IL  DESIDERIO  CREATIVO  DI  DIO

Mimesi oltre la violenza nelle religioni monoteistiche?

 

Thomas E. Reynolds

St. Norbert College

 

Intervento al Colloquium on Violence and Religion (COV&R)
Saint Paul University, Ottawa, Canada
31 maggio  -  4 Giugno 2006

 

Traduzione dall'inglese di Fabio Brotto

brottof@libero.it

www.bibliosofia.net

 

 

Molti di coloro che scrivono sulla violenza religiosa chiamano in causa il concetto del monoteismo, asserendo che questo serve a fini pericolosi, privilegiando l'identità di un gruppo con l'assolutizzare i suoi interessi sopra e contro gli altri (1). Dopo tutto, il marchio del monoteismo, specialmente nelle forme abramitiche, è costituito dalla sua immagine  di un Dio singolo, sovrano e personale, il cui volere agisce liberamente ma selettivamente nella storia, rivelando l'intenzione divina in modi e luoghi specifici piuttosto che in altri, e tuttavia bramando l'alleanza di tutti. Una devozione autentica ad un tale Dio selettivo e tuttavia universale non finisce per tradursi facilmente in pretese di assolutismo, conducendo all'intolleranza e all'inimicizia? E questo non costituisce una spinta alla violenza? Vorrei rispondere: «è possibile ma non necessario». Sarebbe un gesto impulsivo e unilaterale scartare le fedi monoteistiche, e le religioni del mondo in generale, per la loro complicità con l'aggressione e l'ingiustizia (2). Poiché le religioni non detengono il monopolio della violenza: anche ideologie e movimenti non religiosi provocano una grande sofferenza umana, ricorrendo un'infinità di volte alla violenza al fine di portare avanti programmi ingiusti. E sovente sono proprio i movimenti religiosi a rispondere come promotori di cambiamenti positivi, catalizzatori di soluzioni non violente dei conflitti. Certamente la fede monoteistica ha procurato potenti risorse per la riconciliazione e la solidarietà. Sul fronte cristiano, basta pensare a Dorothy Day, Martin Luther King, Oscar Romero, e Desmond Tutu per avere degli esempi ben noti. Nonostante questo, dobbiamo guardarci da una frettolosa assoluzione della fede monoteistica. La tentazione è quella di semplificare al massimo la questione affermando che motivi umani—come l'avidità o il rancore—sono responsabili della distorsione della «rivelazione di Dio» a copertura di ideologie e obiettivi non religiosi. Se da un lato quest'affermazione potrebbe avere un qualche merito teologico, dall'altro essa tende ad un essenzialismo protettivo e astorico che separa quello che sarebbe un evento rivelativo originario dalle sue condizioni sociali e culturali. E questo costituisce una distorsione. Non solo si sorvola il dato ermeneutico per cui la rivelazione, comunque costruita, viene sempre ricevuta e interpretata da esseri umani, così che è impossibile separare il nucleo della verità dall'involucro storico da cui è avvolto, ma anche si trascura la massiccia evidenza di una complicità di credenze e pratiche monoteistiche nel fomentare aggressione e odio. È davvero troppo facile dire che l'affermazione di Dio, mentre è soggetta alla corruzione umana, è fondamentalmente di pace, non di violenza.

Per evitare un simile errore, mi riferirò alla descrizione che Girard fa delle radici della violenza religiosa nella rivalità mimetica e della sua espressione finale nel sacrificio collettivo di un capro espiatorio. Ma mentre Girard sostiene che soltanto la testimonianza rivelatrice delle tradizioni bibliche smaschera il meccanismo del capro espiatorio, io vorrei espandere questa possibilità in un più ampio contesto di fedi. Il mio intento è quello di sviluppare una strategia per trattare la violenza nelle fedi monoteistiche senza cedere alla sua inevitabilità. Poiché dentro i confini del monoteismo sta una dinamica iconica e non idolatrica che, posta in termini girardiani, ha il potere di aprire il desiderio mimetico oltre la rivalità, creando quello che egli chiama «contagio positivo». La mia tesi è la seguente: l'affermazione di Dio porta con sé una sensibilità iconica, che, quando viene assorbita coscientemente, promuove un atteggiamento trascendente di cura degli altri. Questo monoteismo iconico testimonia delle risorse che esistono entro le tradizioni abramitiche e che possono fornire elementi per leggere i loro testi sacri contro se stessi, resistendo ai motivi prevalenti di violenza-di-Dio col dar voce al Dio di giustizia, compassione e grazia potenzialmente universale—e quindi interreligioso.

 

La grammatica del monoteismo iconico segue un paradossale accoppiamento di universalità e particolarità che percorre le scritture abramitiche. Il nominare Dio ha luogo in forma di doppia visione. Come accade? L'atto di testimoniare Dio si trova preso entro una condizione finita, narrativa, che lo lega ad un tempo e ad uno spazio particolari, mentre allo stesso tempo è proiettato oltre tutti i confini limitati e provvisori, in modo tale da includere tutti i popoli e tutta la creazione. Per metterla diversamente, Dio viene incontrato e conosciuto in un modo che oltrepassa il medium dell'incontro, e manifestato come trascendente, come qualitativamente differente dal finito. In questo modo il divino non solo è rivelato, e così identificato concretamente con una storia particolare, ma è anche rivelato come nascosto. È questo tipo di visione doppia o coincidenza degli opposti che può fornire risorse per estendere l'approccio di Girard al di là della violenza in un terreno interreligioso. L'argomentazione qui si sviluppa in quattro momenti. Inizialmente, esplorerò teorie della violenza religiosa, analizzando specificamente l'approccio di Girard. In un secondo momento, utilizzando Girard, delineerò l'emergere del monoteismo secondo la logica della rivalità mimetica. Poi, grazie al supporto teoretico offerto dall'opera di Paul Ricoeur, cercherò di vedere come i testi biblici presentino un modo aperto di nominare Dio che può portare al di là della chiusura della rivalità mimetica. Fondandomi su questo, in un quarto momento, presenterò una lettura iconica dell'immaginario monoteistico che ha il potenziale per decomporre il meccanismo del capro espiatorio, garantendo la possibilità di sviluppare criteri ermeneutici che aprano la possibilità di una lettura pacificatrice delle tradizioni monoteistiche. Secondo questa impostazione, saremo in grado di misurare e criticare i motivi di violenza-di-Dio presenti nella tradizione biblica vis-à-vis con il più ampio richiamo divino alla giustizia e all'autotrascendenza, un richiamo che è presente anche nelle tradizioni non teistiche.

 

I. L'accettazione della violenza nel monoteismo

 

È vero, il monoteismo ha il volto di Giano. Può funzionare come un'erbaccia che minaccia di escludere o eliminare le altre piante, o come un fiore che le valorizza e benedice. In verità, le scritture sacre delle fedi abramitiche—La Bibbia e il Corano—ritraggono Dio in modi vari e spesso conflittuali, oscillando tra violenza e non-violenza, maledizione e perdono. E il lato umano dell'equazione conferma questa duplicità. Le storie del Giudaismo, del Cristianesimo e dell'Islam sono ricche di straordinari atti di compassione e generosità compiuti da gente per il resto comune—o addirittura piena di difetti—, e insieme deturpate da straordinarie dimostrazioni di bigotteria e di violenza da parte di gente comune—e forse per il resto anche buona. Nel suo importante libro Religion and Violence Hent de Vries sostiene che noi non possiamo affermare Dio senza cadere inevitabilmente in questo genere di duplicità (3). Poiché nel cercare di promuovere e preservare il meglio—cioè la salvezza e la responsabilità morale—il ricorso a Dio inevitabilmente ci espone al peggio—cioè all'esclusione e al dominio. Invero, ciascun lato rispecchia inversamente il suo opposto. De Vries si serve dell'opera di Jacques Derrida per sostenere la sua impostazione, notando che la responsabilità verso un altro concreto richiede la sospensione della responsabilità verso tutti gli altri, ignorandoli o anche violandoli (4). De Vries si spinge oltre, asserendo che questa logica del rovesciamento è al centro della religione stessa. Da un lato, dire «Dio mio» è attestare una figura totalmente Altra e infinitamente sostituibile che non consente alcuna fissazione o determinazione, manifestando una relazione senza relazione che compromette ogni aspettativa categorica (5). E dall'altro lato una simile attestazione—una testimonianza singolare—non può che essere inscritta in discorsi pubblici e idiomi categoriali che de facto la tradiscono introducendo meccanismi limitanti di costrizione ed esclusione (6). Per de Vries l'errore della violenza è necessario per evitare una violenza peggiore: «solo nell'essere interrotta, costretta e censurata da quello che non è… la responsabilità assoluta può non volgersi nel suo contrario», l'indifferenza e la compiacenza (7). Siamo inviluppati da un doppio legame: nel fare la scelta di Dio e della responsabilità, ci apriamo alla violenza. Penso che ci sia qualcosa di fondamentalmente vero nell'analisi di de Vries, e ci ritorneremo più avanti. A questo punto, tuttavia, sono perplesso di fronte ai risultati ambigui che il suo approccio ci consegna, poiché le esigenze della nostra situazione odierna globale e interreligiosa domanda qualcosa di più dell'ambivalenza. De Vries ci colloca in una condizione insostenibile, in verità, in un momento di indecidibilità etica. Sicuramente l'indifferenza e la compiacenza debbono essere evitate. Ma l'esposizione alla violenza è dunque necessitata? Questo tipo di teoria—come quella di Derrida—sembra non lasciarci alcuno scampo dalla violenza. Di fatto, essa si serve di un concetto totalizzante di violenza, ovvero di una visione per cui non si può praticamente sfuggire alla violenza come forza o potere esercitato su di un altro (8). Adottata da molti post-strutturalisti, questa posizione definisce la violenza in modo così ampio che vi ricade qualsiasi azione, personale o collettiva, in cui si prenda una decisione. Bene, questo dà conto dell'ubiquità della violenza nelle religioni. Ma l'affermazione che la violenza è ovunque non ci offre alcuna acquisizione costruttiva, né ci conferisce risorse produttive per una fuoriuscita—religiosa o no.

