PLATONE  E  LA  NASCITA  DEL  PENSIERO CONCETTUALE

Anthropoetics II, no. 2 (gennaio 1997)

Eric Gans

 

gans@humnet.ucla.edu

 

Traduzione dall'inglese di Fabio Brotto

 

brottof@libero.it  

 

www.bibliosofia.net

 

 

Per oltre un secolo il pensiero si è sforzato di liberarsi dalla metafisica (1). Una certa postmodernità filosofica ha dichiarato che questo sforzo era vano, avendo deciso che la metafisica è la forma indispensabile di qualsiasi riflessione coerente. E tuttavia, dal momento che l’umanità esisteva prima della metafisica, noi dovremmo essere in grado di sopravvivere alla sua scomparsa. Sarà sufficiente che le opponiamo una forma di pensiero abbastanza potente da essere in grado di pensare sia il suo inizio che la sua fine.

Le società egualitarie primitive funzionano per mezzo di sistemi di distribuzione rituale garantite dalle differenziazioni simmetriche del discorso mitico. Con l’apparire della gerarchia sociale, il potere di controllo della distribuzione rituale viene a fissarsi in un luogo e rifiuta di circolare: il nuovo compito del linguaggio culturale è di giustificare il disequilibrio. Ma nella società del miracolo greco, che sorge ai margini degli imperi arcaici, la circolazione accelerata dei beni e delle idee allenta la rigidità gerarchica e dà al linguaggio un valore competitivo. I sofisti imparano a manipolare il discorso al fine della persuasione. E tuttavia, che ciò dipenda da indifferenza o da interessi particolari, essi non ricercano le condizioni a priori di questa manipolazione: il linguaggio per loro è semplicemente uno strumento nelle mani di un uomo che proclama di essere “la misura di tutte le cose”.

 

Il concetto come contenuto etico

 

Seguendo Socrate, Platone comprende che il discorso libero, lungi dall’essere gratuito, è il segno di un nuovo, implicito ordine etico. Al fine di comprendere quest’ordine, è necessario riflettere non su ciò a cui il linguaggio si riferisce ma su ciò che esso significa per la comunità. Possiamo grossolanamente esprimere questa distinzione opponendo l’insieme dei referenti mondani di una parola (la sua denotazione, nella filosofia analitica) al suo significato o valore (la sua connotazione). Ma per Platone il secondo non è un valore astratto, ma un contenuto sostanziale, il cui possesso è comune a tutti coloro che usano quella parola. L’intuizione che l’uso di certe parole rivela un contenuto etico, che è più che una significazione astratta, è l’autentica fondazione della riflessione filosofica. Questa intuizione è già implicitamente presente nel Socrate dei primi dialoghi, ed apparteneva senza dubbio alla figura storica che irritava i suoi contemporanei obbligandoli a definire il coraggio, la bellezza, l’amicizia… È con l’approfondimento della sua comprensione del contenuto delle parole che Platone trasformerà le interrogazioni aperte di Socrate nel pensiero concettuale, che è soltanto un altro nome per la metafisica.

 

Al fine di afferrare il punto di partenza di questo modo di pensare, ascoltiamo la discussione tra Socrate e Callicle nel Gorgia.

 

[CALLICLE] Sì, perché in natura tutto quel che è più brutto è, ad un tempo, più malvagio, ossia il subire ingiustizia; per legge invece, commetterla […] Secondo me la questione è tutta qui: quelli che fanno le leggi sono i deboli, i più […] dicono che cosa brutta e ingiusta è voler essere superiori agli altri  e che commettere ingiustizia consiste proprio in questo, nel tentativo di prevalere sugli altri. Essi, i più deboli, credo bene che si accontentano dell’uguaglianza! (482 abc) […]

Ma sì, bello e giusto per natura è ciò che ora ti dirò con tutta franchezza: chi vuole vivere come si deve, ha da sciogliere, non da frenare, la briglia ai propri desideri per quanto grandi siano, e, per quanto grandi siano, deve esser capace di assecondarli con coraggio e con intelligenza e dare sempre piena soddisfazione alle proprie passioni. Ma tutto questo, penso, è impossi­bile per la maggioranza: ecco perché i più biasimano chi vive come dico io, per vergogna, credendo così di nascon­dere la propria impotenza; ed ecco perché sostengono che brutta cosa è la dissolutezza, come già dicevo, asservendo gli uomini migliori per natura e, non essendo capaci di dare piena soddisfazione alle proprie passioni, causa appunto la loro impotenza, fanno l’elogio della temperanza e della giustizia. Per quanti, invece, fin dal principio hanno avuto in sorte di nascere figli di re, o per loro stessa natura sono capaci di conquistarsi un qualche potere, una ti­rannide, un regno, cosa per tali uomini vi sarebbe davvero di più brutto, di peggiore della temperanza e della giustizia? Essi che avrebbero la possibilità di godere tutti i beni, senza che nessuno lo impedisse, dovrebbero crearsi un padrone nella legge, nei ragionamenti, nei biasimi della maggioranza? E non sarebbero davvero infelici qualora si sottoponessero a questa bella giustizia, a questa bella temperanza, senza per altro poter favorire gli amici più dei nemici, pur avendo in mano il governo della propria città? La verità che tu, Socrate, dici di cercare è questa: la licenza, la dissolutezza, la libertà e i relativi mezzi che le rendono possibili; ecco la virtù e la felicità; tutto il resto, tutti questi bei travestimenti, queste umane con­venzioni contro natura, non sono che buffonate senza alcun valore. (491e; 492 abc)

 

[SOCRATE] I piaceri buoni saranno quelli utili[…]? Si dovranno dunque preferire e ricercare i piaceri e i dolori buoni? […]  tutto quel che si fa, lo si deve fare in vista del bene. Sei d’accordo anche tu su questo, che il fine di ogni azione è il bene e  che tutto quel che facciamo lo dobbiamo fare in funzione del bene, e non  il bene in funzione di altro? […]Tutto si deve, dunque,  volere per il bene, anche il piacere, ogni altra cosa, e non il bene in vista del piacere. (499 de; 500a )

 

[da Platone, Opere complete vol. 5, Gorgia, trad. F. Adorno, Laterza, Bari 1971, pp. 206-207 e p. 218].

