Si scrivono lettere a Tel Aviv?

 

da Che tu sia per me il coltello di D. Grossman

 

Elisabetta Liguori

 

elisabetta.liguori-lisi@poste.it

 

 

Quello che sto ultimando è un percorso ad ostacoli.

Il primo passo è stato compiuto accidentalmente, gli altri, scaturiti dalle normali domande di una quasi quarantenne, sono stati gesti di mera, banale testardaggine, quantunque utili.

Il tema del mio viaggio letterario sembrava essere l’amore, all’inizio.

Mi capita soltanto adesso di leggere Che tu sia per me il coltello di David Grossman edito da Mondatori nel 1999 e mi capita anche di non saper dire con precisione di che libro si tratti.

Un epistolario diviso in tre parti. Prima scrive lui, poi lei, dopo decide per entrambi la pioggia.

Il titolo prende spunto da una citazione tratta da una lettera di Kafka alla donna amata, che qui appare come l’unico titolo possibile per un romanzo che fa della parola scritta uno strumento da caccia. Il clima è quello venatorio: ciò che qui vuol essere catturato, posseduto, non è un altro essere umano nella sua identità, nella sua interezza, ma il suo sguardo furtivo, spaventato, sorpreso, su di noi, dentro di noi.

Perché scrivere un libro che lascia un retrogusto arcaico sin dall’assaggio della copertina color seppia? Che senso ha parlare oggi di lettere e inchiostro, di caselle postali, di discordanza tra piani temporali, tra il tempo vissuto da chi scrive e quello successivo di chi legge? Perché non scrivere di email, di messaggi, di tempo reale, di immagini? E perché rifiutare con tanta caparbietà il corpo, la corporeità e il suo modernismo? Perché un romanzo anacronistico, intangibile e delirante?

 

Se mi devo spiegare, allora è tutto inutile: non sentirti in dovere di rispondere, probabilmente mi sono sbagliato sul tuo conto. Ma se sei tu quella che ho visto stringersi nelle braccia con un cauto sorriso, credo che capirai.

 

Leggendo ho avuto l’impressione di avere tra le mani non un libro per tutti, ma un messaggio per pochi, destinato a chi percepisce la propria esistenza come flusso cerebrale discontinuo e intenso, privo d’azione. Questo è un romanzo immateriale che narra di esistenze materiali, che rinnega l’amore come fisicità, che sembra averne paura, e che converte il sentimento in una sorta di circonferenza astratta fatta di sintagmi, accuratamente selezionati, che cinge l’uomo e lo imprigiona dentro se stesso. Ogni lemma è strumento sensuale, dolce o violento per arrivare ad amare se stessi, a scoprire la parte più indifesa e fantastica di sé. Il corpo solo un peso, quasi una vergogna.

Così, dopo la prima parola, il tatto è perso, il corpo bruciato: resta solo la lettura ed il muoversi degli occhi e del cuore all’unisono.

 

Un uomo, Yair, vede da lontano una donna, Miryam, che si stringe impercettibilmente nelle spalle con un brivido, un gesto fisico incondizionato, con cui lei sembra volersi separare dal mondo, dalle persone che in quel momento ha accanto. Da questo gesto semplicemente liberatorio ha origine il desiderio: scoprire dell’altro quello che neppure l’altro conosce, e, nella conoscenza, diventare vivo, importante, necessario. Con una serie inattesa di lettere ossessionanti, Yair fa irruzione nel mondo di Miryam; senza mai darle il suo corpo, inventa passione, possibilità, bellezza astratta, fantasia, e lo fa con una potenza devastante. Scrivendo di sé, Yair porta la mente di Miryam a lui e la sua a Miryam. La costringe alla curiosità. Lei, rispondendo, s’abbandona. Entrambi scrivono e vivono obbedendo all’imperativo categorico che solo le domande e le risposte degli sconosciuti impongono, a causa di quel senso di estraneità e paura che avviluppa il nuovo.

Così ha inizio la caccia, in una Tel Aviv esotica, in tensione ambientale statica.

Lui chiede a lei: amami per quello che dico di essere e fallo come io vorrei fare, senza esserne capace. Le dice: aiutami a rovistare con la punta di un coltello affilato dentro di me e dentro di te, per ritrovare le nostre vite spirituali là dove la quotidianità le ha indotte ad eclissarsi. Le racconta di lui, ma la obbliga ad accettare il fatto che non sarà mai un corpo, solo un’idea. Infine le impone un termine: tutto finirà con le prime piogge d’autunno. Tutto sarà, e dopo tutto cesserà di essere, naturalmente.

Il racconto di lui la innamora, nonostante la follia perversa che lo attraversa.

Del resto le parole hanno da sempre questo potere. Per questo ancora si scrivono romanzi, forse, e, da Cervantes in poi ancora se ne leggono, distraendosi dalla cronaca, dalla Storia, e dalle immagini, Per fortuna c’è ancora chi lo fa, e lo fa per conquistare, per capire, per farsi leggere leggendo, e attraverso la lettura produrre cambiamenti.