 

Così, io propongo che siamo più specifici su quello che intendiamo per violenza. Questo implica due passi. Anzitutto la violenza deve essere definita come un atto che infligge ad un altro ferite o danni, vuoi nella persona (come nelle ferite fisiche o psichiche, guerra, pena capitale, ecc.) vuoi in modo sistemico (come nel razzismo, sessismo, povertà e ingiustizie di vario genere). La violenza non è solo l'esercizio del potere o dell'influenza, ma implica un uso lesivo del potere. Essa è di impedimento o di danno all'essere di una persona. Ma la violenza che qui mi interessa è qualcosa di più della violenza nella forma di atti di aggressione individuali. Piuttosto, in secondo luogo, è una violenza che distingue categorie, un'aggressione con certi fini e propositi contro certi gruppi di persone. Questo implica un processo collettivo, ovvero un uso offensivo del potere di un gruppo—nel nostro caso di una religione—contro altri che manifestano qualità distintive che vengono accusate di essere riprovevoli, giustificando in questo modo l'esercizio della violenza. È precisamente qui che l'opera di René Girard si rivela illuminante.

Girard riconduce la violenza ad un meccanismo del capro espiatorio fondato sulla rivalità mimetica, che infine produce la necessità di canalizzare l'aggressività su vittime espiatorie, sacrificate per il bene catartico del gruppo. La base di tutto questo è quello che egli chiama desiderio mimetico.

Il desiderio mimetico è un desiderio di essere, di una specie di pienezza auto-perpetuantesi. Ma siccome gli esseri umani sono contingenti, il desiderio è marcato dalla qualità dell'incompletezza. Desiderare significa non-avere, difettare di essere (9). Di qui deriva la natura acquisitiva del desiderio. Esso cerca di appropriarsi di un oggetto che promette abbondanza e sufficienza, qualcosa che soddisfi, riempia o colmi lo spazio vuoto di una mancanza che viene avvertita. Questo implica un'apertura oltre il sé, che si estende al mondo. Il desiderio si allarga oltre se stesso. E tuttavia per Girard il desiderio è molto più complesso di una semplice correlazione tra l'io desiderante e l'oggetto desiderato. Gli esseri umani desiderano qualcosa non a causa del suo valore intrinseco ma perché altri lo desiderano e lo possiedono. Dunque il desiderio è imitativo. Una cosa acquista valore agli occhi di una persona nella misura in cui essa desidera quello che altri desiderano (10). Vi è un effetto triangolare essenziale.

Dato che gli esseri umani non sono dominati dall'istinto, e non sono ben equipaggiati per procedere nel mondo come individui separati, gli esseri umani dipendono dagli altri per dirigere e canalizzare il desiderio verso i suoi fini (ad es. il riconoscimento, la sicurezza, la speranza, ecc., e questi dipendono dall'acquisizione di abilità, modi di fare, consuetudini, educazione, ecc.). Specificamente, noi abbiamo bisogno di modelli da imitare affinché i nostri desideri trovino oggetti corrispondenti. Inoltre, noi abbiamo bisogno di riconoscere noi stessi mediante il modello come sufficienti nell'essere. Il desiderio di essere, allora, si forma nel crogiolo di una rete di relazioni che mediano il desiderio. Invero, il modello media realtà e desiderio. Io non ho prima il desiderio di un oggetto che successivamente qualcun altro ostacola. Piuttosto, io desidero il desiderio che un altro ha di quell'oggetto. Così gli esseri umani desiderano gli oggetti mediante modelli, imitando o prendendo a prestito il desiderio del modello.

 

Di conseguenza, il desiderio umano funziona in modo tale da far crollare la distinzione tra modello e oggetto, nella brama di quella che viene percepita come pienezza di essere del modello. A ciò che viene imitato noi associamo l'«essere». Girard parla di questo come della fonte del desiderio di essere, quello che egli denomina «desiderio metafisico», un appetito di quell'autosufficienza che l'altro sembra possedere (11). Così, noi inconsciamente desideriamo il modello come una sorta di doppio, un altro che esibisce quella abbondanza e sufficienza che noi vogliamo. Noi non desideriamo soltanto possedere l'oggetto che un altro ha: piuttosto noi desideriamo possedere l'essere di un altro, essere l'altro. Poiché l'imitatore avverte una insufficienza o mancanza che contrasta con la pienezza di essere del modello. In quanto il desiderio del modello si riflette nel soggetto, Girard dice che avviene un processo di mediazione interna. Questa richiede una prossimità tra soggetto e modello o mediatore. Quando la prossimità tra i due si dilata in una distanza, allora sorge la mediazione esterna, che elimina il contatto tra le sfere del desiderio. Questo avviene quando un mediatore recede e rimane al di là dell'universo del soggetto, come un ideale elusivo che è più spirituale che reale, e pertanto non suscita rivalità. Sia nella mediazione interna che in quella esterna l'«impulso verso l'oggetto è in definitiva un impulso verso il mediatore». E nella sfera delle relazioni umane strette, come quella tra discepolo e maestro, la mediazione interna è fondamentale. L'impulso verso l'oggetto «è controllato dal mediatore stesso dal momento che egli desidera, o forse possiede l'oggetto» (12). Questo porta all'affermazione di Girard secondo cui il modello suscita una rivalità o competizione.

 

La mimesi acquisitiva diventa mimesi conflittuale. Due desideri convergono sullo stesso oggetto, producendo una tensione fra avversari che sfocia nel conflitto che, a sua volta, minaccia di sfociare nella violenza reciproca. Poiché a disposizione c'è solo una quantità limitata di beni, e questo naturalmente innesca scontri di rivalità. Crescendo il conflitto, tuttavia, l'oggetto si pone sullo sfondo, e al centro si colloca la rivalità stessa. I rivali diventano ostacoli l'uno all'altro, sforzandosi di conquistare l'essere che pensano appartenere all'altro. La lotta allora è per qualcosa di più vasto dell'oggetto: essa è per il senso di abbondanza o pienezza di essere che viene mediante il riconoscimento, l'onore, o un posto di preminenza di fronte all'altro. In questa lotta, alimentata dal desiderio metafisico, i rivali si imitano a vicenda e progressivamente giungono ad assomigliarsi, divenendo «doppi» l'uno dell'altro, mentre le differenze tra di loro si vanno assottigliando. I desideri convergono e la distanza tra soggetto e mediatore crolla. Mentre le distinzioni si offuscano, la competizione si fa più feroce, in quanto ciascuno cerca di distinguersi dall'altro assimilando l'altro (13). Il risultato è un ciclo di rivalità e competizione sempre crescente, che fa crescere il desiderio in modo esponenziale. Il processo si intensifica e si diffonde contagiosamente (mimeticamente) tra i membri di un gruppo finché minaccia di tradursi in un caos distruttivo. Inconsciamente, allora, al fine di riguadagnare coerenza e stabilità, il gruppo cerca di allentare la tensione giunta all'apice. Attua questo col trovare un capro espiatorio, una vittima sostitutiva su cui esso può trasferire i suoi impulsi violenti senza paura di una rivalità proporzionata. Una persona particolare viene identificata e accusata per le difficoltà del gruppo, sacrificata—uccisa o espulsa—come elemento sostitutivo per le rivalità mimetiche del gruppo. La violenza che ne deriva dimostra che ha avuto luogo un transfert collettivo di desiderio sulla vittima. Questo è ciò che Girard chiama il meccanismo del capro espiatorio (14). Il trasferimento delle frustrazioni sul capro espiatorio scarica la pressione del gruppo, dando sfogo alla sua pulsione alla violenza.

 

Su due punti occorre soffermarsi. Anzitutto, solitamente avviene che la vittima esibisca dei tratti stereotipati che la segnano come differente, staccandola dagli altri membri del gruppo—per esempio stranieri, disabili, streghe, eccetera. Questa differenza rende facile l'attribuzione di responsabilità alla vittima. Inoltre, questa differenza rende difficile alla vittima trovare risorse per resistere. C'è un differenziale di potenza. Il capro espiatorio così porta il peso delle disgrazie della società, non solo come un sostituto ma anche come quella che viene indicata e accusata come fonte del disordine sociale. Alla vittima sono attribuite malvagità e mostruosità. Ma qui scaturisce un'ironia. Poiché, in secondo luogo, quando si è sfogata l'aggressività, sul gruppo scendono una strana pace e un accordo collettivo. Paradossalmente, il beneficio positivo viene anch'esso attribuito alla vittima, che ora viene divinizzata come fonte di potere magico e di benedizione. Avviene un secondo transfert, la creazione di un dio, dato che si presume che solo qualcosa di sacro possa produrre un effetto calmante così drammatico (15). La vittima viene trasfigurata in un salvatore. Il vituperato diventa riverito, sacro. In luogo della divisione e del conflitto si sperimentano unità e pace. La comunità è libera dall'infezione. Secondo Girard, la cultura è mediata da questo processo generativo della violenza rituale. All'origine delle comunità sta la violenza collettiva del sacrificio, che stringe insieme la gente e fornisce l'accordo gestendo e contenendo la rivalità mimetica. Ed è qui che la religione ha la sua genesi. Girard scopre una logica che permea tutte le culture del mondo: un sacrificio originario è sacralizzato in un mito fondatore che viene narrato di generazione in generazione, rappresentando il sacrificio come fonte di ordine cosmogonico, che forma il cosmos da un caos precedente. I sacrifici rituali vengono ripetuti per riattualizzare questo assassinio primordiale, canalizzando il desiderio mimetico in modo tale da mantenere nel gruppo stabilità e unanimità. Invero, le proibizioni sociali e i tabù emergono come un modo per impedire alla rivalità mimetica d'intensificarsi, dal momento che la pace che risulta dal transfert del desiderio sulla vittima è soltanto temporanea. La violenza del sacrificio deve continuare, perché le rivalità non sono annullate, ma solo momentaneamente sospese. La società pertanto trae origine da una spinta religiosa mediante la quale gli esseri umani cercano di difendersi dalla loro stessa violenza e di curarla (16). L'ironia, però, è che la religione non può evitare di dover gestire ulteriore violenza. «La violenza è il cuore e l'anima segreta del sacro» (17).

