Potenza del canto
Nota su un libro di Adriana
Cavarero
Fabio Brotto
Ne La sera del dì di festa una
voce che canta nella notte, che prima non si udiva, poi si sente avvicinarsi,
di cui infine si percepisce l'allontanamento, il passare, lo svanire nel nulla,
è la cifra del divenire, e della sua percezione tragica in Leopardi: le cose
escono dal nulla per ritornarvi. La scena notturna del poeta recanatese mi è venuta in mente leggendo queste parole a
pag. 48 di A più voci (Feltrinelli, Milano
2003) di Adriana Cavarero.
…i
suoni sono eventi dinamici, non qualità statiche, e perciò sono transeunti per
natura. Ciò che li caratterizza non è l'essere bensì il divenire.
Affermare
che il suono è caratterizzato dal divenire non è,
tuttavia, un atto innocente: significa situarsi in pieno nella
tradizione dell'Occidente. Tutto il libro della Cavarero
(che io trovo bello: perché è bella la scrittura e perché mi sollecita a
pensare, come fanno sempre i libri che dicono cose diverse da quelle che penso io--ma io cerco la diversità) sta dentro la filosofia
occidentale, che comprende negli ultimi secoli un vigoroso filone
antimetafisico, che nel Novecento è germinato in vari modi, dei quali il filone
del pensiero della differenza è uno. Il primo capitolo contiene la tesi
fondamentale del libro, alla cui critica non credo di dover aggiungere nulla di
sostanziale rispetto a quanto ho scritto in Canto della potenza al n.30 di LECTURAE. Avevo letto infatti
il primo capitolo in un numero recente di MicroMega
in cui era presentato autonomamente. Mi limiterò ad alcune postille.
In
sostanza, secondo la Cavarero, tutta la tradizione
metafisica è la storia della devocalizzazione
del logos, del toglimento alla parola di tutto
ciò che è immediatezza corporea, legato alla gola, al fiato, alla saliva, al
godimento fisico; della sua riduzione all'incorporeo, all'idea.
La
storia della metafisica dovrebbe infatti finalmente
essere raccontata come la strana storia di una devocalizzazione
del logos (51).
C'è
un bell'accanimento contro la metafisica, qui. Ed è interessante, visto che i
pochi metafisici che ancora si professano tali in Occidente si sentono dei
superstiti, e giudicano la civiltà occidentale come radicalmente
antimetafisica, e visto anche che nella maggior parte degli ambienti colti si
pensa alla metafisica come liquidata da un pezzo--tanto che dare del metafisico
a qualcuno ha il sapore dell'insulto… La Cavarero, in
realtà, pensa tutta all'interno di quella che chiama la filosofia occidentale,
ciò che esula da questo campo non viene da lei mai toccato, come succede alla
maggior parte dei critici occidentali della tradizione filosofica occidentale,
che non si confrontano con ciò che è esterno a quella
stessa tradizione. Partono da dogmi, come quello della
nascita della filosofia in Grecia, non interpellano i pensieri altri.
Nell'insieme,
ciò che più mi piace in questo libro è la rivendicazione dell'unicità
dell'esistente, del suo essere singolare, irriducibile ad una generalità o a un tipo. L'unicità del singolo si rivela
nell'individualità della voce, il vero proprium
di ciascuno. Ma se la voce rivela quest'esser
unico, essa non lo fonda, secondo me, ed allora occorrerebbe scendere al
substrato dell'unicità, a ciò che fa sì che la Cavarero
ed io siamo entrambi umani, ma non l'Uomo essenziale o l'Uomo cosmico, ma
questi due particolari esseri umani, distinti e amabili proprio nel loro essere
altri, ciò che la metafisica tradizionale non accetta di riconoscere.
Per
la Cavarero il vocalico è in sé relazionale (di una relazionalità materiale) (227), ed ha una
valenza antipatriarcale (226). La Cavarero appare
assillata dalla tendenza del pensiero metafisico-patriarcale
alla negazione dell'individualità a favore degli universali, ma ovviamente,
filosofando, cioè rimanendo nel campo della disciplina
patriarcale stessa, non può a sua volta che universalizzare. In effetti, ad es., nell'esperienza incontriamo
quegli esseri animati abbaianti e non miagolanti ecc., uno diverso dall'altro,
che poniamo sotto la denominazione di cani, perché ci paiono legati da
elementi distintivi rispetto agli altri viventi, che formano la loro caninità. Sulle astrazioni della filosofia è
abbastanza facile sparare, ma quando si tratta di proporre un pensare
alternativo, non si combina un gran che: il vocalico è ancora meno reale
del Cane in sé.
