato sistema liberale è venuto fuori esclusivamente dal lato del mondo islamico. Nessun altro elemento vi ha contribuito.” (25)

Questo rifiuto della realtà da parte del mondo islamico è il risultato di un fattore intrinseco al mondo islamico e di uno inerente al più ampio sistema di sovranità liberale internazionale. Sulla falsariga di Marx e della connessione da lui tracciata tra lavoro impiegato nella produzione della base materiale della cultura e responsabilità che si è portati ad assumere per quella cultura, Harris afferma che l’immensa ricchezza petrolifera di cui dispone il mondo islamico significa che “Se noi guardiamo alla fonte della ricchezza araba, non troviamo nulla che gli Arabi abbiano creato da sé. La ricchezza gli è arrivata per magia, quasi come in una storia dalle Mille e una notte, e gli consente di vivere in una terra fantastica feudale”. La conseguenza non attesa, allora, della politica occidentale del “non derubare le altre società delle loro risorse naturali per il semplice fatto di possedere la forza militare per farlo” è stato “il prodigioso finanziamento di visionari che come risultato sono messi in grado di perseguire i loro piani folli senza dover fare i conti realisticamente con i rischi o il costo delle loro azioni” (27).

Nella prospettiva di intese internazionali più ampie, nel contempo, Harris indica un’altra conseguenza non prevista, risultante questa volta dall’universalizzazione del sistema della sovranità. Mentre la “sovranità classica” richiedeva l’effettiva capacità di esercitare il potere su di un particolare territorio, il concetto post-coloniale di autodeterminazione universale conduce ad un concetto superficialmente simile ma in realtà radicalmente differente, “quel che potrebbe essere chiamato il concetto onorifico dello stato” (29): lo stato è ora “un’entità posta in essere dal riconoscimento formale della comunità internazionale” (30). Questa sorta di stato onorifico non richiede più che si lotti per esso, che lo si costruisca, mantenga, che si prendano in considerazione rischi, compromessi necessari, la costante minaccia di annientamento: come un diritto a priori, si può intraprendere qualsiasi azione per affermare la propria sovranità nella sicurezza che non soltanto il suo riconoscimento internazionale non verrà ritirato, ma qualsiasi controazione sarà giudicata un attacco ai propri diritti. È abbastanza facile scorgere la connessione tra “ideologia di fantasia” e “sovranità onorifica” come due modalità di contagio mimetico—non v’è da sorprendersi che qui Harris usi come esempio i Palestinesi. E la risposta che Harris propone per contrastare l’enorme potenziale distruttivo di questa “ideologia di fantasia” coniugata alla “sovranità onorifica” è l’affermazione da parte dell’unica potenza capace di affermarla, gli Stati Uniti, di una “neo-sovranità”: “L’America, in breve, deve usare la sua potenza, unilateralmente se necessario, per distruggere e rimuovere qualsiasi gruppo di persone che stia deliberatamente e consapevolmente seguendo una politica di efferatezza,  sia che questo gruppo sia uno stato contro un altro stato, ovvero uno stato contro la sua stessa popolazione, o un’organizzazione del tipo di Al-Qaeda” (108).

L’introduzione della categoria di efferatezza qui ci porta ai fondamenti antropologici più profondi dell’argomentazione di Harris. Secondo Harris, è precisamente il trascendimento dell’efferatezza (cioè la propensione a uccidere ed essere ucciso per qualche diritto che si rivendica) da parte della civiltà che rende questa particolarmente vulnerabile da quella. In effetti, più civile diviene una società, più essa si distanzia dalle sue stesse origini efferate, più è portata a dimenticare quelle origini, e pertanto, paradossalmente, tanto più è vulnerabile da parte degli efferati:

Chi è stato abituato alla pratica della civiltà, che ne è diventata la seconda natura, sarà riluttante ad accettare la sfida di un altro sul terreno della mancanza di civiltà. La parte efferata pertanto sa che potrà spingersi molto avanti prima che un punto di rottura sia riconosciuto apertamente. Poiché una volta che il punto di rottura sia riconosciuto tutte le regole sono annullate e non vi può essere più alcuna sicurezza sulla prossima mossa.