 

Questo aiuta a capire il senso della «duplice natura» delle divinità, «la mescolanza di benefico e di malefico che caratterizza tutte le figure mitologiche che si intromettono nelle faccende umane» (18). Come la vittima espiatoria è contemporaneamente pericolosa e pacificatrice, così gli dèi sono terribili e amorevoli. Il doppio transfert del meccanismo del capro espiatorio dà forma alla sensibilità religiosa. Allora si comprende come le immagini monoteistiche di Dio contengano tale duplicità. Esse riflettono la logica sacrificale del conflitto mimetico. La caratteristica fondamentale del sacro, come quella della vittima, deriva dal suo essere fuori del normale controllo, il che simultaneamente respinge e attrae, suscitando timore e reverenza così come fascino e brama di possesso. Ora ad essere desiderato, spostando la rivalità mimetica nel gruppo, è l'essere sovrabbondante degli dèi. I miti parlano di prossimità tra dèi e umani, coltivando la mediazione interna. Mentre questo conduce inevitabilmente alla rivalità, tuttavia, v'è un paradosso che viene a far cessare il controllo sulla violenza fornito dagli dèi. L'essere sacro non può venire assimilato: esso sfugge al controllo perché la sua abbondanza di essere e la sua sufficienza stanno in contrasto all'esistenza umana. Coerentemente, i miti alla fine creano una mediazione esterna in cui gli dèi proibiscono il desiderio di acquisizione, ritirandosi per riaffermare la loro sovranità. Girard delinea il paradosso nel modo seguente:

Il dio che era apparso malleabile e compiacente, un servitore volonteroso dell'umanità, fa sempre in modo di dileguarsi all'ultimo momento, lasciando una scia di distruzione. Allora gli uomini che hanno cercato di piegarlo al loro uso si rivolgono l'uno verso l'altro con intento omicida. …Finché una divinità è reale, essa non può servire da premio che può essere vinto in un confronto. In quanto la si guarda come un premio, essa è soltanto un fantasma che invariabilmente sfuggirà alla presa dell'uomo e si volgerà in violenza (19). Si racconta che gli dèi—che rappresentano ideali desiderati come onore e prestigio—pongano gli uomini al loro posto, rivelando il loro scontento di fronte alla rivalità con l'abbandonare gli uomini nel disordine e ritirandosi in un'assenza trascendente. Agli uomini non è consentito prendere ciò che appartiene soltanto agli dèi (20). Mentre il sacro sfugge ai meccanismi di controllo oggettivo, diventa infinito e assoluto, facendo collassare nuovamente ogni cosa nella frenesia mimetica. Si finisce con una «misura infinita di desiderio»—un desiderio metafisico (21). E il risultato è la violenza.

 

Alla luce di questo, Girard sviluppa una critica tranciante dei miti religiosi. La sua idea è che essi siano fondamentalmente ingannevoli e pertanto incapaci di fornire quello che promettono. Essi creano l'ordine mediante una strategia di evasione che finge una pace mentre ha un sotterraneo commercio con la violenza, in realtà creando ulteriore violenza. Ovvero, essi coprono e mascherano la complicità della società nella violenza e perfino incoraggiano la continuazione del processo vittimario sostitutivo e della persecuzione. La religione cerca di purificare, ma fa questo mediante la purgazione sacrificale. Fin tanto che noi non riconosciamo il sacrificio per quello che esso è—la trasformazione di altri in capri espiatori per alleviare il conflitto mimetico—siamo obbligati a partecipare alla sua falsa condanna di individui innocenti, creando vittime sostitutive per togliere i nostri conflitti. Così Girard vuole scostare il velo ed esporre ciò che la religione e la cultura cercano di nascondere: la violenza.

In effetti, egli offre un correttivo, un modo per riabilitare le vittime e affermare la loro innocenza. È la logica dell'amore non-violento che Girard trova nei testi biblici. Egli afferma di aver scoperto nel Giudaismo e specialmente nel Cristianesimo non solo un riconoscimento, ma anche un'esposizione e un deliberato ripudio del meccanismo del capro espiatorio (22). Secondo lui, la risposta non-violenta di Dio alla rivalità mimetica rende la religione biblica esente dalla logica della vittimizzazione. Nella Bibbia Dio rivela il sé divino in un modo che lo identifica con la vittima innocente, anche fino alla morte su di una croce, e questo rovescia la violenza sacrificale e stabilisce un regno d'amore. Dio si manifesta in solidarietà con gli emarginati, i deboli, gli schiavi, riscattando la vittima in una logica antisacrificale che pone in luce la menzogna della persecuzione espiatoria. Facendo vedere il meccanismo del capro espiatorio per quello che esso è, la testimonianza biblica ha il potere di rovesciarlo e di bloccare la disseminazione della violenza.

 

Mentre indagheremo questo più a fondo fra poco, a questo punto è importante fermarsi e notare come la teoria di Girard stimoli una critica su quattro punti. Anzitutto, la soluzione che propone per la rivalità mimetica è miope e totalizzante. Essa per rinunciare alla violenza esclude a priori ogni risorsa che provenga da altre tradizioni , come quelle che si trovano nell'Islam, nell'Induismo o nel Buddismo. E, come rileva giustamente Lefebure, questo è problematico in quanto perpetua un senso di trionfalismo esclusivo (23). Secondariamente, pone ugualmente un problema la pretesa di Girard che la rivelazione di Dio sia incompleta nella Bibbia ebraica, e piena soltanto nel Nuovo Testamento (24). Questa logica di sviluppo sposa un discutibile supersessionismo che nullifica l'integrità del Giudaismo. Conseguentemente, terzo punto, la teoria di Girard fa delle affermazioni che eccedono di gran lunga l'evidenza biblica, privilegiando certi testi a discapito di altri che potrebbero inficiare la sua tesi (25). In realtà, temi sacrificali si trovano sparsi nella Bibbia ebraica e nel Nuovo Testamento, e Girard lo nota. E tuttavia rimane la questione se egli non sia troppo sbrigativo nel rivendicare la sua lettura anti-sacrificale, che culmina nella croce.

 

Questo ci porta ad una quarta critica, che è la più inerente al mio proposito. Girard tende ad assumere una dottrina su Dio che sorvola sulle ampie connessioni delle immagini monoteistiche sia con la violenza che con la non-violenza. Non dobbiamo addentrarci molto nella lettura della Bibbia per trovare immagini di un Dio violento e irato che non ha alcuna pazienza coi nemici di Israele o con quelli che avrebbero rigettato il Vangelo. Si tratta di una reinstallazione della violenza che è stata ripudiata? E se è così, perché? Su quali basi Girard asserisce un Dio non-violento in mezzo ad altre rappresentazioni violente? Come giustifica la sua ermeneutica su basi bibliche? In conclusione, il suo appello alla rivelazione sembra forzato e circolare. Io suggerisco che noi dobbiamo guardare più a fondo di quanto fa Girard nel carattere del Dio a cui viene attribuita la non-violenza, distinguendo questo Dio dal Dio violento anch'esso presentato dalle tradizioni bibliche. Questo richiede un esame delle radici del monoteismo mediante la stessa teoria di Girard, offrendo uno specchio interpretativo alla sua critica.

 

II. Il conflitto mimetico, l'identità collettiva e il Dio singolo

                                                    

Fondandoci sulla teoria di Girard, dobbiamo anzitutto notare che il processo sacrificale fornisce simultaneamente due risultati. In primo luogo, sul gruppo scende una strana pace, la quale dà vita alla creazione di dèi. La vittima diviene un significante trascendente. Tuttavia, in secondo luogo, si dà una pacificazione del desiderio, una sorta di appagamento che dissolve la rivalità costruendo continuità e lealtà tra i membri del gruppo. I rivali convergono su di un nemico comune, superando la rivalità reciproca. E come la vittima diviene una fonte di benedizione, riverita come sacra, così anche la vittima diviene la fonte dell'unità del gruppo, imponendo ordine al caos. Si forma un'identità collettiva, un senso di «quello che siamo». E «quello che siamo» si erge contro «quello che non siamo»—il differente e l'estraneo come fonti di frattura collettiva. Quindi i desideri vengono allenati sull'identico, l'identità di un noi, e questa è simbolizzata concretamente dal sacro, l'oggetto di un desiderio di essere divenuto collettivo. Questo è il risultato di un doppio transfert.

Mentre la vittima portava disordine, gli dèi ci appagano e ci benedicono, rendendoci quello che siamo. Paradossalmente, gli dèi rappresentano insieme quello che siamo noi e quello che sono gli altri, e questo avviene al prezzo di vittime sostitutive.