 

Per Callicle, la soddisfazione dei propri desideri, ammesso che la si possa ottenere, è una via alla felicità più chiara dell’obbedienza alla legge, che questo proto-nietzscheano vede come lo strumento del dominio dei deboli sui forti. Essendo tutte le altre cose eguali, la persona ingiusta che disobbedisce alla legge per conseguire la propria soddisfazione si trova in vantaggio rispetto al numero dei suoi opposti obbedienti. Ma l’ingiusto compie il male, e il male è dannoso, onde Socrate dimostra che nessuno può essere scientemente ingiusto. Nessuno può prefiggersi il danno, facendo quindi il male scientemente, perfino se il danno è piacevole. Ogni conflitto su questo punto non è reale ma illusorio, un errore dell’ignoranza.

Delle due argomentazioni, è quella di Socrate che ci colpisce come artefatta. La questione che Socrate evita è quella del come egli sappia che il bene è sempre lo stesso per tutti. Nel mondo pratico (ontico), i concetti di bene e male sono indicizzati: ciò che è bene per me non necessariamente è bene per te. Invero, se il mio bene e il tuo bene implicano il possesso di un identico oggetto—una persona che entrambi amiamo, un onore che bramiamo entrambi—i due beni non possono essere identici. Questa è esattamente la struttura della rivalità mimetica. Noi non saremo in grado di scongiurare un conflitto con la mera pronuncia di qualche parola magica (buono, giusto o bello) al modo in cui potremmo pronunciare il nome di un dio in un rito.

 

Non vi è nulla di sacro nelle parole di per se stesse. Il nuovo sacro di Platone è il concetto. Al tempo del Gorgia, l’Eidos/Idea/Forma non è ancora stato concepito. Ma ciò che Platone ha già scoperto è che il concetto del Bene, a cui sono legati il Giusto e il Bello (che la filosofia antica non distinguerà mai realmente da esso) contiene qualcosa di più del significato della parola. La condivisione irenica del concetto che fonda l’identità del tuo bene col mio non è un prodotto del significato della parola bene, ma del suo contenuto etico, una nozione spiegabile solo entro il quadro di un’antropologia originaria.

La dottrina platonica del bene-come-concetto, il momento decisivo dell’oblio del sacro-ontologico denunciato da Heidegger, non è ancora pienamente sviluppata al tempo della confutazione non del tutto persuasiva dell’anti-idea di Callicle. Quando l’argomentazione di costui è ripresa da Trasimaco nel libro primo della Repubblica, l’insufficienza della vecchia risposta motiva la dislocazione del tema, nel senso del tema del Bene, dall’anima umana individuale alla collettività politica. Il coronamento dell’argomentazione di Socrate è che “…nessun governo procura il proprio vantaggio […] esso procura e prescrive quello del suddito” (346e). Questo è l’inizio di un necessario ma incompleto ritorno all’origine collettiva dell’Idea, ove può avere senso soltanto la nozione di un contenuto collettivamente posseduto e atto a differire il conflitto.

 

In apparenza, quello che ci separa da Platone è il suo realismo.  Ma la realtà delle Idee non è altro da quello che noi abbiamo chiamato il loro contenuto. Dimentichiamo per un attimo il cielo in cui si suppone che dimorino le Idee con la i maiuscola. La loro realtà ha un significato più concreto, che la lezione del Gorgia può aiutarci a scoprire. Un’idea reale è un’idea che interviene nella realtà tra degli esseri desideranti. Essa è un oggetto apotropaico che ha la funzione di differire un conflitto potenziale. La realtà dell’Idea è la sostanzialità che la rende capace di sostituirsi alla cosa che provoca il conflitto. È perché Callicle e Socrate possiedono in comune l’Idea di giustizia che essi razionalmente non possono giungere allo scontro fisico. Quelli che lo fanno sono solo gli ignoranti che non possiedono l’Idea, o piuttosto che ne sono inconsapevoli.

Il concetto è una rappresentazione: infine null’altro che una parola. Ma la parola non è un mero duplicato della cosa. La cosa è unica, o, per parlare con più cautela: riproducibile con difficoltà. La parola è multipla, o, per così dire, riproducibile con facilità. Là dove avremmo dovuto dividere la cosa, noi possiamo condividere la totalità della parola. Là dove, tra me e te, il bene-come-cosa porrebbe un problema, il bene-come-parola non lo fa: la parola non è mia o tua, ma è di tutti. Il cinico obietterà: “Come se una parola potesse fare le veci della realtà!”. Ma in effetti può, alla condizione che il bene-come-parola acquisti la realtà che lo trasformerà in un concetto, ovvero in una realtà di un altro ordine, che come la parola è infinitamente condivisibile ma che, essendo un sostituto del bene-come-cosa, viene a trovarsi sulla via del desiderio conflittuale.

 

Il logos originario e il logos metafisico

 

Platone non ricerca e non vuole riconoscere la configurazione della scena originaria del linguaggio, nella quale soltanto una simile sostituzione è concepibile. Il segno linguistico viene all’essere per sostituirsi alla cosa che la molteplicità degli appetiti rende inaccessibile—non per sempre, ma per un certo tempo. Il segno differisce, questa lezione l’abbiamo ben appresa, ma ci dimentichiamo che ciò che esso differisce è in primo luogo la violenza dei desideri convergenti sopra un solo oggetto comune. Possesso, divisione e distribuzione della cosa sono tutti differiti: la cosa-totalità rimane solo come il referente ricordato del segno. Non abbiamo affatto bisogno di uno scenario psicoanalitico per comprendere questa idealizzazione dell’oggetto come totalità, a cui preferenzialmente noi diamo il nome di Dio.