Prima del punto di rottura, la parte civile pensa che la parte efferata possa essere assimilata agli standard civili coi mezzi della pazienza e della tolleranza, più o meno come si potrebbe tentare di addomesticare un animale feroce. Siamo convinti che riusciremo a controllarlo. Attribuiamo la sua ferocia a qualche suo difetto psicologico. Forse ha un complesso di inferiorità nei nostri confronti, e cerca di uscirne. Forse noi rappresentiamo una figura di autoritarismo, e lui si sta ribellando contro di noi… possiamo prendercela con l’efferatezza attribuendola alla religione, alla cultura o alla condizione economica di qualcuno. Non ci sogniamo mai di identificarla per quel che realmente è—una strategia che funziona (66).

E la conclusione di Harris è che “non vi può mai essere una fine della storia. In un mondo in cui tutti hanno accettato i valori liberali, la pratica dell’efferatezza ricompenserà ampiamente coloro che ancora ne fanno uso—così ampiamente che è mera utopia attendersi che nessuno colga l’opportunità quando gli si offre” (67). E ovviamente la logica della tesi di Harris è che la diffusione dei valori liberali, o, nei termini dell’antropologia generativa, la secolarizzazione e deritualizzazione della cultura in atto, offre opportunità sempre più numerose. Harris fa risalire il trascendimento dell’efferatezza (ma anche, in termini hegeliani, il suo toglimento, e in termini forse heideggeriani il nostro oblio di essa) nella civiltà all’antica Sparta. Secondo Harris, “Sparta fu il luogo in cui per la prima volta gli uomini si sono curati della loro tendenza alla violenza letale entro la loro stessa comunità” (81). Concentrando l’attenzione sulla loro brutalità, arbitrarietà, e forme di allevamento e disciplina dei bambini consapevolmente innaturali, Harris afferma che Sparta è stata la prima società a trascendere forme di legame dipendenti dalla biologia. E ha ottenuto questo trasformando l’unico principio di legame emergente spontaneamente al di là di quello familiare, quello della banda di ragazzi, nel principio della squadra. La banda di ragazzi, basata su di un’efferatezza nemica di ogni forma di ordine sociale, fu liberata dalla famiglia e trasformata in “un organismo permanente e autoriproducentesi” (87) servendosi della sua efferatezza per usarla contro i nemici della comunità, “nel contempo controllandola in un modo tale che essa non potesse più rappresentare alcun pericolo per la società stessa. Il meccanismo mediante il quale questo fu fatto fu l’invenzione della squadra” (87).

Andando ancora più indietro, e riprendendo Hegel e il suo racconto della lotta per il riconoscimento, Harris trova la stessa struttura nell’invenzione della proprietà, sebbene “noi dobbiamo stare attenti nell’usare la parola proprietà, perché in effetti ciò di cui stiamo realmente parlando, quando un gruppo avanza una pretesa sopra un territorio, è paragonabile al territorio di una banda, o alla polis greca o alla patria romana… un gruppo ha avanzato la sua pretesa a questo pezzo di territorio e… è preparato a difenderlo contro chiunque sfidi questa pretesa. Qui, anche, in embrione, sta quel principio della libertà civica—la libertà della squadra di vivere non come servitori o schiavi di qualcun altro—che è il primo e il più fondamentale di tutti i sensi di libertà” (173). Tutto ciò che distingue la squadra dalla banda, ciò che fa dell’una il fondamento e dell’altra il nemico della civiltà, è che la prima dirige la sua ferocia verso nemici esterni ( e articola conseguentemente il suo concetto di libertà e il suo codice d’onore) mentre la seconda dirige la sua ferocia verso la sovversione dell’ordine interno. È abbastanza facile vedere perché i popoli civilizzati vorrebbero dimenticare questo, e perché Harris consideri tale dimenticanza il nostro peggiore errore odierno. E la ragione per cui Harris considera gli Stati Uniti l’unico baluardo contro l’efferatezza terroristica (essendo l’efferatezza della banda giovanile divenuta un fenomeno globale) è, a prescindere dalla loro predominante potenza, il fatto che nelle loro origini capitalistiche e protestanti gli USA rappresentano in modo esemplare lo spirito di squadra (questo in effetti spiega la loro schiacciante potenza). (Menzionerò brevemente le importanti modificazioni introdotte nel principio di squadra dai Romani: anzitutto, la riconciliazione del principio di squadra con quello della famiglia; in secondo luogo un cosmopolitismo di squadra—che Harris oppone al cosmopolitismo liberale contemporaneo—che implica l’universalizzazione del principio di squadra. Per Harris, queste modificazioni danno al principio di squadra una stabilità e una persistenza mai raggiunta con i Greci.)