 

L'ovvio approccio durkheimiano che sto sviluppando da Girard può essere istruttivo. Esso corrobora l'idea di Girard che la cultura e la religione siano momenti gemelli dello stesso impulso generativo, mentre la logica della rivalità mimetica dà luogo simultaneamente al sacrificio, al sacro e all'identità di gruppo. Ma, oltre a ciò, esso ci offre un modo per comprendere la genesi delle chiusure collettive, ovvero come i gruppi mediano il desiderio come insiemi collettivi, creando legami tra coloro che sono all'interno e contro quelli che sono all'esterno (dentro-il-gruppo contro fuori-del gruppo). Qui c'è una logica duale. Noi diventiamo sicuri di noi stessi proiettando la rivalità su una macro-scala, nella forma di un noi contro un loro. Vengono tracciati e consolidati dei confini, che acuiscono il contrasto. Allora gli atti rituali di purificazione che commemorano un sacrificio originario divengono mezzi per mettere sotto controllo le differenze tra i membri del gruppo espellendo l'impuro e il pericoloso, quello che non si accorda con l'identità del gruppo e quindi è fuori. E il potere mediante il quale facciamo questo viene dagli dèi—quelle potenze la cui differenza qualitativa benedice e conferisce l'essere. In un modo più stratificato, in quanto diverse potenze sono congiunte in una immagine univoca del sacro, questo è il meccanismo che sta dietro l'emergere del monoteismo ebraico dal politeismo e dall'enoteismo. Negli scritti sacerdotali più tardi, il potere del riconoscimento di gruppo deriva da un Dio specifico che viene a rappresentare tutti i valori e gli ideali di un'identità nazionale condivisa. Secondo la mia opinione, il monoteismo compare sulla scena storica come una reale possibilità precisamente in quelle situazioni in cui il conflitto mimetico è più intenso, in ambienti collettivi più ampi che si estendono attraverso una varietà di popolazioni con interessi che si incrociano e si sovrappongono. L'idea di un Dio unico crea l'unanimità forgiando un più vasto e polemico senso di contrasto tra noi e loro. Di conseguenza proibizioni e tabù funzionano sotto l'immagine di Dio per preservare l'ordine sociale. E, naturalmente, il perpetuo sacrificio di vittime sostitutive assicura la longevità di tale ordine, rinnovando ritualmente la pace contro la discordia di quello che si presume stia fuori dell'identità del gruppo. Quello di cui stiamo parlando qui, tuttavia, è un certo genere di monoteismo: il monoteismo tribale. Dio è un potere unificato, sovrano sopra di noi, il nostro gruppo. E in quanto l'identità di gruppo è assicurata dal nostro Dio, i cui poteri ci uniscono e ci benedicono, questo Dio viene visto come quello che ci costituisce o ci elegge sopra e contro gli esterni, che ci dividono e devono essere accusati di ciò che ci affligge. L'ostilità fomentata nel calderone del conflitto mimetico viene trasferita su di loro. La differenziazione tra noi e loro è capitale, e diventa carica di polemica. La violenza non è più in noi: essa è fuori di noi, in altri.

 

Questo spiega la duplicità così onnipresente nei diversi monoteismi: il nostro Dio è un Dio di pace, ma solamente in proporzione diretta al suo giudizio e alla sua ira vendicativa sugli altri. Quando l'identità è minacciata, deve essere difesa. Poiché si sostiene che una violenza sia stata commessa contro di noi, dall'esterno—perfino se l'esterno include alcuni che sono all'interno del gruppo. Questa logica difensiva o polemica motiva l'indignazione moralistica e ispira la violenza categoriale che vediamo nelle cacce alle streghe, nella pulizia etnica, nelle crociate, nei genocidi, e nelle azioni imperialistiche di sottomissione dei selvaggi. Essa sta anche dietro ai diversi fondamentalismi. Nel monoteismo tribale, la percezione di essere assaliti, di essere vittimizzati, maschera il desiderio di vittime sostitutive. Con Dio al nostro fianco, noi ci dobbiamo purgare dei mali, liberandoci delle impurità e di ciò che ci contamina, tutto in nome della pace. Il contrasto tra noi e loro viene intensificato dal suo essere moralizzato e impregnato di valore religioso. Dio è per noi. Dio sconfigge Baal.

 

Questa duplicità cresce quando il monoteismo tribale si sviluppa in ambienti cosmopoliti e viene trasposto in una chiave più universale (26). Le rappresentazioni della divinità vengono a rappresentare un movimento globale. E questo introduce quello che chiamerò monoteismo universale. Storicamente parlando, la differenza tra questi due monoteismi potrebbe essere meglio formulata in termini di monolatria e monoteismo—rispettivamente la devozione ad un solo dio sopra e contro altri dèi, e la devozione al Dio unico. Le immagini monolatriche della divinità funzionano principalmente come monoteismi tribali, miranti a preservare l'identità del gruppo contro la contaminazione ad opera di influenze estranee. Ne è un esempio la religione civile, in cui il gruppo e Dio sono coestensivi. In un contesto globale, questa opera per giustificare politiche estere che contrappongono il nostro bene ad altri che sono ritenuti portatori di male. Ma, in realtà, la svolta verso il monoteismo universale equivale all'universalizzazione del monoteismo tribale. Qui, il nostro Dio diventa il Dio di tutta la creazione e di tutti i popoli. Gli altri dèi sono falsi e vani, non-esistenti.

Contestualmente, il gruppo giunge a riconoscersi come svolgente un ruolo unico nella salvezza di tutti—cioè, nella restaurazione della pace tra tutti i popoli. In luogo della differenziazione, ora si prospetta una convergenza di tutti i popoli e gruppi. Ironicamente, tuttavia, in tale convergenza la pace può essere stabilita solo al prezzo del mantenimento di vittime espiatorie. Quindi non tutti i popoli sono benedetti. Certuni debbono rimanere all'esterno—gli eretici, infedeli o mostri di un qualche tipo. Questo fatto rende il monoteismo universale tanto più violento. Poiché viene introdotto un meccanismo imperialista di evangelizzazione che cerca di assimilare e di rimodellare tutti ad immagine perfetta di quelli che sono dentro il gruppo, stabilendo proibizioni che reprimono le minacce, e rituali che recidono quelle minacce, tutto sotto lo stendardo della riconciliazione e della pace. Un mondo, un popolo, un Dio. Agire nel nome di Dio significa così vincere la violenza mediante la violenza.

 

In questo modo arriviamo a quel che diceva Hent de Vries: optare per Dio significa optare per una certa violenza. L'importanza di Girard emerge nel fatto che egli ci aiuta a vedere come la violenza cattiva della rivalità mimetica sia tenuta a bada da una violenza presunta buona, la violenza del sacrificio che garantisce la pace tra i membri all'interno del gruppo. L'intero processo, tuttavia, si basa su di un'illusione, una dimenticanza che copre la violenza reale che opera. Noi siamo intrappolati in un ciclo di violenza. Tuttavia, nelle sue ultime opere Girard è attento ad evitare il disfattismo, notando che il desiderio mimetico non è cattivo o violento di per sé. Egli afferma: «Se il desiderio non fosse mimetico, noi non saremmo aperti a quello che è umano o divino. Il desiderio mimetico ci mette in grado di evadere dalla sfera animale. Esso è responsabile del meglio e del peggio di noi, di quello che ci abbassa sotto il livello animale come di ciò che ci innalza sopra di esso» (27). Il desiderio diventa cattivo soltanto in una situazione di rivalità, dove anche il mediatore o modello desidera l'oggetto e in questo modo minaccia di vanificare la nostra appropriazione. Un buon modello renderà buona la mimesi (28). Ma per essere realmente buono, e non semplicemente differire o ricapitolare la violenza, questo deve essere un modello non-violento, e di più, uno che mette in luce e ripudia la violenza del meccanismo del capro espiatorio per quello che esso è: una menzogna.

 

Per Girard solo il Dio monoteistico dell'amore rivelato nelle tradizioni bibliche può fare questo, propriamente in quanto questo Dio sta con le vittime e illumina la loro innocenza. Laddove i miti religiosi attraverso i millenni hanno tentato di convincerci della nostra innocenza rispetto alle persecuzioni dei capri espiatori, la Bibbia, di contro, mostra «un movimento contrario, un tentativo di attingere le origini e guardare ancora una volta agli atti costitutivi di transfert così da screditarli e annullarli—così da contraddire e demistificare i miti» (29). Trovando la soluzione definitiva nei Vangeli, Girard proclama che la morte di Gesù sulla croce non è sacrificale: piuttosto, essa è una sovversione totale del sacrificio, poiché Gesù è perfettamente innocente, e questo demistifica il meccanismo mediante il quale l'ostilità viene trasferita su di una vittima sostitutiva (30). Gesù muore «al fine che non vi siano più sacrifici» (31). Quindi, imitare Gesù, che a sua volta «imita Dio in uno spirito di obbedienza fanciullesca e innocente», consente che una mimesi buona si diffonda e si rinforzi reciprocamente tra i membri del gruppo. Perché? La risposta di Girard è succinta: «Dal momento che in Dio non vi è alcun desiderio acquisitivo, questa imitazione non può causare rivalità mimetica» (32). E questo dà luogo a quello che Girard chiama contagio positivo.

Qui Girard postula che il Dio biblico in sé non sia un prodotto della rivalità mimetica, ma sia realmente rivelato. Egli afferma: «Dio non è violento, il Dio vero non ha nulla a che fare con la violenza, e non ci parla attraverso intermediari distanti ma direttamente. Il Figlio che ci manda è una cosa sola con Lui. Il regno di Dio è qui» (33). In Gesù si manifesta un'etica antisacrificale dell'amore. Ma questo va troppo in là nella direzione di privilegiare certi testi come auto-evidentemente rivelatori. Dio «ci parla» direttamente. Ma come lo sappiamo? Perché, sostiene Girard, la menzogna del meccanismo vittimario è messa in luce, e la rivalità mimetica viene soppressa.

 

Per stabilire la pace gli esseri umani non hanno bisogno del sacrificio.

Io concordo con quest'ultima affermazione, ma propongo un'ottica differente per oltrepassare la rivalità mimetica, un'ottica che guarda alle linee generali dell'affermazione di Dio, linee che possono essere trovate anche nelle tradizioni non-bibliche.  Invero, se il desiderio mimetico nei suoi fondamenti è buono perché noi siamo creature di Dio, allora entro la Creazione vi dovrebbero essere delle più ampie risorse per la non-violenza, e che rendono possibile l'esperienza della rivelazione. Girard per questo ci offre uno spunto, ma la sua caratterizzazione della violenza è troppo totalizzante, rendendo praticamente impossibile evitare il conflitto mimetico senza l'impulso rivelatorio diretto di Dio. Ironicamente, questo riflette un assolutismo che squalifica ogni cosa al di fuori della sfera d'influenza della Bibbia, portando ad una logica imperialistica. Invece, cerchiamo delle tracce di apertura auto-trascendente nel modo in cui il referente Dio funziona all'interno della testimonianza biblica, che può—ma anche può non—produrre un processo trasformativo che coltivi la non-violenza.