 

Il segno differisce il conflitto, offre un sostituto immaginario in luogo della cosa. Si potrebbe obiettare che questo segno ipotetico non equivale affatto all’Idea di Platone. Platone non ha formulato un’antropologia originaria: al contrario, la sua dottrina ha promosso la soppressione delle antropologie originarie che egli conosceva nella loro forma rituale. Senza dubbio Platone mantiene, attribuendola al concetto, la funzione essenziale della scena originaria che egli nega: il differimento del conflitto mediante la rappresentazione. Ma nell’affermare la priorità del concetto egli inverte la priorità ontologica di parola e cosa. L’intera dottrina delle Idee che deriva da questa affermazione e che sarà elaborata a partire dal Cratilo—sul quale tornerò—mantiene questa inversione, che prolunga e preserva nella forma di un’ontologia la differenza sacra legata al centro scenico. Questo prolungamento, questo fare un feticcio della parola nella sua differenza dalla cosa, è una caratterizzazione alternativa ed equivalente della metafisica.

 

Nella nostra ipotetica scena originaria, il ruolo del linguaggio è ridotto al suo minimo necessario: la momentanea esitazione tra l’inizio (caotico) e la fine (ordinata in modo minimale) di un atto di appropriazione collettiva. L’atto linguistico minimale è la ri-presentazione di un oggetto già-presente per mezzo di un segno ostensivo che preserverà la memoria dell’oggetto dopo la sua sparizione. La parola ostensiva non è ancora un concetto: è il nome di un oggetto-in-situazione, un fenomeno che senza dubbio possiamo meglio comprendere come il nome di Dio [2]. È per mezzo dell’ostensivo che noi insegniamo le parole ai bambini; essi susseguentemente imparano ad usare queste parole come imperativi per far comparire gli oggetti designati in loro assenza, e infine per costruire frasi complete, cioè dichiarative. Nella frase dichiarativa il linguaggio raggiunge la sua capacità matura di creare modelli immaginari dell’altra scena della rappresentazione. Potremmo quindi dare una definizione preliminare del concetto come parola/nome compresa come elemento necessario di una frase dichiarativa, separato dall’atto originale del nominare. (Nome deriva dal latino nomen). La metafisica, negando l’esistenza di un enunciato-forma più primitivo del dichiarativo, incarna il rifiuto di pensare l’origine del linguaggio in termini di evento.

 

Questo sacrificio metafisico delle strutture linguistiche elementari istituisce il logocentrismo nel senso preciso di dominio della frase dichiarativa o proposizione, il significato forte della parola logos. È questa, piuttosto che la marginalizzazione strategica della scrittura, a costituire l’espulsione fondatrice della filosofia occidentale. L’ostensivo esiste soltanto in situazione: parlato o scritto, esso non può separarsi dal luogo in cui è espresso. La freccia sul segnaposto, il segno sulla porta di una toilette, costituiscono una forma di scrittura che presuppone da parte del suo lettore la stessa (virtuale) compresenza con il referente come parola vivente. Il gesto inaugurale della metafisica, il quale rende possibile il pensiero analitico, sopprime l’ostensivo che ci connette alla traccia della presenza storica che noi continuiamo a commemorare sotto il nome di Dio. Il concetto, l’Idea platonica, è qualcosa che tutti possediamo senza doverlo indicare, cioè senza dover eseguire il segno ostensivo che differisce il conflitto potenziale tra coloro che agognano lo stesso oggetto. Non è nel suo ruolo di forma grammaticale che l’ostensivo è pericoloso. Quello contro cui ci protegge la sua esclusione (e non solo dai libri di grammatica) è il rinnovamento della sua funzione originaria di designare il centro sacro del cerchio collettivo.

 

La fondamentale struttura circolare del rituale rivela la connessione, non ovvia in astratto, tra il linguaggio ostensivo e la religione. Pensando, come spesso avviene, che il logocentrismo filosofico sia in complicità con la religione si fraintende l’operazione collettiva del sacro. La metafisica tradizionale ridefinisce il sacro nei suoi propri termini come principio primo, come se lo stesso universo fosse dedotto da una prima proposizione. Il logos del sacro concettuale della metafisica, i cui dèi, a cominciare dal demiurgo del Timeo, non sono mai stati oggetti di culto, non è il logos delle religioni storiche. La presenza discorsiva differita che presiede alla metafisica non è la presenza reale che il mito pretende di realizzare. L’ostensivo è bandito dalla linguistica dei filosofi, che alla fede nella presenza divina che quello designa sostituiscono l’auto-presenza del linguaggio filosofico [3].

 

I due logoi, quello della religione e quello della metafisica, l’uno che si riferisce alla rivelazione originaria e l’altro che la nega, possono essere riconciliati soltanto nel discorso dell’antropologia originaria. Vi è, tuttavia, un fondamentale parallelismo tra l’oblio dell’Essere concettuale inaugurato dalla metafisica e la nuova e similmente dichiarativa concezione del nome della divinità che pochi secoli prima in Giudea era divenuta il punto di partenza di una rivoluzione religiosa. La loro comune sostituzione di strutture linguistiche pre-dichiarative con la proposizione dichiarativa stabilisce tra la religione ebraica e la metafisica greca l’omologia fondativa della cultura occidentale.

 

Altrove ho proposto un’esegesi dello ehyeh asher ehyeh mediante il quale Dio nomina se stesso a Mosè in Esodo 3[4]. Col rifiutare il nome ostensivo-imperativo con cui la divinità può essere chiamata, Mosè libera il suo popolo dal sistema sacrificale che controlla la presenza divina. Dio è l’essere centrale della scena della rappresentazione che sopravvive alla sparizione dell’oggetto centrale della scena originaria: nei termini del pensiero originario, egli è la sussistenza del luogo centrale della scena ricordato come essere. In Esodo, l’essere divino, la cui origine concreta è richiamata dal fuoco rituale del roveto ardente, diviene trascendente, staccandosi da ogni luogo storico specifico. Ma questo distacco stesso è un evento che ha luogo in una specifica situazione storica. La liberazione fornita dalla rivelazione ha la forza e la debolezza di non essere mai in grado di negare la propria storicità. Le due religioni universali scaturite dal Giudaismo, il Cristianesimo e l’Islam, rimangono attaccate non meno del loro antenato ad un luogo storico di fondazione.