La
pensatrice della differenza da un lato attribuisce ad un'azione del principio
patriarcale la riduzione della donna al vocalico, con la sua correlativa
espulsione dal semantico riservato al maschio, lasciando intendere che questa identificazione donna-vocalico sarebbe forzata,
dall'altro la sussume come valore, giungendo ad una
vera e propria sostanzializzazione metafisica della
carnalità della voce come espressione di un femminile che esisterebbe anche
nell'uomo. Citando la Cixous: "quello che canta in un 'uomo' non è lui, è lei" (135).
Il modo concettualmente confuso in cui, a mio giudizio, si tratta la questione
delle voci maschili e femminili nella tradizione operistica, a partire dal dogma
della intrinseca femminilità della sfera vocale,
produce la stranezza dell'attribuire una grande importanza al travestimento
come rivelatore dell'essenza dell'opera (143-144).
La voce
viene tutta rinchiusa nella sfera libidinale
del godimento, ignorando--come ho mostrato in Canto della potenza--il
suo legame originario col farsi presente della potenza. A proposito d'opera
lirica, rivelatore in questo senso mi pare il tasso di rivalità tra le
primedonne, che è un fatto originario, legato alla
costituzione mimetica dell'umano.
Il
capitolo intitolato Flautismi irresistibili
e assai pericolosi è quello che ai miei occhi mimetologici
si presenta come il più interessante. In esso la Cavarero incontra il mito di Marsia
e la leggenda del pifferaio di Hamelin. Tocca anche
il dionisiaco, in quanto il furore bacchico
appare nel Simposio platonico come prospettiva dalla quale il filosofo
rifugge. Ma del mito di Marsia l'aspetto violento è
relegato a simbolismo di un'operazione mentale, ignorandosene l'aspetto
mostruosamente sacrificale, mentre della leggenda del pifferaio che prima
libera la città dai topi, poi si porta via tutti i bambini, non viene colta l'originaria identificazione bambino-animale,
così che l'essenza della leggenda svapora nel vago.
Forse
la favola vuole semplicemente suggerire che il suono del flauto, per quanto
ammaliatore, seduce solo gli animali e i bambini: non soltanto perché le
creature "irrazionali" sono più sensibili alla musica, ma perché la
musica produce negli ascoltatori un incanto che li fa regredire all'infanzia e
all'animalità (86)
La favola
del pifferaio è in realtà terribilmente allusiva a
quei fenomeni di indifferenziazione mimetica di cui la società umana ha terrore.
L'invasione di orde di topi è assimilabile alla
pestilenza come a tutto ciò che fa saltare le differenze sulle quali si regge
l'ordinamento dei gruppi umani, restaurabile solo con il sacrificio. Il fatto
che il sanguinolento mito di Marsia sia letto filosoficamente
prova ancora una volta l'incapacità di una prospettiva che, nonostante tutte le
sue proteste di alterità, è filosofica fino alla
radice dei capelli di fare i conti con il vero altro della filosofia
stessa, che non è il piacere, il godimento di cui in questo libro l'autrice
parla in continuazione, ma la violenza (vedi in questo sito la lettura di Tobin Siebers). Il furore bacchico è anzitutto un furore,
in tutta la pregnanza che il termine furor ha in latino, e il suo
culmine non è l'orgasmo sessuale, comunque travestito,
ma lo sparagmos.
La
filosofia ha distolto fin dalle sue origini lo sguardo dalla sua stessa
origine, dall'altare sacrificale. Il timore platonico di ciò che sfugge al
controllo del sistema videocentrico del linguaggio
(97) è il timore della mimesi violenta, del dilagare del contagio della violenza nel gruppo umano della polis. L'intera
costruzione del sistema platonico è intesa al controllo della violenza, al suo
differimento, ma mediante una complessa strategia di deviazione sul corporeo in
sé. La Cavarero sfiora l'intuizione di questa verità
a pag. 177, là dove scrive
Certo
Platone non poteva neanche immaginare l'impatto sull'orecchio occidentale di jazz,
rhythm and blues, rock, rag
e ritmi simili. Non poteva immaginare la vicenda moderna che porta
il teatro del melodramma a trasferire i suoi effetti sconvolgenti sul pubblico
del concerto rock dove si rinnova il rito di "acclamazioni a piena voce,
perdite di autocontrollo, deliri collettivi, lacrime, svenimenti, fanatismi
d'ogni sorta e bizzarria". Ha tuttavia lasciato istruzioni precise perché
la causa di questi fenomeni venisse estromessa dalla polis.