 

III. Nominare Dio: L'apertura del discorso biblico

 

Riferendoci alla discussione precedente e guardando anzitutto a determinati testi delle scritture ebraiche (e precisamente ai profeti), noi troviamo l'esperienza di Dio come quella di un volere sovrano unificato, un potere la cui presenza è resa palpabile nella storia. L'unità di Dio, come una pluralità di poteri stretti insieme in una singola presenza divina, agisce come una forza guida che informa la spinta del monoteismo tribale ebraico, conferendole l'energia che le consente di allontanarsi dalle religioni politeistiche della fertilità praticate dalle popolazioni semitiche circostanti. («Ascolta, Israele: il Signore nostro Dio è un Signore unico… tu non seguirai altri dèi», Dt. 6.4). Combinandosi con l'idea che Dio è una volontà vivente e personale, che per un suo scopo entra in relazione con un popolo storico mediante eventi salvifici ed una giustificazione etica, il principio dell'unità stringe il dramma dell'antico Israele in un tutto coerente. Yahweh viene ad essere adorato come divinità sovrana sulla base della sua capacità di creare e preservare la nazione ebraica, liberandola dalle diverse potenze che minacciavano di schiacciare la sua vita collettiva, e, mediante la parola pronunciata (dabhar), coordinando la sua esistenza storica grazie ad un patto. Dietro la manifestazione redentiva di Dio, allora, sta un soggetto volizionale unitario—un Tu—che rimane stabile e fedele attraverso il flusso della storia.

Qui il contesto dell'immaginazione religiosa è la dimensione morale della personalità e le sue implicazioni etiche pratiche per l'identità collettivo-storica di un popolo. Dio non è una potenza astratta della natura o il principio dell'essere, ma una volontà personale e morale aperta nella trasformazione liberatrice di una comunità storica, che chiama le persone ad una relazione giusta con la divinità e con gli altri uomini. Come la presenza personale è un agire che si pone di fronte al mondo degli altri al modo di un incontro, così analogamente il modello dell'apertura divina o rivelazione è un modello di incontro agenziale: Dio viene al popolo.

 

È importante notare questo. Poiché il carattere della presenza di Dio è conosciuto principalmente attraverso configurazioni narrative, cioè attraverso l'intrecciarsi dell'esistenza collettiva di Israele in una forma raccontata. In un importante saggio, Paul Ricoeur mette in risalto questo fatto come la risorsa per nominare Dio. Egli afferma:

«La teologia delle tradizioni nomina Dio all'interno di un dramma storico che si propone come un racconto di liberazione. Dio è il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe, il protagonista del grande gesto del riscatto… Dio è designato dalla trascendenza degli eventi fondatori rispetto al corso ordinario della storia… Dio è nominato nella 'cosa' raccontata» (34).

Essenzialmente, Ricoeur afferma che Dio è nominato in un atto collettivo di interpretazione che narra esperienze del passato a se stessi e agli altri. E questo non accade attraverso un singolo medium ma in forme diverse, ciascuna delle quali si basa su di un modo narrativo di professare la traccia di Dio in eventi. Profezie, leggi, inni, proverbi, preghiere, formule liturgiche e scritti sapienziali, tutti impiegano il referente «Dio» in vari modi, manifestando propositi differenti che allo stesso tempo convergono come parte di una storia che procede. Ma tra tutto questo non vi è una coerenza adamantina. Vi è, piuttosto, quello che Ricoeur chiama «polifonia», il sovrapporsi di discorsi parziali e incompleti (35). Il significato di Dio è animato dalla contaminazione di molteplici discorsi.

 

Questa polifonia causa una instabilità interna nella testimonianza biblica , in cui vi è, secondo Ricoeur, un surplus di significato. Così possiamo concordare con Mark Wallace quando sostiene che «La teoria letteraria di Paul Ricoeur offre un correttivo espansivo all' ermeneutica biblica di Girard» (36). In questi testi è all'opera più di quanto possa essere contenuto da un genere letterario o schema interpretativo—cioè la logica antisacrificale della rivelazione di Dio. Invero, secondo Ricoeur «Il referente-Dio è insieme il coordinatore di questi discorsi variegati e l'indice della loro incompletezza, il punto in cui qualcosa sfugge loro. Egli prosegue affermando che comprendere la parola «Dio» implica seguire la direzione del significato della parola, «il suo doppio potere di radunare tutte le significazioni che scaturiscono dai discorsi parziali e di aprire un orizzonte che sfugge alla chiusura del discorso» (37). È questo orizzonte di surplus che richiede un'interpretazione e ha la possibilità di attuare delle aperture rivelatrici di significato che riconfigurano l'esperienza dell'interprete, illuminando nuovi mondi in un dialogo continuo tra testo e interprete. La rivelazione non è nella Bibbia, ma piuttosto avviene «di fronte» al testo nel momento in cui il mondo dell'interprete è messo in questione e trasformato.

 

Questo tipo di trasformazione interpretativa è evidenziata nella Bibbia stessa, allorché il monoteismo universale emerge davanti all'esperienza dell'esilio. Nel contesto di una terra straniera, senza il Tempio e tra dèi stranieri, la comunità narra la storia della sua fondazione in un modo che nomina Dio in modo differente, separato dalle forme monolatriche e tribali. Tutti gli attributi della potenza divina iniziano ad essere concentrati in una singola volontà onnicomprensiva. Ora ad agire nella legione delle forze mondane vi è un Dio solo, Signore della creazione e di tutta la storia, uno che è fedele in tutti i suoi atti e le sue leggi. Il Dio di Israele è il Dio Unico di tutta la creazione, «Dio altissimo», un Dio che con forza sovrana toglie alle divinità locali il loro potere («Io sono il primo e l'ultimo; non vi è altro dio accanto a me» - Isaia 44, 6—Deuteroisaia). Questo tipo di singolarità fornisce un più acuto senso della trascendenza. Nel politeismo, molte divinità si scontrano fra loro, speso in modi imprevedibili e capricciosi, incarnando i poteri terreni in conflitto. È la sua unicità singolare accoppiata all'unità quella che pone Dio come separato dal multiforme e contingente mondo del cambiamento. E questo fatto porta a conseguenze radicali: la mediazione esterna.

 

Dio è qualitativamente differente da qualsiasi altra cosa, avendo un nome che eccede tutti gli altri. In realtà, Dio è innominabile. Il referente «Dio» significa l'incompletezza di tutti i discorsi su Dio, il fine comune di ogni forma di discorso biblico, ma un fine che li elude tutti. Esso sorpassa il nominare umano e non può essere ridotto a conoscenza. Come è illustrato dall'episodio del roveto ardente in Esodo 3, 13 - 15, il nome di Dio è tale che nessun umano può vantare potere sopra la divinità. «Io sono colui che sono» indica un tipo di esistenza che, secondo Ricoeur, «Protegge il segreto dell' in sé di Dio» che è qualcosa al di là dell'attribuzione di un nome, e non può essere tenuto a disposizione del nostro linguaggio».  Tale segreto, a sua volta, «Ci rimanda alla nominazione narrativa attraverso i nomi di Abramo, Isacco e Giacobbe, e per gradi alle altre nominazioni». L'appellativo «Yahweh» quindi non è tanto un nome che definisce Dio quanto un segno che marca atti di liberazione e dà sostanza a speranze future (38).

 

Non dovrebbe sorprendere che il referente «Dio» per la comunità post-esilica si ritiri nell'infinità e conduca a forti ingiunzioni anti-idolatriche. Poiché esso revoca le configurazioni antropomorfizzate del divino e resiste alle tendenze a formare dalla testimonianza biblica un tutto coerente e «continuo». Portando il discorso al limite, il referente «Dio» consente allo straordinario, al creativo, al nuovo di irrompere nell'ordinario, nel monotono, nel prevedibile. Per Ricoeur, questo spiega come funzionano le parabole, i proverbi e i detti escatologici. Essi oltrepassano le forme letterarie usuali con iperboli e paradossi, diventando «espressioni-limite» (39). Impedendo la chiusura narrativa, la trascendenza di Dio implica un'azione negativa che destabilizza la posizione referenziale positiva del linguaggio circa Dio. Il linguaggio sorge entro il mondo e lo esprime. Esso è pregno di mondo: i suoi referenti sono entità e sistemi condizionati dai progetti umani. La differenza qualitativa di Dio significa che nessun discorso (nessun termine, nessuna relazione, nessuna immagine) può direttamente descrivere o esprimere il reale essere di Dio, poiché la trascendenza di Dio nasconde il divino ai modi di conoscere umani. Dio non può essere Misurato, manipolato, controllato o circoscritto da sforzi umani, rimanendo nascosto perfino in quanto dischiuso e rivelato (Is. 45, 15). La presenza di Dio è sempre elusiva e mai assoluta o garantita. Vi è una sola divinità, non paragonabile ad alcuna cosa creata, e le vie di questa divinità sovrastano le capacità degli umani (Is. 55) (40).