 

Eliminare l’ostensivo vuol dire espungere la storicità puntuale del differimento della violenza collettiva per mezzo del segno. L’opposizione originaria tra centro e periferia che fonda il linguaggio e ne è fondata è la fonte e il modello di tutte le grandi dicotomie filosofiche: tra parola e cosa, forma e contenuto, Idea e copia, ontologico e ontico… Ma se tutte queste opposizioni sono già latenti nel segno in quanto tale, è solo dal tempo della frase dichiarativa che esse possono essere espresse tematicamente. Per comprendere una frase dichiarativa, la si situa entro un’altra scena che non è un mero prolungamento della scena presente, ma una scena mentale abitata da oggetti immaginari.

 

La rivelazione mosaica distanzia la presenza materiale della divinità che in precedenza era accessibile all’evocazione per mezzo dell’imperativo. Ma contrariamente alla metafisica la religione non può reclamare l’esclusività del dichiarativo. Il Dio che nomina se stesso esotericamente con una frase (ehyeh asher ehyeh) in Esodo 3 consente, in un secondo momento essoterico in Esodo 6, di condensare questa frase in una singola parola/nome (YHVH)[5]. Questa inversione dell’ordine storico dell’evoluzione linguistica è analogo a quello dei libri di grammatica, che definiscono l’imperativo come una trasformazione del dichiarativo. Ma mentre l’inversione della grammatica è un semplice oblio dell’origine linguistica, quella operata nell’Esodo pone la forma linguistica in relazione dialettica col volere divino, per cui propone un modello paradigmatico. Alla richiesta di un nome (magico), la risposta è una frase, che soltanto successivamente è ricondensata in un nome (religioso). Il Dio che mantiene se stesso nell’altro mondo sceglie di manifestarsi ad un uomo, di essere chiamato da lui. La nostra conoscenza della scelta di Dio determina la natura del nostro rivolgerci a lui: noi non comandiamo più Dio ma lo imploriamo.

 

L’ Eutifrone e l’etica filosofica senza evento

 

Sebbene la metafisica sia un modo di pensare fondamentalmente anti-religioso, come abbiamo osservato, essa ha la sua propria concezione di Dio. Non è sicuro che la divinità metafisica coincida con il Dio di Socrate, ma sicuramente è quello di Platone. Sono stati fatti dei tentativi di associare quest’ultimo ai movimenti religiosi della sua era: orfismo, misteri eleusini, ecc. Ma fin dalle sue prime formulazioni la religione platonica è essenzialmente delocalizzata.

 

Nell’Eutifrone, il Socrate platonico attacca la concezione tradizionale del sacro che porta il suo interlocutore ad avanzare un’accusa di omicidio contro il proprio padre. Eutifrone afferma che la sua azione è pia; Socrate gli chiede di ragguagliarlo circa la forma (eîdos, idéa) che rende pie le cose pie (ta hosía). Alcuni si sono spinti fino a vedere in questa maniera di formulare la questione una versione primitiva della dottrina delle Idee. Eutifrone tenta di definire il pio come ciò che gli dèi amano, ma Socrate ha buon gioco di lui costringendolo ad ammettere che, al contrario, un atto è gradito agli dèi soltanto perché è pio. In ultima analisi, il pio, come tutti gli altri valori nei dialoghi platonici, è indistinguibile dal giusto (díkaion): la conseguenza è quella di eliminare dalla religione proprio quell’elemento rivelato mediante il quale essa preserva la storicità originaria dell’umanità.

 

Per chiunque prenda sul serio la religione, è il volere divino che determina ciò che è pio, e non il contrario. Il dio che sarebbe soddisfatto della definizione platonica di pietà è un dio non più in grado di essere adorato. Il fatto che il Dio metafisico non abbia un nome proprio—nemmeno il nome-frase rivelato da Mosè—è indicativo di questo. La divinità filosofica maschera una profonda contraddizione: è un soggetto-persona dotato di volontà, e tuttavia questa volontà, come il contenuto del concetto platonico, non si rivela mai in un luogo o tempo specifici. È per mezzo di questa costruzione che la metafisica opera l’incantesimo del nascondimento della paradossalità del suo sacro dichiarativo.

 

Il Dio di Platone è un’arma contro il ristretto umanesimo dei Sofisti, che egli invero interpreta come un individualismo radicale, un anarchismo incompatibile col mantenimento dell’ordine sociale. Per il Platone del Teeteto, colui che afferma che “l’uomo è la misura di tutte le cose” nega tutti i valori che trascendono l’individuo. Di fronte a questo rischio, Platone ricolloca la fondazione della comunità umana all’esterno di essa, ma questo esterno non è più rivelato nella storia localizzata della rivelazione religiosa. In questo modo, egli crea quella terra di nessuno che la metafisica abiterà per oltre venti secoli—che essa non ha ancora abbandonato.

 

L’Eutifrone è l’unico dialogo platonico in cui l’argomentazione non sia indirizzata alle opinioni o atteggiamenti dell’interlocutore ma ad un atto specifico, un evento di significato etico. Eutifrone accusa suo padre di aver causato la morte di un thête o dipendente (di Eutifrone), morto per il trattamento negligente usatogli dal padre, che lo aveva fatto legare e gettare in una fossa perché a sua volta era responsabile dell’uccisione di un servo (del padre). Socrate è sorpreso del fatto che la morte per la quale Eutifrone richiede una punizione non sia quella di un membro della sua famiglia: soltanto questa potrebbe giustificare una così grande mancanza di rispetto filiale. Così Platone ci fa intendere che l’assassinio di un assassino attuato dal padre mediante negligenza dovrebbe essere lasciato senza punizione. Senza dubbio la pietà che richiede questa punizione è meccanica, formalistica, cieco rispetto della tradizione piuttosto che vera giustizia degna dell’approvazione divina. Nondimeno, un uomo è morto. La pietà tradizionale di Eutifrone a suo modo riconosce, parlando di contaminazione (míasma), uno squilibrio che Platone preferisce ignorare. In luogo dell’antica logica della contaminazione, che aveva obbligato Oreste a comparire davanti all’Areopago pur se responsabile solo di aver risposto ad un delitto, la filosofia pone una logica di neutralizzazione. In entrambi i casi, non siamo all’altezza di un giudizio morale che guarda ad ogni assassinio come ad un crimine contro la reciprocità umana.