Questi
"effetti sconvolgenti", che tra l'altro investono un pubblico
prevalentemente femminile adolescenziale (le teeny-boppers),
sono legati alla sfera del desiderio. E i divi pop
degli ultimi decenni non a caso puntano sulla propria immagine, che veicola un senso di fisicità potente, carnale e sessuale. Ma
forse non è ciò già rivelato in quegli evirati cantori settecenteschi, la
potenza della cui voce acuta, pur essendo di timbro femminile, veniva percepita come potente, e perciò in qualche modo
integrante la perduta virilità, così da rendere persone come Farinelli seduttive e
desiderabili?
Veniamo
all'epica. Nel modo in cui la Cavarero tratta l'epica vedo due difetti. Anzitutto, essa è ridotta a
puro canto, e il cantore epico è appunto un cantore, che muove passioni. Ma qual è la natura di queste passioni? Essa è legata al
contenuto dell'epica, che non è un canto e basta ma un canto di guerra. I
contenuti dell'epica, in verità, sono estremamente
violenti. Anzi, l'epica canta la violenza, e le sue
conseguenze. L'Iliade, come ben vide S.Weil, è il
poema della forza. In secundis, la poesia è intesa
dalla Cavarero come canto liberamente dispiegato,
come lo si intende dal Romanticismo in poi, ma la
poesia antica è anzitutto metron, regola,
canto costretto entro una misura. Il suo pulsare ritmico non è quello del
piacere immediato naturale pulsante, ma quello del battito delle mani, dei
piedi di un gruppo coordinato: i guerrieri. Anche nel
suo aspetto epico, il canto è anzitutto potenza. L'invasamento da parte del dio
o delle sue accolite Muse, infatti, è sempre sentito
dai poeti come un calare su di loro di una forza divina. Come scrive Dante.
Ma qui la morta poesì resurga,
o sante Muse, poi che vostro sono;
e qui Calïopè alquanto surga,
seguitando quel canto con quel suono
di cui le Piche misere sentiro
lo colpo tal, che disperar perdono. (Purg.
I, 7-12)
Entra nel petto mio, e spira tue
sì come quando Marsïa traesti
da la vagina delle membra sue. (Par.
I, 19-21)
Non
è affatto un caso che Dante, che tutto sa, invochi l'ispirazione poetica
facendo dei riferimenti mitologici ad un contesto
fortemente mimetico ed agonistico. Non solo mimetico ed agonistico, ma anche
sacrificale, visto che Marsia
viene ucciso per aver sfidato Apollo, e le Piche sono fanciulle trasformate in
cornacchie per aver sfidato le Muse. Che sono femmine,
ma competono in potenza di voce con le incaute umane. Il soverchiante vocalico
di Calliope abbatte le Piche, mostrando, se ce ne fosse
bisogno, che la relazionalità in sé non è
necessariamente positiva.
Ultima
noterella. Mi sembra di capire che la Cavarero, accettando sostanzialmente l'idea invalsa che
"la prima cellula organizzativa dell'ordine del linguaggio" (216) sia
la frase dichiarativa nella sua forma più semplice (nome e verbo), perda la possibilità di ripensare radicalmente l'origine del
linguaggio. La prospettiva di Eric
Gans, delineata a partire da The Origin of Language, identificando questa prima cellula nell'ostativo,
cioè nel segno emesso in presenza dell'oggetto, e quindi nell'imperativo,
che lega l'ostensione alla formulazione di un ordine, vede nel dichiarativo una
fase tarda dello sviluppo del linguaggio, e consente, a mio avviso, una
collocazione di ciò che la Cavarero chiama vocalico
all'interno di quel quadro di originaria competizione/differimento della
violenza sulla comprensione del quale si gioca oggi anche il tentativo di
avvicinare la prospettiva scientifica e quella umanistica circa le origini e le
qualità dell'umano.
28
aprile 2003 A.D.