 

Viene alla ribalta un punto chiave, che ci aiuta a oltrepassare il concetto di Girard del sacro che recede in un'assenza trascendente, ributtando il desiderio violentemente sopra gli umani. Esso anche ci aiuta a scorgere dei tratti redentivi positivi nel movimento verso un monoteismo universale. Poiché prescrivendo delle limitazioni all'uso di oggettivazioni e immagini umane come veicoli verso Dio, il comandamento contro l'idolatria (Ex. 20, 2 – 5) rompe i meccanismi competitivi di chiusura e apre il discorso ad una sovrabbondanza di significato. Qui il paradosso è importante. Si dischiude un orizzonte di eccesso che non può essere circoscritto, ma che allo stesso tempo richiede un'esplicazione interpretativa. Una sovrabbondanza di significato sollecita una configurazione creativa. Compreso alla luce di Ricoeur, questo è ciò che alimenta l'innovazione semantica e impedisce al desiderio di collassare su se stesso in un'ondata possessiva che acuisce la rivalità mimetica. Neutralizzare le immagini antropomorfiche di Dio serve a ritagliare uno spazio perché diversi ed eterogenei modi di discorso possano tendersi fino al limite, permettendo all'interprete di «pensare di più» in quanto si dischiudono nuove possibilità di significato. Invero, si è trasposti, per così dire, in un nuovo modo di essere abitando un mondo differente. E questo mondo è creativo e dinamico, e scorre e muta in quanto diventano possibili differenti immagini e discorsi su di esso.

 

IV. L'Idolo e l'Icona: verso un monoteismo iconico

 

Secondo Ricoeur, l'idolatria emerge con la propensione a rappresentazioni antropomorfiche di Dio in sistemi di chiusura (41). Questi sono strutture che impediscono al nome di Dio di sfuggire al discorso, strutture che rifiutano lo stato incompleto e parziale delle configurazioni umane e ostentano la perentorietà. L'idolo è un modo di figurare il divino che ripudia il surplus contenuto nel nominare Dio. Questo ripudio costituisce una paradossale negazione doppia in quanto (1) nega la finitudine, cercando di rifiutarla col superamento della contingenza del discorso, e (2) nega l'infinito, sopprimendo la capacità del Nome di esprimere più che se stesso. Così si rende finito l'infinito, e di converso si infinitizza il finito come assoluto. In questo modo l'idolo esibisce una densità semantica che esso non possiede. È una menzogna, e una menzogna basata sulla paura—cioè sulla paura della contingenza e dell'incompletezza, della mancanza di essere sperimentata per mezzo del rivale. L'idolo prospera in una logica di scarsità, alimentandosi della paura del non-essere.

Precisamente a questo punto l'analisi di Girard diviene un utile supplemento a quello che abbiamo spigolato da Ricoeur, tracciando delle connessioni tra idolatria e violenza che Ricoeur non esplora. Diventando il punto di riferimento supremo, un discorso parziale diviene il centro di gravità che controlla tutto il significato. Questo offre una spiegazione del meccanismo sacrificale e di come le vittime sostitutive vengano a fornire ad un gruppo la pace e l'identità. Poiché l'idolo ostenta la capacità di reprimere la rivalità mimetica, creando proibizioni e organizzando ripetizioni rituali, il cui effetto canalizza il flusso del discorso. Temendo la violenza, gli esseri umani si volgono all'idolo per ottenere salvezza e pienezza di essere. Ma l'idolo richiede un sacrificio. Questo spiega come il monoteismo tribale funziona nel mettere a punto i contrasti tra chi sta dentro e chi sta fuori, col nostro Dio che ci privilegia e ci protegge dalle impurità degli altri. Garantendo una correlazione immediata tra la volontà di Dio e quella della comunità interpretativa, l'idolo giustifica la violenza polemica contro le minacce che vengono percepite, in nome della pace, un nome che viene identificato con Dio.

 

È opportuno menzionare tre tratti patologici di questo processo, ciascuno dei quali ha un effetto di restringimento. Anzitutto, rifiutando che il finito sia finito, l'idolo oscura le differenze. Esso mobilita un senso costrittivo e totalizzante dell'identità di gruppo che falsifica la diversità, incompletezza e relatività dei suoi discorsi  proiettando la sua singolarità e ponendo confini intorno a tutto quel che rientra nella sua sfera d'azione, in questo modo affermando e salvaguardando se stesso. E simulando un tale dominio comprensivo, l'idolo crea una cecità ideologica dalla quale ogni genuina differenza viene sistematicamente messa fuori gioco (cioè esclusa, e deprivata di ogni valore) o messa al suo posto (cioè strumentalizzata e assimilata). Così l'idolo è opaco: esso blocca il flusso di ciò che eccede, non ammettendo nulla oltre a sé. Il risultato è l'eteronomia, un'abietta sottomissione della differenza a favore dell'identico.

 

In secondo luogo, l'idolo ha un effetto di restringimento in quanto esso è ingannevole, nascondendo la verità circa la contingenza in generale, e in particolare circa il suo stesso status limitato e insufficiente. Esso pretende una certezza e una definitività che non possiede, esercitando un falso potere. Più sottile, tuttavia, è la violenza dell'idolo. Essa prevale nel meccanismo del capro espiatorio, inconscia delle sue origini, dimentica del suo inganno. Pretendendo di portare una pace che non può portare, poiché scaturisce dalla rivalità mimetica, l'idolo tiene sotto il suo dominio una comunità che rimane inconsapevole di essere stata fatta scivolare dentro una chiusura identitaria. Essendo autoingannevolmente opaco, l'idolo è incapace di affrontare il dissenso e la possibilità di una integrazione, di un arricchimento o riforma. Qui vi è una psicologia circolare. Per avere il potere di ingannare gli altri, bisogna avere prima ingannato se stessi. Di conseguenza, ingannare gli altri diventa uno sforzo continuo per convincere se stessi della menzogna. E in questo processo aumenta il disprezzo per i rivali.

 

Collegato a questo, ecco il terzo punto. L'idolo restringe esattamente  nel suo funzionare ironicamente per esacerbare proprio quell'angoscia e paura che si vanta di sopire. Come una gabbia di ferro, esso rinchiude i suoi aderenti facilitando ulteriori e più grandi atti di chiusura. Perché? Perché in ultimo dei beni finiti non possono attribuire quella pienezza di essere che è pregustata dalla rivalità mimetica. L'idolo è dubbioso, fragile e debole, e quindi bisognoso di costante sostentamento e protezione dallo smascheramento. Esso richiede purificazione e ornamento, e che il suo credibile potere sia reso efficace tramite faticose narrazioni e consacrazioni attualizzate, col costante sacrificio delle impurità contaminanti. Invero, l'idolo ha un effetto stabilizzante come chiusura solo fin tanto che è feticizzato, reso rigido e consolidato nel suo luogo, riempito di potere autoritativo da un atteggiamento di insistenza (42). Anche qui, tuttavia, esso non può convincere definitivamente. Come un circolo vizioso, l'idolatria crea maggiore rivalità, e nel far questo alimenta un atteggiamento polemico verso tutto quello che potrebbe minacciare il suo status sacrosanto e minare la falsa sicurezza che esso procura. L'idolo non può far altro che promuovere sempre di nuovo l'accomodamento e il conformismo contro la creatività e l'innovazione semantica (43). Tuttavia, mentre un nuovo idolo non fa che soppiantarne uno vecchio, un qualcosa dotato di una forza positiva e determinata può rimpiazzare l'idolo. Paradossalmente, questo qualcosa non è affatto un oggetto: piuttosto, è apertura all'infinito surplus di significato contenuto nel nome «Dio». Evitare l'idolatria, allora, non è solo questione di sostituire un'immagine idolatrica con un'altra che è veramente Dio, poiché questa non sarebbe che un altro idolo. È, piuttosto, questione di aprirsi alle possibilità creative delle espressioni-limite per nominare Dio. Un monoteismo non idolatrico designa un nome che si auto-supera, riflettendo la non-chiusura dell'infinito. Paradossalmente, esso nomina senza nominare, limitando senza limitare. Il linguaggio del limite è un linguaggio eccedente che trascende la sua limitatezza locale, riferendo mediante il non-riferimento.

 

Nell'affermazione di una realtà ultima singolare e sovrana è intrinseca, allora, una doppia visione. Essa dice mediante un non-dire e un ri-dire. Il divino non solo si rivela—identificandosi con una cosa, persona o gruppo, sacrificati o no, particolari—ma si rivela come nascosto, come al di là del medium dell'incontro. E questo apre possibilità interpretative in cui il ruolo creativo dell'immaginazione diviene predominante. Espressioni limite, come modi designati di nominare Dio, ottengono il loro potere come prodotti dell'immaginazione. E l'immaginazione è una forza strutturante e destrutturante. Essa struttura in quanto prevede le cose e le organizza in configurazioni o chiusure momentanee. Ma anche destruttura in quanto riapre queste chiusure alla vitalità di possibilità nuove (44). Come scrive Paul Avis, « Mediante l'immaginazione ci è consentito di dimorare nel mondo della credenza religiosa e di ottenere una visione di come potrebbe essere la vita se quel mondo fosse vero » (45). Aggiungerei che è proprio quel «come se» a contrassegnare l'immaginazione come metaforica.

 

Ricoeur afferma che la metafora—l'associazione di è e non è di una designazione affermativa—è la radice di ogni significato linguistico (46). La metafora è un evento in cui due media semantici sono reciprocamente giustapposti, posti insieme in una simultaneità che non è di fusione né di separazione. Non riducendo quel che è differente al simile e già conosciuto, né semplicemente consentendo al differente di scivolare in un'alterità impenetrabile, le metafore indicano la capacità immaginativa di distendersi e porsi tra il familiare e l'estraneo. Tra il simile e il dissimile  ha luogo un'interazione tensiva che non è una mera ripetizione di significati dati per scontati ma una nuova configurazione di significato. Per usare la terminologia di Gadamer, si fondono due orizzonti semantici, e mediante il loro libero scambio vengono sospesi i modi ordinari di guardare alle cose, e noi veniamo disposti a vedere qualcosa di nuovo (47). Per mezzo di questo trasferimento di significati appare una nuova gestalt. Qualcosa è visto come qualcos'altro (48). Il familiare è visto attraverso il non familiare e il non familiare è visto attraverso il familiare.