Queste epistole pungono. Chi le scrive, in questo caso specifico, sembra aver elaborato un progetto mostruoso e sa di poter far male. Chi scrive è un uomo crudele che vuole mettere le dita nel naso di qualcun altro, fino a toccare, grattare, scorticare, esplorare alla radice, quanto di più immateriale c’è nell’esistenza di un altro essere umano: l’immagine che ha elaborato di sé stesso.

Può chiamarsi amore questa crudeltà? no, non è amore, è istinto verso la conoscenza, qualcosa che va ben aldilà dell’amore e che coinvolge due o più individui, in un’unica rete d’emozioni autogenerate e autogeneranti, in una trama complessa, in un gioco di specchi che riflettono e deformano sempre e solo lo stesso attore, in una guerra silenziosa che esalta i sensi.

E senza corpo non può esserci alcuna misericordia per gli amanti.

E’ questa la novità: scrivere di un amore impietoso che, avendo tolto alle righe e alla storia che racconta qualunque corporeità, ha finito per renderlo mitologico, divino, e quindi di una purezza diamantina piena ed eroica che non ammette errori, imperfezioni, sbavature.

È il corpo, infatti, che, nella sua caducità, nella sua debolezza, nel suo cadere periodico, nell’invecchiare, imbruttirsi e mutare involontario, induce alla pena, al perdono, mentre le idee devono restare pure. Alte. Perfette.

Così Yair ordina ad entrambi che la pioggia cancelli la loro amicizia particolare, quando non ne saranno più all’altezza, e ne segni la fine in modo plateale. Senza alternative.

L’operazione compiuta da Grossman appare quindi inversa a quella normalmente compiuta da quasi ogni narratore: invece che dare fisicità materiale a personaggi meramente funzionali, Grossman toglie  il corpo, assottiglia la vita, azzera la concretezza. Solo la pioggia, bagnando, restituisce la pelle agli oggetti e alle persone, allontanandole.

Ma in questo libro non sono solo i corpi a latitare. Neppure il tempo è presente. Benché ogni lettera inizi con una data precisa, ogni evento è circolare: riconduce alla descrizione dell’amato e alla sua resa, nell’attesa di una nuova lettera. Unica scadenza: quella pioggia stagionale.

E veniamo infine alla verità e alla sua vanità.

Mi sembra importante affermare che in questo strano romanzo si avverte fortemente il tentativo di affiancare alla passione amorosa quella per la verità, in tutta la sua durezza. Pochissime le annotazioni di valenza sociale, la città intorno è affresco soffuso, anodino, la Storia sembra fermarsi, l’origine e l’autenticità dello sfondo appare irrilevante, mentre quello che domina il testo è il sentire attuale e immediato, quel certo intuire, quell’ avanzo di memoria nebbiosa e cangiante che tutti conserviamo, quell’animalità propria del rapporto tra uomo e donna, tra padri e figli, quando vengono privati dell’abito che li protegge

Non conta, pertanto, l’esperienza personale, solitaria, ma il suo baluginare sfibrato che deriva dall’intrecciarsi di uno sguardo soggettivo con l’esperienza e lo sguardo altrui.

Tutto questo sfarfallio emotivo, senza una cronologia universalmente riconoscibile, tende pur sempre ad una verità, piuttosto che ad una bella notte di sesso sfrenato. Del resto una relazione umana intensa, per quanto astratta, come quella descritta da Grossman porta sempre verità, anche se relativa.

E porta dolore (e infatti il dolore attraversa interamente questa narrazione impudica).

E poi porta stupore, alimentando l’umana vanità. La vanità è dell’amore il perno ruotante e sonoro. Il movimento più eclatante, che ci siano di mezzo i corpi o meno.

Yair scrive a Myriam per vanità; Myriam risponde per vanità. La scrittura è vanità.

Yair ha un figlio, Myriam ha un figlio: persino figliare è frutto di un gesto burbanzoso e tronfio, per quanto insicuro. Quindi tutto coincide, verità, immaterialità, vanità, e sembra andare verso un’ apparente soluzione finale.

I due protagonisti sono soli: il loro incontro è utile? In altri termini, la solitudine è vinta dalla soddisfazione verbale delle propria vanità?

Non mi pare affatto; al contrario questo romanzo sembra voler illuminare proprio quell’abisso di solitudine che s’apre e resta tra parola e parola, che sembra richiudersi solo per l’attimo che dura il verbo stesso, ma vanamente.

La comunicazione verbale non elide il divario tra l’essere e la percezione dell’essere. Nessuna lettera l’annulla, poiché, neppure la più bella mia scritta, può nulla: è pur sempre grammatica applicata, soggettività, autorefenzialità.

 

Almeno riesce a scrivere. Per il momento. Come se posasse delle pietre in un fiume impetuoso. A poco a poco, con grande sforzo, si alzerà un ponte e lei potrà allontanarsi.

 

Cosa sono questa lettere alla fine? Come pietre poste le une sulle altre, elevano monumenti alla memoria e alla gloria, indicano una strada, lasciano intravedere una meta possibile, rovistando nell’animo del loro destinatario quanto in quello del mittente. Sono lettere che corrono il rischio.

Quelle di Grossman, oggi padre disperato per la perdita di un figlio in un conflitto violento quanto inspiegabile, rappresentano una forma d’amore e di fuga dalla propria realtà, ben fuori dagli schemi logici ai quali siamo avvezzi, su cui riflettere.

 

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