Harris, ovviamente, non dà alcuna spiegazione delle origini della religione, e tanto meno di quelle del linguaggio—in una parola, non dà conto del trascendente. E tuttavia questo non ci impedisce di collocarlo nella scena originaria. Anzitutto, per Harris, la squadra potrebbe essere vista come qualcosa che soppianta il Grande Uomo di cui parla Gans in The End of Culture e che si appropria dell’oggetto sacro immutabile che sta al centro. Ma quella che è ora una storia familiare—gli esempi storici rari (fino a poco tempo fa) ma cruciali in cui la libertà si è contrapposta con successo alla tirannia—assume qui un’altra dimensione. Lo stesso è vero per un altro fatto ben noto—l’associazione della democrazia greca e del repubblicanesimo romano con la belligeranza e l’imperialismo. L’analisi di Harris, riformulata in termini originari, suggerisce che il rivolgere la squadra dall’aggressione interna all’esterna potrebbe plausibilmente condurre alla facoltà interna che mette ogni comunità in grado di paragonarsi con o misurarsi contro altre comunità—in altre parola, l’istituzione di relazioni mimetiche tra comunità che potrebbe essere una fonte di dinamismo per quelle comunità che istituzionalizzano la squadra (e, ovviamente, della globalizzazione del mercato e del risentimento). Così, la diffusione del concetto di squadra nel mondo moderno intensifica la rivalità mimetica tra le società, che a sua volta potrebbe dar conto dei conflitti impliciti nell’emergente assunto che la società globale sia unica, e di questo assunto stesso.

Allo stesso tempo, tutto questo sembra distanziare la squadra dalla scena originaria, dove la preoccupazione principale è quella di trascendere la violenza interna. Qui io vorrei tornare al mio emendamento, che ora funziona come un nodo dialogico, che suggerisce una relazione dialettica tra il contagio mimetico e la pace che dà il segno nella scena originaria. Se noi potessimo vedere il sorgere del principio di squadra come una risposta a una crisi successiva che minaccia, in qualche specifica comunità, il lavoro e la significazione della cultura, le risorse per tale risposta devono già essere disponibili. Allora noi possiamo vedere la lotta tra la civiltà e i suoi nemici come una rimessa in scena della scena originaria in quanto la scena originaria deve includere un primo tra eguali, un significante primario che pone se stesso tra il gruppo e l’oggetto—in altre parole, il significante primario fa di se stesso una sicurezza per la comunità contro una minaccia che può successivamente diventare un modello per le rappresentazioni di nemici esterni. E questo significante primario deve divenire (istantaneamente) un oggetto di imitazione più stimolante di qualsiasi altro nel contagio amorfo. La ragione per cui esso diventerà più stimolante, infine, è che esso trae il suo potere dall’oggetto centrale, introducendo quindi un confine (centro/margine) ed una forma che promette di sopravvivere alla deformante e deviata corsa all’appropriazione. La conversione della banda in squadra è, allora, implicita nell’iniziale ritirata del contagio mimetico che diviene parte della capacità di significazione anche se non è ricordata o marcata. Di più, la squadra è una forma esemplare del processo mediante il quale il mimetico diventa generativo: ciascun membro deve agire in stretta conformità con gli altri e nel contempo espandere il raggio delle possibilità ad essi aperte; ciascun membro diviene sempre più prevedibile precisamente col suo effettuare mosse senza precedenti.

Infine, per un discorso che afferma la centralità degli Stati Uniti, Harris ha molto poco da dire circa il mercato e i suoi sviluppi correnti, compresa la crescita del consumismo. Si potrebbe concludere che egli vede siffatti sviluppi come elementi della dimenticanza che ci ha resi così vulnerabili—il consumismo certamente ci distanzia in modo significativo (e questo è ovviamente una delle maggiori pretese avanzate dall’antropologia generativa) da ogni bisogno di avanzare una pretesa. Come minimo, Harris doveva insistere sull’idea che la squadra, e tutte le virtù ad essa associate, e in particolare quelle istituzioni ancora caratterizzate da un controllo da parte dello spirito di squadra o codice d’onore devono a loro volta essere onorate e protette nel nome di un ordine liberale. E noi potremmo dire che la relazione tra una tale pretesa e il processo di espansione del mercato e la proliferazione di un’estetica della simulazione costituisce un programma di ricerca alquanto importante per l’antropologia generativa.