Attraverso la metafora, la realtà ordinaria è ri-descritta ed arricchita, supplementata ed allargata. Ma questo non è un mero abbellimento floreale di un fatto già accertato e stabile. Piuttosto, la metafora è un atto di sintesi creativa iconico o produttore di immagine, che suscita e diffonde significato mediante una dialettica delle differenze nella relazione, in cui si pone (49). È una riconciliazione che rivela una parentela, un'interconnessione e una complementarietà tra elementi eterogenei (50). Ma la metafora non fa mai collassare i termini. Resta un fattore «non è» (come nell'espressione «il bracciolo della sedia»). A causa di ciò, la metafora contiene un momento destrutturante, diventando intrinsecamente instabile e aperta alla supplementazione. La giustapposizione di due termini crea quello che Ricoeur chiama una verità tensiva, un è iconico che significa allo stesso tempo similarità e differenza (51). Qui la distanza della differenza non è annullata dalla prossimità della relazione, ma affermata dialetticamente. La lontananza è preservata nella prossimità, poiché vedere una relazione di somiglianza è vedere la similarità nella e attraverso la differenza (52). E la metafora si occupa di questa differenza, permettendole di esistere. È questo ciò che rende il suo significato una innovazione aperta all'esterno come non-chiusura, più un suggerire che un definire. Una relativizzazione via negativa o apofaticità accompagna lo status iconico dell'attribuzione metaforica, creando la liminalità di una posizione intermedia, un dire che è un non-dire. La metafora si colloca sul confine tra il chiuso e l'aperto. In questo modo, il carattere della metafora manifesta la doppia visione che io ho ascritto all'affermazione non idolatrica di Dio.

 

Dato che le espressioni limite sono esse stesse metaforiche, una apofaticità autolimitantesi accompagnerà necessariamente tutte le figurazioni dell'esistenza di Dio. Nel nominare Dio, il linguaggio è portato all'eccesso, a dire più di quello che può dire. Per questa ragione ritengo che le espressioni limite servano come icone (53). La logica autentica dell'affermazione di Dio è iconica, non idolatrica. Poiché un'espressione limite o ritratto immaginativo di Dio può essere designata come tale solo in quanto contenuto che si autosupera e testimonia la differenza qualitativa tra finito e infinito. Mentre l'idolo è opaco e definitivo, l'icona è diffusa ed evocativa, e allontana da sé nel momento stesso in cui configura il significato. Contenendo un momento auto-relativizzante di non-chiusura, l'icona è rivelativa nella misura in cui è ricevuta come trasparente. È una chiusura aperta. Essa orienta disorientando e riorientando oltre se stessa, e il suo riferimento non è intrinseco ad essa né dato immediatamente. Poiché l'icona dischiude un'economia di valore asimmetrico e sovrabbondanza, richiede anche una qualificazione negativa concomitante. Invero, il fatto di tale qualificazione negativa è prova del suo potere rivelativo. Le icone ci fanno metaforicamente entrare nella lontananza/discontinuità di un infinito eccesso mediante la prossimità/continuità di immagini concrete e categorie tratte dall'esperienza finita. Ma esse fanno così soltanto effettuando un rovesciamento, riconducendoci nuovamente in ciò che è prossimo, relativizzato dalla sua capacità di evocare il remoto.

 

Le icone evocano l'interesse, ispirano la visione e irradiano valore come araldi di un potere che non è loro inerente o riducibile ad esse. È questo a renderle rivelatrici in un senso più euristico che descrittivo. Esse anticipano—cioè indicano un e partecipano ad—un potere che sta al di là di esse, un potere asimmetrico di differenza qualitativa che non può essere determinato o misurato da costruzioni locali o ridotto a queste. Questo è il motivo per cui le immagini di Dio spesso recano in sé un elemento dirompente che neutralizza ogni tentativo di chiusura referenziale, opponendosi alla positività del linguaggio attributivo (54). Proprio per questo il nominare Dio invoca una molteplicità di linee interpretative, addirittura una molteplicità di tradizioni. L'icona è infinitamente aperta all'interpretazione. E questo implica un contesto interreligioso, ove differenti significati sono accolti come possibilità. Pertanto, possiamo dire che le icone mediano l'universale (cioè l'infinito) da una condizione locale (cioè finita), e tuttavia fanno ciò come universalizzazione che torna a chiudere il cerchio per aprire, contestualizzare e relativizzare il localizzato. In questo modo le espressioni-limite fanno esplodere il linguaggio dall'interno verso l'orizzonte-limite dell'esistenza. Ne consegue che l'icona contrassegna un dialettica non conclusiva che è aperta all'innovazione semantica. Essa afferma la possibilità di altri significati. E questo ha la capacità di sopire la rivalità mimetica offrendo al desiderio un modello positivo, sostituendo la logica del sacrificio.

 

Col fare di un'icona il medium della presenza di Dio, la presa dell'idolo viene meno. Il potere dell'icona di opporsi all'idolo sta nella sua visione doppia, nel fatto che essa mentre relativizza gli oggetti finiti che ricadono nel suo ambito, fa questo relativizzando se stessa, facendosi trasparente a qualcosa che è più di se stessa. Laddove l'idolo si accontenta di chiusura e auto-sicurezza, l'icona—come presenza-nell'-assenza—scava uno spazio per il dubbio e la domanda circa il suo significato e valore, che sono trasgressivi e quindi elusivi. Questo rende i generi scritturistici e le loro immagini di Dio essenzialmente polifonici, un punto che, come abbiamo visto, Ricoeur sviluppa con grande intuizione. Inoltre, l'icona apre il desiderio a un orizzonte di ampiezza illimitata. Così, anziché ricadere nel conflitto mimetico, il desiderio è preso dall'icona e portato oltre se stesso. Si realizza una trasformazione del desiderio, che introduce una spinta all'auto-trascendenza. Qui la mancanza di essere e contingenza dell'umano viene accettata, e questo attenua la rivalità mimetica. In effetti l'intera dinamica del contagio mimetico inizia a dissolversi. La logica della scarsità viene trasformata—forse potremmo dire perfino convertita—nella logica dell'abbondanza. Il desiderio è svuotato della sua tendenza acquisitiva, possessiva, e aperto ad un sovrappiù di significato. Quel che ne risulta è il contagio positivo. E questo ha la capacità di domare la violenza.

 

Conclusione

 

L'affermazione di Dio può rompere la presa dell'idolatria, e coltiva un'apertura trans-regionale e non-confessionale alla possibilità che Dio operi in luoghi e forme inaspettati. Poiché nessuna cultura, nessuna tradizione, nessuno schema politico, nessuna religione possono contenere o esaurire il fondamentale Mistero di Dio. Il paradosso di tutto il linguaggio circa Dio è che ogni affermazione deve essere rigettata nello stesso momento in cui è fatta, implicando un momento relativizzante che vanifica ogni tentativo di accedere al divino. Dato ciò, vengono in primo piano quattro rimedi per la violenza categoriale.

 

Anzitutto, il monoteismo iconico consente una genuina polifonia scritturale, che rende possibile una lettura delle scritture contro le scritture stesse, con una problematizzazione delle immagini minacciose e guerriere di Dio a fronte delle immagini compassionevoli e misericordiose. Questo significa lottare con la scrittura come Giacobbe lottò con Dio, cercando risposte e forse mettendo in discussione le vie di Dio (come del resto fecero molte figure bibliche).

 

Secondo, un monoteismo iconico mette profeticamente in questione le tentazioni umane di far coincidere prospettive e circostanze finite con le prospettive di Dio (in rivalità gli uni con gli altri). Perché il volere sovrano di Dio non reca il sigillo di alcun gruppo. Piuttosto, esso è cifrato attraverso e al di là di quel gruppo, neutralizzando la tentazione della chiusura. Questo tipo di relativizzazione non vanifica il giudizio, ma lo filtra attraverso un consenso che lascia spazio alla grande opera della salvezza di Dio. Conseguentemente, qui sorge la possibilità dell'auto-critica, del dubbio e dell'umiltà. C'è sempre un di più che può essere detto. La mancanza del desiderio non è obbligata a colmarsi, ma piuttosto acconsente ad un'abbondanza che la sorpassa e che l'afferra. Forse questa è la grazia.

 

Terzo, questo è istruttivo a causa della sua potenzialità di alimentare la trasformazione morale. Proprio in quanto esso elimina l'idolatria, il monoteismo iconico facilita un atteggiamento di apertura auto-trascendente che attivamente lascia spazio agli altri. Questo è un gesto creatore di pace che si può chiamare ospitalità. L'ospitalità è il motore del dialogo tra le differenze, che accoglie la differenza di un altro come un valore. È l'emblema di una vita vissuta in dipendenza radicale da Dio, le cui divine intenzioni eccedono l'ambito limitato dell'auto-protezione umana. Essa riconosce l'umanità condivisa dell'altro, un'umanità che è vulnerabile e fallibile ma ugualmente abbracciata dal divino. Di conseguenza, l'ospitalità afferma che la lealtà nei confronti di Dio significa lealtà verso tutti gli uomini, e questa genera una nuova cornice per la condivisione della responsabilità del benessere universale.

 

Infine, tutto questo insieme può portare al perdono e alla riconciliazione, trasponendo la relazione al nemico-rivale in una nuova chiave—cioè trasformandola in quella di vicini uniti dalla relazione a Dio. Non ho qui lo spazio per illuminare questo punto, ma passi della Bibbia e del Corano possono servire alla bisogna (55).

 

Ovviamente, si potrebbe dire molto di più. E allora lasciatemi concludere con questo riassunto: un senso iconico di Dio spinge alla solidarietà creativa piuttosto che alla frammentazione e alla violenza tra le differenze. Anziché vantare la capacità di possedere l'essere, garantendo la sufficienza del desiderio, il monoteismo iconico si rivolge a Dio in un modo non-possessivo. Questo suscita il desiderio nel mondo degli altri senza smania di acquisizione. Può anche portare a gioire della presenza degli altri. Credo che questo sia il fondamento della speranza interreligiosa. E sorge, anche, dall'impulso potenzialmente non-violento della fede monoteistica.