 

L’Eutifrone presenta un paradigma dell’opposizione tra filosofia/metafisica e religione sacrificale. Mentre quest’ultima prolunga la catena della vendetta facendo uso di quelle stesse  istituzioni giuridiche che sono state designate ad interromperla, la prima pone un equilibrio di ingiustizia in luogo della genuina reciprocità morale. Il sacrificio consacra l’evento dell’assassinio, la filosofia lo espelle. Se per l’una delle parti è anche troppo facile puntare il dito accusatore, per l’altra è ancora più facile non accusare alcuno. Ma in realtà il secondo caso non è per nulla più irenico del primo: l’accusatore si trova accusato in luogo di colui che egli stesso accusa. Eutifrone non solo viene umiliato intellettualmente da Socrate, come tanti altri, ma per di più viene da lui anche imputato di un disegno omicida contro suo padre.

 

Socrate stesso, come sapranno i lettori di Platone, deve rispondere di un’accusa di empietà davanti all’arconte, nel cui palazzo il suo interlocutore è sorpreso di incontrarlo. Intentare una causa è designare una vittima, laddove, nella sua origine storica, la metafisica è il rifiuto di designare (la vittima)—il rifiuto, al suo punto di partenza platonico, di aver parte nel sacrificio di Socrate. Tuttavia, come mostra l’esempio del padre di Eutifrone, rifiutarsi di muovere un’accusa non previene la violenza.  In contrasto con la moralità giudeo-cristiana, il cui rifiuto di designare una vittima sacrificale va insieme con l’insistenza sulla comune riconciliazione, la filosofia tacitamente approva una violenza equilibratrice. 

 

Si può pensare che sia un semplice caso che nell’esempio scelto da Platone come controesempio di vera pietà il padre non uccida deliberatamente, o che la sua vittima risulti essere sia di condizione sociale inferiore, sia colpevole a sua volta di assassinio? In questo modo, l'assassinio originale è punito senza che colui che lo ha perpetrato sia designato come criminale. Proprio come nelle esecuzioni rituali, dove si pone cura acché nessun individuo sia reso impuro dal sangue della vittima, giustizia è stata fatta senza che alcun individuo compia un atto aperto, o anche un pensiero, di violenza. Colui che potrebbe distruggere questo equilibrio provvidenziale è il figlio parricida che accusa il proprio genitore all'interno del contesto rituale tradizionale.

 

Così il sistema giudiziario della metafisica elimina la designazione della parte colpevole in analogia con l'eliminazione dell'ostensivo della rivelazione religiosa da parte della proposizione dichiarativa. La soppressione dell'ostensivo è magicamente compensata da una giustizia, e per estensione da un ordine sociale, che  mentre è efficace nel punire il crimine è contemporaneamente non-violenta. L'espulsione dell'evento—che per principio è sempre un assassinio—permette la negazione intellettuale dell'esecuzione di Socrate nel Fedone.  È la soppressione di questo evento che costituisce l'origine anti-evenemenziale della filosofia.

 

Il Cratilo e la scoperta del significato

 

L'Eutifrone parla dell'eidos della pietà, ma solo come substrato per le cose pie, non come Idea esistente per se stessa. L'ordine della composizione dei dialoghi probabilmente non sarà mai stabilito con sufficiente esattezza al punto da consentirci di determinare dall'evidenza storica il punto esatto della nascita della dottrina delle Idee: di conseguenza, la nostra ipotesi deve basarsi sulla logica interna del pensiero platonico. Secondo questo criterio, seguirò coloro che collocano la prima apparizione delle Idee proprio nel Cratilo [6]. Anche se è impossibile provare che questo dialogo precede il Simposio o il Fedro, la progressione dalla riflessione del Cratilo sul linguaggio alle Idee presenta un attraente carattere di parsimonia. È logico che nel momento in cui Platone sta meditando sull’arbitrarietà del segno linguistico, egli sia condotto a separare esplicitamente il concetto-significato dalla parola-significante che lo designa.

 

Il Cratilo dedica una digressione molto lunga alla costruzione di etimologie motivate, il cui reale significato è che quasi tutte fanno scaturire, come il Dio di Mosè, nomi da frasi dichiarative. Nominare è designare, e come nel Genesi la distribuzione dei nomi è portata avanti da un legislatore. Ma Socrate trova le prime parole troppo distanti e oscure perché rivelino chiaramente il loro oggetto. In risposta a questa obiezione, Cratilo tenta di garantire il potere rivelatore dei nomi appellandosi al sacro, proponendo una derivazione eraclitea dei primi nomi sulla base del movimento universale.

 

La raison-d'être di questa derivazione non è mai stata spiegata in modo soddisfacente. Si tratta in effetti di una semiotica nascente che segna un passo cruciale nella dialettica che conduce dal pensiero presocratico alla metafisica platonica. Se i nomi sono dati alle cose “tutt’affatto come si muovessero e fluissero e divenissero” (411c), ciò è al fine di permetterci, dal momento che siamo incapaci di immobilizzare questo divenire, di osservarlo da uno stabile “punto di Archimede”. È solo quando possediamo l’immutabile parola fiume che noi possiamo affermare che non mettiamo mai due volte il piede nello stesso fiume. Il flusso eracliteo genera nel segno la sua stessa antitesi. Secondo questa idea della significazione, il nome conserva la sua funzione ostensiva: esso si appunta ad un movimento mondano in atto, come indica il passo da 411c appena citato—un’osservazione fatta da Socrate stesso, che ci informa che in gioventù egli fu un discepolo di Cratilo.

 

Ma Socrate non accetta più come univoca la derivazione eraclitea: basandosi su delle etimologie apparentemente tanto arbitrarie quanto quelle che le hanno precedute, egli insiste sulla eguale plausibilità di una derivazione delle parole basata sull’immobilità. Obliando la raison-d'être implicita della dottrina cratilo-eraclitea—l’opposizione tra le parole atemporali e i loro referenti temporali—Socrate scivola dall’idea che il nome è reso necessario dall’impermanenza delle cose all’idea che il nome deve significare un movimento e una traslazione, ovvero che invece di imporre la sua stabilità sul flusso delle cose il nome deve essere esso stesso un modello della cosa-in-movimento che designa.