Il mio uso di Harris è, in parte, un segno del ventaglio di tendenze generative nel pensiero post undici settembre, tendenze rappresentate, per fare alcuni nomi, dalle analisi di Victor Davis Hanson del Modo occidentale di fare la guerra e dalla sua applicazione di queste analisi alla guerra statunitense contro il terrorismo, da opinionisti come Ralph Peters e Mark Steyn, e da blogger come Belmont club e USS Clueless. Questi pensatori sono sostenitori di un approccio aggressivo e non apologetico alla guerra contro il terrore e possono essere molto ampiamente caratterizzati come neo-conservatori, nel senso che recuperano una comprensione antropologica mimetica contro l’utopismo progressista: mimetica nel senso che comprende l’attività umana come segni che reciprocamente e nell’aggregarsi costituiscono una scena. Le azioni sono descritte al meglio come istituzione e risposta ad incentivi, reinquadramento di una situazione al fine di esplorare percorsi alternativi, riformulazione delle regole e sfruttamento delle antinomie governando la situazione da cui le azioni emergono, restaurazione e modellamento dei confini che sono stati corrosi dal contagio, e così via.  Vi è qualcosa di classico in questo approccio: non dobbiamo trascendere, e non trascenderemo, le motivazioni basse del genere umano (bramosia, invidia, intimidazione del più debole, opportunismo, ecc.), richiedendo un’eterna vigilanza per proteggere ed espandere il dominio delle motivazioni alte (civiltà, virtù, alta cultura, patriottismo, responsabilità personale, continuità storica, disciplina, forza militare, ecc.).

Questi pensatori sono pragmatici nel senso che vedono le azioni come ipotesi incarnate da verificare, e il loro mimetismo e pragmatismo implica un’implicita etica universalistica: il criterio per giudicare pratiche e culture sta nella misura in cui queste pratiche e culture contengono procedure di scoperta, i mezzi coi quali i presupposti sottostanti le pratiche possono essere resi visibili ed esaminati. Essi vedono l’Occidente contemporaneo diviso tra innovatori disposti al rischio e gente sempre più contraria al rischio, con i primi che nelle condizioni attuali sono quelli che danno forma alla realtà e i secondi che inevitabilmente tentano di evaderne. E tutti, almeno implicitamente, adottano una rappresentazione ironica del male. Quello che intendo dire può essere spiegato tornando ad Harris, nel cui discorso possiamo cogliere il suggerimento che una prontezza incondizionata da parte degli agenti della civiltà ad impiegare mezzi violenti è esattamente ciò che renderà meno probabile la necessità di usarli (ma allora, a sua volta, la necessità sarà dimenticata di nuovo). Presupporre che il male non sia sradicabile accresce la probabilità che il male appaia solo in tracce che ci riportano indietro alla scena originaria, una scena originaria in cui il segno del primo-tra-eguali neutralizza il sorgente contagio mimetico.

Ovviamente, qui il timore legittimo, che riconosce un grande potere alle logiche vittimarie, è che la distinzione tra la banda e la squadra possa diventare indeterminata, specialmente in situazioni in cui i modelli mimetici di azione toccano i loro limiti. La Distruzione Reciproca Assicurata, o deterrenza nucleare, era una situazione del genere, in cui un modello iper-mimetico poteva soltanto paralizzare tutti quelli che vi erano coinvolti (e questo era il suo scopo). Che differenza vi sarebbe stata se la guerra nucleare fosse iniziata nello spirito della squadra o in quello della banda? Si può anche comprendere l’insistenza dell’amministrazione Bush sui suoi diritti alla prevenzione come determinazione a prevenire il risorgere di condizioni simili: in altre parole, il mantenimento delle condizioni favorevoli ad una comprensione mimetica della realtà è esso stesso un imperativo etico nel mondo post undici settembre. E il rovescio sarebbe che mentre la condizione di ipermimetismo che ha portato alla stigmatizzazione di qualsiasi posizione anche implicitamente aggressiva verso i regimi tirannici era ideale per l’emergere del terrorismo anti-coloniale, l’incapacità di restaurare (e l’assenza di qualsiasi tentativo visibile o interesse a restaurare) condizioni mimetiche è stata ideale per il nuovo terrorismo islamico.

