DUE LIBRI, UNA PAGINA (7)

Letture di Fabio Brotto

brottof@libero.it

www.bibliosophia.homestead.com/Copertina.html

 

In Ricordare,raccontare, di Gustaw Herling e Piero Sinatti, edito da L'ancora, Giugno 1999:

Mi viene ora in mente che quando uscì in Russia Una giornata di Ivan Denisovič scrissi un saggio dal titolo Iegor e Ivan Denisovič, pubblicato in italiano su "Tempo presente" e apparso anni dopo in russo sulla rivista dell'emigrazione "Kontinent". Cercavo di fare un parallelo tra Ivan Denisovič e un personaggio della katorga di Sachalin descritto da Anton Čechov: Egor. Questi è contento di come vive in detenzione, non si chiede se sia giusto o ingiusto essere tenuto prigioniero per anni; quello che gli importa è sentirsi sazio. E in effetti lo è. Come Ivan Denisovič. La giornata finisce, Ivan fa una specie di bilancio e dice: "Ho mangiato abbastanza". Nessun moto di ribellione.

Dopo aver letto questo saggio su "Kontinent", Solženicyn scrisse a Viadimir Maksimov, direttore della rivista, una lettera ferocemente polemica nei miei confronti: "Ecco che esce fuori il polacco: non capisce che il personaggio di Čechov non ha nulla a che vedere con il mio". Io non avevo questa intenzione. Ero semplicemente rimasto colpito dal fatto che Ivan Denisovič assomigliasse a quello stolido contadino di Sachalin descritto da Čechov. Anche in Ivan Denisovič la reazione è analoga, accetta la sentenza delle autorità: se mi hanno messo qui, vuol dire che c'è una ragione. Ma nel lager qualsiasi straniero, fosse pure un comunista, si chiedeva: "Perché sono finito qui?". Questa differenza è molto significativa. Nei campi nazisti, la gente conosceva le ragioni della deportazione. Chi perché ebreo, chi perché antifascista, chi perché russo. Nei lager sovietici, nessun russo si interrogava troppo. Conosceva soltanto il numero dell'articolo del Codice penale in base al quale era stato condannato. Rispondeva soltanto alla domanda: "Che numero hai?". " Il 58", cioè l'articolo che colpiva tutte le attività definite "controrivoluzionarie". Ma non diceva le ragioni vere della pena. Sapeva rispondere solo con il numero. Accettava senza discutere il suo destino. Questo, invece, non accadeva con i comunisti tedeschi: nel mio campo ce n'erano, spediti nel lager come i loro compagni italiani o francesi, quando in Urss cominciarono le epurazioni dei comunisti stranieri... Šalamov descrive anche gente che si ribellava. Ma la stragrande maggioranza non si ribellava affatto. Voleva soltanto adattarsi, sopravvivere.

Altro fatto caratteristico nei campi sovietici, notato anche da Solženicyn, è che i suicidi erano assai rari. In simili condizioni avrebbero dovuto essere molte le persone capaci di dire basta, e invece no. Viene fatto di pensare alla speranza in Borowski: "Non si sa mai", "Forse sopravviverò". Un dato è certo: la protesta era molto rara. Nella letteratura del lager l'unico libro che descrive la protesta è quello del tedesco Scholmer sulla Vorkuta. Ma si tratta dei tempi successivi alla morte di Stalin. Solo gradualmente abbiamo scoperto che con la morte di Stalin tutto cambia. Ricordate il suo famoso discorso dopo l'attacco tedesco del giugno 1941, quando chiamò i russi "fratelli e sorelle"? La cosa incredibile è che tutti gli credettero e gioirono nel sentire quella voce, non più dura come prima. La speranza russa era nutrita anche da cose come queste.

 

In Vere presenze di George Steiner (1989), pubblicato in Italia da Garzanti nel 1992 nella traduzione di C.Béguin: 

C'è un giorno particolare nella storia occidentale che non viene menzionato né dalla tradizione storica, né dal mito, né dalla Sacra Scrittura. È un sabato. Ed è diventato il più lungo dei giorni. Sappiamo di quel Venerdì Santo che il cristianesimo ritiene sia stato quello della Crocefissione. Ma anche il non cristiano, l'ateo, lo conosce: conosce l'ingiustizia, la sofferenza interminabile, lo spreco, l'enigma brutale della fine, che rappresentano una parte così vasta non soltanto della condizione umana, ma della trama quotidiana delle nostre vite individuali. Conosciamo ineluttabilmente la sofferenza, la sconfitta dell'amore, la solitudine che formano la nostra storia e il nostro destino personale. Sappiamo anche cosa sia la domenica. Per il cristiano, questo giorno significa un presagio, a un tempo sicuro e precario, evidente e oltre il nostro intendimento, della resurrezione, di una giustizia e di un amore che hanno vinto la morte. Se siamo non-cristiani o non-credenti, conosciamo la domenica in termini esattamente analoghi. La concepiamo come il giorno della liberazione dall'inumanità e dalla schiavitù. Speriamo in soluzioni, siano esse terapeutiche o politiche, sociali o messianiche. I lineamenti di quella domenica portano il nome della speranza (non c'è parola meno decostruibile).

Ma a noi spetta il lungo viaggio del sabato. Tra la sofferenza, la solitudine, lo spreco indicibile da una parte, e il sogno di liberazione, di rinascita dall'altra. Messe a confronto con la tortura di un bambino, con la morte dell'amore che è il venerdì, persino le più grandi espressioni artistiche e poetiche sono quasi impotenti. Nell'utopia della domenica è probabile che le manifestazioni estetiche non abbiano più giustificazioni logiche né necessità di essere. Nella coreografia dell'immaginazione metafisica, nell'opera poetica e nella musica che ci parlano della sofferenza e della speranza, della carne che sa di cenere e dello spirito che ha gusto di fuoco, la nostra percezione ansiosa e le nostre raffigurazioni sono sempre 'sabbatiane'. Sono sorte da quell'immensità di attesa che spetta all'uomo. Senza di loro, come potremmo essere pazienti?

 

22 ottobre 2001