 

Ma se questo è il punto, allora è abbastanza facile trovare esempi di parole/cose che sono immobili. L’ancora-ostensivo nome di Eraclito in questo modo diventa il nome concettuale di Platone, il quale esprime o contiene la quintessenza di un’azione—movimento o arresto di un movimento—attribuita alla cosa dall’etimologia fantasiosa di Socrate. Il suo primo esempio di parola immobile dice tutto: è la parola episteme (conoscenza), che egli deriva da hístesin epí (ferma su): “…sembra significare che ferma la nostra anima sulle cose” (437a). Al fine di confutare l’eracliteo che afferma che la conoscenza ha un’esistenza stabile solo in relazione all’instabilità delle cose a cui si riferisce, Platone deriva il nome stesso di conoscenza dalla già teorizzata azione della conoscenza-che-arresta-il-movimento: come il Dio dell’Esodo, egli arriva al nome soltanto mediante la deviazione della frase.

 

Il punto finale del ragionamento di Platone è la dimostrazione che, dal momento che nulla nelle parole stesse potrebbe imporre universalmente una rivelazione dei loro referenti come essenti o in movimento o in quiete, la nostra unica fonte di conoscenza circa l’accuratezza delle parole è rappresentata dalle cose (ta prâgmata) stesse. Ma è precisamente nel momento in cui Platone abbandona le parole per le cose che egli scopre la relazione fondamentale tra la parola e la cosa che essa designa. Perché la decostruzione dell’originaria opposizione tra la stabile parola e l’instabile cosa nonostante tutto non rende le cose di questo mondo capaci di offrire alla parola la solida base che le permetterebbe di funzionare entro un sistema semantico. Una volta che la semiotica di Cratilo-Eraclito è stata rifiutata per mezzo di una concezione dichiarativa del linguaggio, Platone si trova obbligato a presentare uno stabile correlativo per il linguaggio che non solo sia altro dalle cose-in-movimento, ma di una natura differente da esse. Come egli dice, perché vi sia conoscenza non soltanto devono esistere cose belle e buone, ma qualcosa che sia “bello e buono  di per se stesso” (ti ... autó kalón kai agathón, 439c).

 

Dunque è sulla stabilità del significato che Platone costruisce la sua teoria della conoscenza. Eraclito, nell’affermare che le cose si trasformano costantemente, non avrebbe certamente potuto pensare che questa condizione di flusso le renda incapaci di funzionare come correlativi del segno linguistico. In realtà, la nominazione ostensiva eraclitea dipende da un modello sacro soggiacente. L’ostensivo originario non è il nome di una cosa impermanente, ma il nome della permanenza stessa—il nome di Dio. Per liberarsi dell’Essere sacro occultato nel flusso eracliteo, Platone deve ancorare il segno non al suo referente mondano ma al significato, che per natura è in uno stato di quiete extramondana [7]. L’impermanenza di ogni bellezza è irrilevante, a condizione che il Bello rimanga intangibile. Platone è il primo vero teorico della significazione. Senza il significato non vi può essere alcun segno linguistico: Platone è stato il primo a comprendere questo fatto capitale, il fondamento di tutta la semiotica [8]. Ma la metafisica non si accontenta di essere una teoria del segno, e a fortiori di essere una linguistica: essa vuol fondare un’ontologia. Il significato bello viene di conseguenza trasferito oltre la regione delle cose transeunti per divenire l’Idea-Forma de il Bello.

 

Platone intuisce che il linguaggio non può essere spiegato sulla base del monismo ontologico. La parola è altra dalla cosa, e non meramente un’altra varietà di cosa (una imitazione come quella dell’artigiano, per esempio). Ma mancando della possibilità—etica tanto quanto intellettuale—di riportare questo dualismo alla sua fonte antropologica, egli la feticizza e di conseguenza la degrada. Affermare che soltanto le Idee sono reali non significa distinguerle in modo assoluto dalle cose mondane, ma al contrario assimilarle ad esse. Non appena ci si immagina un cielo abitato dalle Idee, le si fa svolgere nell’altro mondo lo stesso ruolo che le cose svolgono in questo, proprio come avviene nel mito della caverna. L’altro mondo è in effetti l’altra scena, la scena della rappresentazione, nella quale appaiono soltanto i segni.

 

Qual è allora la relazione tra il mondo delle Idee e l’altro mondo delle anime, quel luogo immaginario consacrato dalla religione, descritto a lungo nel Fedone? Cerchiamo di non essere troppo frettolosi nel naturalizzare il cielo religioso come uno strumento di manipolazione pretesca dei creduli o come il fantastico adempimento di un qualche innato desiderio di immortalità. Il suo modello è chiaramente, come rivela Platone, il (significato del) segno. Ma Platone fissa questo modello in un’ontologia dualistica col sopprimere il legame originario tra significante e referente, una connessione della quale la traccia sintattica è precisamente l’ostensivo.

 

Finché il segno serve come mezzo per la rivelazione dell’oggetto centrale del desiderio, l’altro mondo dell’Essere permanente apparirà essere abitato da quell’oggetto anziché dal segno stesso. Il modello originario dell’immortalità è quello del centro sacro della scena della rappresentazione. Usare il linguaggio è istituire una relazione che fin dall’inizio è formale e di conseguenza liberata dalla soggezione alla forza del tempo. Coloro che vorrebbero porre un Linguaggio trascendente al posto del logos cristiano o hegeliano dimenticano che il linguaggio non è, ma è costruito, e che il punto di partenza per questa costruzione non può certo essere la frase dichiarativa che la corona. Senza dubbio una parte di responsabilità per questa svista è attribuibile all’enfasi posta da Saussure sulla significazione a spese della struttura sintattica. Ma più profondamente si tratta di una responsabilità della metafisica stessa, i cui adepti disillusi continuano a credere ancor oggi che essa debba magicamente dotarli dell’intera serie di strumenti necessari alla sua stessa decostruzione.

 

È la formalità della relazione-significazione linguistica a generare il mondo delle Forme. L’immortalità in questa sfera non è un beatifico prolungamento del tempo vissuto nell’eternità, ma una forma di essere extratemporale. Sebbene egli non comprenda che l’altro mondo è originariamente quello della significazione linguistica, Platone è il primo a rendersi conto che esso è abitato da esseri accessibili solo tramite la meditazione sugli esseri-segni che con vocabolario formalistico chiamiamo significati, ma che meritano il loro nome hegeliano di begriff, concetto, poiché essi afferrano e preservano un contenuto originario.