La preoccupazione legittima che sta dietro molto antiamericanismo, tuttavia, è che l’enorme dislivello tra la potenza americana e qualsiasi rivale concepibile, o anche combinazione di rivali, è così ampio che l’affermazione stessa di quella potenza inficerà le condizioni per cui le relazioni potrebbero essere rese sempre più mimetiche. E tuttavia un pensiero mimetico e insieme generativo (e il pensiero mimetico che considera la sua stessa possibilità come il risultato di un evento inesauribile, ovvero che non prende le sue stesse condizioni sceniche come date, è necessariamente generativo) può trasformare questo in un’ipotesi produttiva che neutralizza il risentimento. Un legittimo sistema di “controlli ed equilibri” sulla potenza americana inserirebbe le azioni americane in una serie di incentivi visibili e misurabili, regole rivedibili ma prevedibili, confini marcati in modo ragionevolmente chiaro, risposte e conseguenze attentamente calibrate, procedure di scoperta. Questo tuttavia non si può realizzare in una maniera a priori, mediante l’istituzione di organismi internazionali la cui autorevolezza dovremmo riconoscere essenzialmente perché essi stessi la professano. In effetti, a questo punto, tali istituzioni non possono essere altro che espressioni di risentimento verso la potenza americana, che differiscono l’azione e insistono sulle equivalenze morali in proporzione diretta con la propensione americana ad agire sulla base di principi morali. Al contrario, dovrebbero essere sviluppate delle azioni su scala ridotta che attuino una rigorosa mimesi, anticipazione e riformulazione delle azioni americane. Per esempio, perché la Sinistra europea, durante la (lenta) preparazione dell’operazione militare contro l’Irak non ha pensato di rendere pubblici i nomi della maggior numero possibile di dissidenti iracheni, singoli e gruppi? Un’iniziativa del genere avrebbe spinto il governo di Saddam Hussein a prevenire la guerra preventiva americana consentendo a tali persone e gruppi (grazie agli ispettori internazionali) di emergere dalla clandestinità, di organizzarsi apertamente e di pubblicare liberamente. Questa mossa avrebbe, in effetti, trasformato i preparativi militari americani nello strumento di una politica orientata ai diritti umani. Oppure, nel caso di un fallimento (che, ovviamente, sarebbe stato molto probabile), essa avrebbe legittimato tali gruppi e/o individui come cani da guardia nei confronti degli USA e della loro promessa di trasformazione democratica in Irak.

 

GENERATIVA

 

 

 

 

 

 



[1] “Le concezioni etiche hanno occupato una posizione centrale nei sistemi di rappresentazione di tutte le società precedenti, sebbene in una forma estetica (rituale o secolare) piuttosto che teoretica. Oggi solo la teoria può elaborare una simile concezione, e perciò la teoria è chiamata a situarsi al centro della nostra cultura. Secondo questa ipotesi, la scienza umana deve diventare l’ ‘alta cultura’ del nostro tempo. Ma questo si può realizzare solo se essa accetta di addossarsi il peso di prendere molto sul serio la propria cultura” (p. 97).

[2] Non intendo mettere in discussione la spiegazione gansiana delle condizioni storiche della nascita del pensiero originario, individuate solitamente nell’universalizzazione del sistema di mercato e nella scoperta postmoderna del primato del linguaggio (i due punti sono ovviamente connessi). Piuttosto, la mia ipotesi verte sul possibile potente emergere dell’antropologia generativa sulla scena della teoria contemporanea.

[3] Vedi in una delle recenti Chronicles (305, “The Supernatural”) per una impostazione simile a questa: “Forse la prova più convincente del fatto che l’antropologia generativa costituisce un radicale passo in avanti nel pensiero umano è data dal suo incontrare non solo resistenza ma indifferenza”. In parte l’intento di questo saggio è di aiutare a provocare una resistenza produttiva—del tipo che può essere trasformato in un campo d’indagine per l’antropologia generativa.

[4] Vedi  Eshelman,  "Performatism, or the End of Postmodernism," e "Performatism in Architecture: On Framing and the Spatial Realization of Ostensivity," rispettivamente in Anthropoetics VI, no. 2 (autunno 2000/ inverno 2001) e VII no. 2 (autunno 2001/inverno 2002).