 

1.      Cfr. Regina M. Schwartz, The Curse of Cain: The Violent Legacy of Monotheism (Chicago: University of Chicago Press, 1997), e Jack Nelson-Pallmeyer, Is Religion Killing Us? Violence in the Bible and the Quran (Harrisburg, PA: Trinity Press International, 2003).

2.      Cfr. Leo Lefebure, Revelation, the Religions, and Violence (Maryknoll, NY: Orbis Books, 2000), 15.

3.      Hent de Vries, Religion and Violence: Philosophical Perspectives from Kant to Derrida (Baltimore and London: John Hopkins University Press, 2002).

4.      Ibid., vedi c. 2. Vedi anche Jacques Derrida, The Gift of Death, trad. David Wills (Chicago: University of Chicago Press, 1995), 66 ss.

5.      Ibid., 388.

6.      Ibid., 379.

7.      Ibid., 116.

8.      Cfr. ibid., 1.

9.      René Girard, Violence and the Sacred, trad. Patrick Gregory (Baltimore: John Hopkins University Press, 1997), p.146.

10.  Ibid., 379.

11.  René Girard, Things Hidden since the Foundation of the World, trad. Stephen Bann. (Books II and III) e Michael Metteer (Book I) (Stanford: Stanford University Press, 1987), 296-97, 378.

12.  Girard, Deceit, Desire, and the Novel (Baltimore: John Hopkins University Press, 1965), 8-10.

13.  Girard, Things Hidden, 7-9, 26.

14.  Girard, Violence and the Sacred, spec. 96 e s..; e Things Hidden, 195.

15.  Girard, Things Hidden, 77-78, 136, 316-17.

16.  Ibid., 23, 221.

17.  Ibid., 31

18.  Ibid., 251.

19.  Girard, Violence and the Sacred, 143.

20.  Thomas Bolin, Rivalry and Resignation: Girard and Qoheleth on the Divine-Human, Biblica (86/2) 2005: 245-258, cfr. spec. 257-58.

21.  Girard, Things Hidden, 297.

22.  Ibid., 141-280, 416-31. Vedi anche The Scapegoat, trad. Yvonne Freccero (Baltimore:  John Hopkins University Press, 1986), in particolare il  c. 9.

23.  Lefebure, 21-22. Cfr. anche Mark I. Wallace, Fragments of the Spirit: Nature, Violence, and the Renewal of Creation (New York: Continuum, 1996), 109-11.

24.  Per esempio, cfr. Girard, Things Hidden, 158.

25.  Vedi Lefebure, 22.

26.  Per il monoteismo israelitico questo avviene durante l'esilio babilonese, ed è testimoniato dal Deuteroisaia (Is. 45, 5-7).

27.  Girard, I See Satan Fall Like Lightning, trad. James G. Williams (Maryknoll, NY: Orbis Books, 2001), 16.

28.  Girard, "A Conversation with Rene Girard," in The Girard Reader, ed. James G. Williams (New York: Crossroad Publishing Company, 1996), 269.

29.  Girard, Things Hidden, 153.

30.  Ibid., 180-85.

31.  Ibid., 210.

32.  Girard, "The Question of Anti-Semitism in the Gospels," in The Girard Reader, 215.

33.  Girard, The Scapegoat, 189.

34.  Paul Ricoeur, "Naming God," in Figuring the Sacred: Religion, Narrative, and Imagination, trad. David Pellauer, ed. Mark I. Wallace (Minneapolis: Fortress Press, 1995), 225.

35.  Ibid., 224-25.

36.  Wallace, Fragments of the Spirit, 111.

37.  Ricoeur, "Philosophy and Religious Language," in Figuring the Sacred, 45-46. Vedasi anche "Naming God," 228.

38.  Ricoeur, "Naming God," 228.

39.  Ibid., 230.

40.  Quindi le scritture ebraiche neutralizzano le immagini antropomorfiche di Dio per salvaguardare l'incoercibile sovranità e libertà di Dio—i Salmi e la letteratura profetica sono pieni di esempi(«Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie—oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri» (Is. 55, 8 – 9.  Cfr. Is. 40, 18. 25; 45, 15; Job. 11, 7 – 9; 36, 26). Dio dimora in una profonda tenebra, celato da una nube impenetrabile (Ps. 18, 11). In realtà, con l'evento dell'esperienza del Monte Sinai, Dio viene—cioè si rivela—in una spessa nube, chiamando Mosè da dietro quel velo che lo eclissa, separando la Santità di Dio dal profano e proteggendo la gloria di Dio dall'essere macchiata. Dio parla a Mosè dall'oscurità, poiché l'essere umano non può vedere il volto di Dio e restare vivo, incapace com'è di sostenere la presenza diretta della divinità. Il nudo essere di Dio è inaccessibile. Perfino il nome di Dio (il tetragramma YHWH) è impronunciabile, perché nominare è comprendere, e Dio non può essere controllato o posseduto in questo modo. Dunque effettivamente l'intertestualità e molteplicità della Bibbia aprono una logica anti-idolatrica che ha il potenziale per rompere la presa della rivalità mimetica. Il desiderio umano non è lasciato a se stesso nello spazio anarchico di una divinità assente, ma piuttosto è lanciato in una dimensione aperta tramite una mediazione che si sorpassa o punta al di là di se stessa.

41.  Ibid., 233.

42.  Jean-Luc Marion afferma: «L'idolo dipende dallo sguardo che esso soddisfa, dal momento che se lo sguardo non desiderasse trovare soddisfazione nell'idolo, l'idolo per esso non avrebbe alcuna dignità» (God Without Being, trad. Thomas A. Carlson [Chicago: University of Chicago Press, 1991],10).

43.  Questa discussione dell'idolatria e di quanto ne segue è sviluppata più ampiamente nel mio libro The Broken Whole:Philosophical Steps Toward a Theology of Global Solidarity (New York: SUNY Press, 2005), 173 e ss.

44.  Cfr. Paul Ricoeur, "Pastoral Praxeology, Hermeneutics, and Identity," in Figuring theSacred, a cura di Mark Wallace, trad. David Pellauer (Minneapolis: Fortress Press, 1995), 311.

45.  Paul Avis, God and the Creative Imagination: Metaphor, Symbol and Myth in Religion and Theology (New York: Routledge, 1999), 81.

46.  Ricoeur, cfr. Interpretation Theory: Discourse and the Surplus of Meaning (Fort Worth: Texas Christian University Press, 1976), spec. 46 e ss.; The Rule of the Metaphor, trad. Robert Czerny, con Kathleen McLaughlin e John Costello, SJ (Toronto: University of Toronto Press, 1977); e "The Metaphorical Process as Cognition, Imagination, and Feeling" [1978], in Critical Theory Since 1965, a cura di Hazard Adams e Leroy Searle (Tallahasse: University of Florida Press, 1986), 424-34. Qui ancora una volta, discutendo Ricoeur e la metafora, utilizzo materiale trattato più a fondo in The Broken Whole, 182-85.

47.  Questo significa non la mera unione di due parole differenti ma una più ampia transazione di contesti semantici. Vedi Ricoeur, The Rule of the Metaphor, 80.

48.  Ricoeur, The Rule of the Metaphor, 231f.; e "The Metaphorical Process," 427, 429.

49.  Cfr. Ricoeur The Rule of the Metaphor, 225; e "The Metaphorical Process," 433.

50.  Ricoeur, "The Metaphorical Process," 426.

51.  Ricoeur, The Rule of the Metaphor, 247 sgg.; e "The Metaphorical Process," 427.

52.  Ricoeur, "The Metaphorical Process," 427.

53.  Quindi io uso qui la parola icona nel senso di Ricoeur, che produce un'enfasi differente dal modo in cui Marion usa il termine in God Without Being. Mentre è vero, come dice Marion, che l'icona «richiama la vista a lasciare che il visibile si impregni ... di invisibile» (17), bisogna rilevare che essa è un'innovazione immaginativa, e non semplicemente data.

54.  Esempi di questa via negativa si possono trovare attraverso le diverse culture. Nelle tradizioni giudaica e cristiana, è il tema del Dio nascosto, il deus absconditus. Biagio Pascal lo rende perfettamente «Tutte le religioni che non affermano che Dio è nascosto sono false» (Pensieri 584). Dio rimane nascosto anche se Dio si rivela. Una simile affermazione si trova nelle scritture ebraiche (ad es. Ex. 3 e Is. 55, 8-9; 45, 15), e in verità ha lo scopo di proibire l'idolatria. Declinata più filosoficamente, la troviamo tra gli altri in Filone di Alessandria, Origene, Agostino, Pseudo-Dionigi, Eriugena ed Eckhart, come annientamento radicale di qualsivoglia linguaggio attributivo circa il divino. In un modo diverso, Lutero ne fa un tema chiave della sua «teologia della croce» nella Disputa di Heidelberg (cfr. tesi 19-20). Nelle tradizioni non occidentali compare come il Tao eterno che non si può esprimere, il Brahman senza attributi (nirguna Brahman) che si distingue dal Brahman con attributi (sirguna Brahman), il Vuoto delle cose (come nel concetto buddista di sunyata), ecc. Una rassegna esaustiva di questo agnosticismo epistemologico non rientra tra gli scopi di questo studio. Per un valido trattamento del tema si vedano John Hick, God Has Many Names (Philadelphia: The Westminster Press, 1982), ch. 3, e An Interpretation of Religion, esp. 236-40; Raimundo Panikkar, TheSilence of God: The Answer of the Buddha (Maryknoll, NY: Orbis Books, 1989); Keiji Nishitani, Religion and Nothingness, trad. Jan van Braagt (Berkely: University of California Press, 1982); Masao Abe, Buddhism and Interfaith Dialogue, a cura di Steven Heine (Honolulu: University of Hawaii Press, 1995), capp. 7-8.

55.  Ad esempio, si vedano i saggi contenuti  in Beyond Violence: Religious Sources of Social Transformation in Judaism, Christianity, and Islam, a cura di. James L. Heft, S.M. (New York: Fordham University Press, 2004).

 

 

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