 

Il concetto nasce quando l’immortalità formale della significazione diviene separata dalla sua origine nella designazione ostensiva. Noi procediamo dagli dèi immortali alle Idee immortali, in tal maniera che quando gli dèi stessi sono evocati nei passi mitici di Platone, essi sono creature del linguaggio piuttosto che suoi creatori. I giudici del mito di Er alla fine del Gorgia sono finzioni che illustrano l’idea di Giustizia, non dèi che la incarnano. Le loro distribuzioni di pene e piaceri compensatori rivelano mediante la logica del supplemento l’inefficacia della moralità socratica: il tiranno Archelao soffre negli inferi al fine di incarnare una verità morale che non può essere esemplificata sulla terra.

 

Liberazione dalla metafisica?

 

Ora che abbiamo visto con quali dubbi stratagemmi Platone impone un ordine al magmatico universo eracliteo, possiamo ben comprendere l’impazienza di coloro che vorrebbero liberarci dalle branche della metafisica. Jean-Marie Benoist, nella sua Tyrannie du logos (Editions de Minuit, Parigi 1975), mette a punto l’atto d’accusa postmoderno. Socrate ha liberato il nostro linguaggio dalla tecnocrazia dei Sofisti solo al fine di renderci schiavi di un logos repressivo. Che meravigliosa occasione s’è perduta per una linguistica del significato, per una comunità fondata sul principio di piacere… La dottrina del sempre-già rimane ossessionata da un mito dell’origine, sempre il medesimo: il mito della differenza e del desiderio “polimorfo e perverso”—il sogno, ereditato dal modernismo, di un Essere anteriore al linguaggio. Esso è influenzato dallo schema lacaniano in cui il linguaggio impone un ordine patriarcale sulla turbolenza frammentaria del desiderio immaginario [9]. Tuttavia, nel modello di evoluzione storica seguito da Benoist ad istituire la repressione non è l’origine del linguaggio, che non viene menzionata, ma quella della metafisica. Questo gli permette di dolersi del dominio repressivo della metafisica senza dover ammettere che il suo logos è lo stesso linguaggio umano.

 

L’originario-senza-una-origine del pensiero decostruzionista è un libero gioco del significante che, riportandoci alla realtà materiale del segno, mette in questione la significazione e quindi la metafisica. Heidegger potè concepire un pensiero dell’Essere antitetico alla metafisica come l’ostensivo lo è al dichiarativo, che avrebbe designato l’Essere stesso anziché creare modelli fittizi di esso tratti dalla sfera dell’ontico. La sparizione di questo paradiso presocratico nell’era postmoderna ha relegato l’ostensività nell’ambito del religioso in cui ha avuto origine, e donde è probabile che nessun filosofo vada a recuperarla. Di conseguenza, Benoist ha fatto ricorso alla psicoanalisi come all’antropologia originaria ufficiale della postmodernità—un’antropologia nella quale la sostituzione dell’ontogenesi alla filogenesi consente lo svuotamento dell’etico. Ma chassez le religieux, il revient au galop: quello che l’autorità psicoanalitica fornisce non è nient’altro che un mito dell’origine. Entro l’orizzonte fissato dal riferimento conclusivo dell’autore ad Eraclito, il regno del mitico non trova alcuna opposizione per il suo essere totalmente non manifesto [10].

È tempo di riportare la dépense al contesto rituale in cui l’ha trovata Georges Bataille [11]. Il riferimento sommario di Benoist al potlatch riflette un tipico fallimento postmoderno nell’incapacità di comprendere—come Bataille è in grado di fare nei suoi momenti di grazia—che questo meraviglioso flusso, questo riversarsi di energia al di là di ogni ragione, non nasce nel delizioso polimorfismo del desiderio individuale ma nella “crudeltà” (per usare un termine di Artaud) di società molto distanti dalle nostre utopie intellettuali. Il caos presocratico espulso dalla metafisica è la decadenza di un ordine rituale soggetto ad un controllo di gran lunga più rigido di quanto immagini la metafisica dei nostri giorni. Quando Platone attua il tentativo di sottoporre a controllo gli eccessi tirannici del desiderio individuale, lo fa per allontanare la crisi in una società appena divenuta post-rituale, e non per mettere un freno fallocratico ai primitivi appetiti dell’umanità originaria. L’umanità originaria conosce già il linguaggio e l’ordine nel loro senso più rigido: il nostro sogno dell’anarchia è concepibile soltanto su questa base.

 

La concezione metafisica del linguaggio è definita dall’espulsione delle forme linguistiche elementari. Ma Platone non espelle l’ostensivo in quanto tale, poiché egli non lo teorizza in quanto tale. Se fosse stato in grado di teorizzarlo, non sarebbe stato costretto ad espellerlo. Platone teme l’immediatezza del linguaggio che agisce essa stessa sul mondo. I Sofisti sono pericolosi perché la loro retorica restituisce al linguaggio il suo potere originario di creare significato, ma in un contesto in cui il parlante non è più soggetto all’ordine collettivo trascendente incarnato nel rituale. La stabilità delle Idee che mantengono l’ordine sociale è fondata su di una più profonda, seppur ancora mistificata, visione dell’evento originario e della scena della rappresentazione che lo conserva.

 

La logica formale della significazione giustifica il gesto fondante della metafisica. Il concetto è davvero immortale perché esso non appartiene al mondo reale, qualunque sia il suo punto d’entrata nel linguaggio umano. Ma se le virtù nominalizzate dei primi dialoghi e le Idee stesse dei più tardi possedessero soltanto l’immortalità formale del segno-in-generale, esse non potrebbero rispondere ai requisiti etici che il pensiero platonico impone loro. Nel tentativo di trovare nel linguaggio le basi di una comunità libera dal conflitto, Platone crea una forma di pensiero che rimuove l’origine storica del linguaggio come lo strumento proprio della comunità umana per il differimento del conflitto. Perché il concetto sia immortale, esso deve essere senza origine e perciò senza storia. Al contrario, la reale immortalità del concetto sta nella sua evocazione della condivisione scenica del segno nell’evento originario come garanzia trans-temporale di pace comune.