[5] Yoram Hazony in The Dawn: The Political Teachings of the Book of Esther, fornisce un’utile discussione di Amalek nella tradizione giudaica. Hazony legge Amalek come il rifiuto di tutti i confini morali. L’ironia, o piuttosto il paradosso, che Hazony mette in rilievo sarà anch’esso rilevante per la mia discussione: “La promessa di Dio di annientare la memoria di Amalek sulla terra è minata in misura non lieve dalla sua promessa di guerra contro Amalek di generazione in generazione” (p.102).

Mi si consenta anche di situare la mia discussione nei termini in cui Gans pone la sua analisi del problema del male in Signs of Paradox. Gans qui insiste, in un certo senso, sul concetto che il male non è sradicabile, in quanto esso occupa un posto (subordinato) nella scena originaria. Naturalmente, il bene deve avere la priorità sul male, e quindi il male è intelligibile soltanto in relazione al bene: “Il concetto finito di male che è il solo ad avere significanza antropologica è possibile soltanto una volta che il bene, la fondazione morale dell’umano, sia stato fondato” (p. 144). Nondimeno, il male “è una componente necessaria dell’universo della virtualità umana creato dal segno” (p.145). Il passo chiave è il seguente: “Questo passage à l’acte [lo sparagmos, o distribuzione e consumo dell’oggetto sacro] fornisce il modello per la realizzazione cruciale dell’intenzione di male, che altrimenti rimarrebbe l’oggetto puramente immaginario della catarsi estetica. Non vi è alcun bisogno di postulare una differenziazione interna della comunità che violerebbe la moralità egualitaria del segno. Lo sparagmos, nel quale l’esercizio della violenza sul centro sacro è accompagnato dalla negazione della responsabilità individuale verso questa violenza, è il modello per tutti gli atti di male, sia collettivi che individuali” (145).

Come sarà chiaro, io postulo una differenziazione interna della comunità che non viola la moralità egualitaria del segno. Il concetto di male che io avanzerò qui, come suggerisce Gans, è diretto prima di tutto al centro non-umano (p. 145) piuttosto che verso gli altri che stanno alla periferia. Suggerirò che si tratta di un male che ricorda l’istante precedente l’emissione del segno, e che questa memoria, seguente l’emissione del segno, è un risentimento verso la scena in quanto tale e che mira a svuotare i segni che la costituiscono, nella consapevolezza che è solo tramite siffatti segni che il suo progetto può essere portato avanti.

[6] Per il concetto di rinascita islamica, vedi Michael Vlahos, “The Muslim Renovatio and U.S. Strategy”.

[7] Vedi il suo Perpetrators Victims Bystanders, e ovviamente  Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil della Arendt. (back)

 

[8] Qui faccio una affermazione molto ampia, per difendere adeguatamente la quale ci vorrebbe molto spazio. La mia idea è che Gans adotta una strategia perfettamente legittima nei conflitti potenzialmente violenti del post-millenniale, quella del differimento: “L’abbandono del pensiero vittimario è l’impegno universale a permanere pacificamente non solo entro relazioni egualitarie, ma anche entro relazioni asimmetriche, nella fede che perfino queste siano preferibili alla violenza—e che, in un mondo di scambi di mercato, nel lungo periodo esse tenderanno a mitigare la loro asimmetria (Chronicle 253, Pensieri post-millenniali). La mia argomentazione è in totale accordo con questa, specialmente dal momento che Gans chiaramente considera (Chronicles 247 e 248, scritte poco dopo l’11 settembre, solo per menzionare alcuni luoghi) che potrebbe ben essere necessaria una difesa della civiltà assertiva e potenzialmente costosa, ed è ovviamente chiaro che noi potremmo non essere mai in grado di far desistere coloro che rigettano questo principio dall’indirizzare un violento risentimento contro di noi. Così, di nuovo, il mio scopo non è confutare o correggere, ma piuttosto impiegare le risorse del pensiero originario per una ricerca a breve termine, che investe uno spazio temporale in cui il confronto con coloro che “nessuna dimostrazione della bontà di un dato ordine sociale riuscirà mai a persuadere” (Chronicle 248) rende il negoziato non solo irrilevante ma un’abitudine che si risolve in beneficio degli efferati. In casi simili, certe asimmetrie debbono essere valorizzate, almeno temporaneamente, ed una logica altra da quella del mercato (non contro il mercato) può darne conto.