 

NOTE

 

1.     Il lettore ricorderà che in Originary Thinking ho definito la metafisica come il modo di pensare fondato sul principio secondo cui la frase dichiarativa—la proposizione—è la forma linguistica fondamentale.

 

2.     La nostra comprensione intuitiva di questo termine è la più semplice indicazione della persistenza del nostro attaccamento alla scena originaria. Noi non potremmo concepire l’esistenza di Dio, anche soltanto al fine di negarla, senza basare la nostra concezione su di un’esperienza del sacro, un’esperienza di cui il nome-di-Dio è una cristallizzazione. (Per un’ulteriore elaborazione di questa idea, vedasi Science and Faith, e particolarmente il capitolo 2 di Originary Thinking,  “The Anthropological Idea of God”.) All’opposto, la costruzione di un concetto di Dio che non richiede alcun nome è il compito della metafisica.

 

3.     Come obiettivo originale della decostruzione, la nozione fenomenologica di auto-presenza del discorso si riferisce alla presunta relazione del parlante al suo enunciato piuttosto che alla specificità di questo: per quel che la nozione di  auto-presenza ci dice, egli potrebbe essere impegnato nella glossolalia.  Solo il contesto del discorso filosofico suggerisce che il referente dell’enunciato sia situato nell’altra scena del dichiarativo. Dov’è, per esempio, l’auto-presenza in un enunciato imperativo che designa specificamente ciò che è sperimentato-come-assente? Solo nel fatto che (ponendo che io non sia sordo) io odo me stesso parlare, ovvero che il mio discorso da me ascoltato mi fornisce un feedback mentre parlo, senza alcuna connessione con lo specifico del linguaggio umano. Solo nel caso della proposizione metafisica, interamente contenuta entro la scena immaginaria della rappresentazione, il contenuto dell’enunciato può essere caratterizzato o come assolutamente presente (a se stesso) o come assolutamente assente (al mondo empirico).

 

4.     Vedasi Science and Faith, capitolo 3.

 

5.     Come ho già indicato altrove [vedasi “The Unique Source of Religion and Morality”, Anthropoetics I, no.1 (giugno 1995; URL: http://www.humnet.ucla.edu/humnet/anthropoetics/ ) e Contagion 3 (primavera 1996), pp. 51-65], nella rivelazione originale in Esodo 3, 14, Dio già distingue tra la frase completa mediante la quale si nomina a Mosè e il suo mandato di dire al popolo “Io sono/sarò (ehyeh) mi ha inviato a voi”.

 

6.     Vedasi Henry Teloh, The Development of Plato's Metaphysics (University Park, Pennsylvania State University Press, 1981): “ La data di composizione del Cratilo, sfortunatamente, è incerta. Io credo tuttavia che delle Forme separate appaiano alla fine del dialogo (439c-440d), anche se con una modalità primitiva e rudimentale, che indica che Platone ha appena iniziato a pensare su di esse” (p. 83). Il fatto che le argomentazioni di Teloh siano prese dalla tradizione metafisica non fa che aggiungere forza alle mie che sono molto differenti. D’altra parte, è difficile che sia una mera coincidenza il fatto che il nome di Eutifrone riappaia nel Cratilo (e in nessun altro passo di Platone), in guisa alquanto ironica: “che [questa scienza dei nomi] mi sia caduta addosso, quello che io considero responsabile di questo, o Ermogene, è soprattutto Eutifrone” (396d). Non è questo un segno del progresso della riflessione platonica sull’eidos? Eutifrone è colui che si dice aver ispirato Socrate con le sue etimologie divine. Vedremo che sono precisamente queste a condurre il Socrate platonico dal cratilismo eracliteo alla nozione dell’Idea-significato.

 

7.     Di contro, Platone ha abbastanza familiarità con la pluralità delle lingue barbare per riconoscere l’instabilità del significante: è precisamente per questa ragione che egli nega l’utilità della ricerca empirica dei nomi primitivi.

 

8.     Di contro, Parmenide, il pensatore dell’Uno, dell’assoluta permanenza, non è un semiotico. Il dialogo che porta il suo nome e che è fedele a quanto conosciamo del suo pensiero mostra che l’Uno, lungi dall’essere, come l’Idea-significato platonica, un punto fisso tra le opposte mobilità di significato e referente, è tanto mobile quanto il mondo di Eraclito. La parola Uno designa una totalità assoluta che è innominabile—Uno non è un nome bensì un attributo—e invero, come l’insieme di tutti gli insiemi, propriamente inconcepibile. Come tale esso si colloca esattamente nel momento che precede l’emergere della metafisica, in cui la componente sacro-ostensiva dell’Essere non è stata ancora sostituita dalla presenza astratta delle Idee.

 

9.     Ma lo stesso Lacan non nutre alcuna illusione circa la libertà dell’immaginario, che egli descrive al contrario come succube del desiderio dell’Altro.

 

10.  Dopo il celebre frammento 60 (“Guerra è il padre ed il re di tutte le cose”), l’ultimo passo eracliteo citato da Benoist è “ a Ai vaganti di notte, ai magi, ai posseduti da Dioniso, alle menadi, agli iniziati; b Senza sacralità, invero, essi vengono iniziati ai misteri che si praticano fra gli uomini” [riportiamo qui la traduzione di G. Colli, La sapienza greca III,  Adelphi, Milano 1993, p.67 (F.B.)]  . Egli quindi conclude : « Voici venir encore ces ombres et ces masques, ces figures de mauvais augure que l'on cache ... » (p.181). Benoist avrebbe fatto bene a leggere la nota di Girard su Eraclito ne La violenza e il sacro: “ Nel frammento 60 non è forse, in epitome, espressa la genesi stessa del mito, la generazione degli dèi e ella differenza sotto l’azione della violenza (…)?” (Adelphi, Milano 1986, pp.121-122)

 

11.  Vedasi specialmente Bataille, La part maudite (Editions de Minuit, Parigi 1967).

 

 

GENERATIVA