Omero a Hollywood

Cristopher Morrissey 

Chronicles of Love and Resentment

No. 304: Sabato 26 giugno 2004

Traduzione dall'inglese di Fabio Brotto

 

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Nel film Troy di Wolfgang Petersen, che è una rivisitazione postmillenniale della storia raccontata nell’Iliade di Omero,  è Briseide a rivelarsi il vero tallone di Achille. Questa nuova rivelazione dovrebbe piacere sia a coloro che hanno familiarità con la mitologia classica sia a quelli che non la conoscono. Tra i critici che hanno fatto una recensione del film, tuttavia, i più sono partiti dall’assunto che si dovesse condannare qualsiasi deviazione dal testo letterario canonico di Omero da parte degli autori del film. Questo assunto sbrigativo, però, costituisce uno standard infondato e impossibile. Giustamente Hollywood lo rifiuta ogniqualvolta si dispone ad adattare al set una storia matura per una ritrascrizione cinematografica.

Dopo tutto, Omero ha incluso nell’Iliade la caccia al cinghiale calidonio, un mito dentro il mito, sia come cenno a quello che in precedenza era stato un grosso successo per gli aedi, sia come guida ad una vecchia materia rimessa a nuovo. La caccia al cinghiale calidonio è una vecchia storia sull’ira, rinarrata entro la nuova storia di Omero sull’ira (Iliade IX, 646 – 737). Il tema di Omero è l’ “ira” (la menis) di Achille, ed è annunciato già nella prima parola del primo verso del suo poema. La storia dell’ira del mitico cacciatore di cinghiali Melagro, narrata dal saggio vecchio Fenice nel nono libro dell’Iliade, perciò, riflette la rappresentazione innovativa, da parte dello stesso Omero, dell’insufficienza della pura furia di un guerriero nell’età arcaica.  Fenice presenta il suo racconto ammonitore su Meleagro al fine di dissuadere Achille dalla sua contesa con Agamennone. Nelle mani di Omero, questo diventa anche una riflessione autocosciente intorno alla ricezione di un poeta da parte del suo uditorio. I nostri critici cinematografici potrebbero anche odiare la storia che viene narrata: e tuttavia potrebbero avere mancato di cogliere il suo punto centrale (come è successo ad Achille). Anzi, essi potrebbero persino pretendere che la narrazione supporti il loro punto di vista opposto. Per parafrasare Achille: “Meleagro? Sì, io devo essere proprio come lui!”. O per parafrasare i critici di Troy: “L’Iliade di Omero? Sì, bisognava seguirla alla lettera!”.

Ma la stessa Iliade ai suoi tempi è stata un inatteso remake della leggenda tipo della Guerra di Troia. Similmente, il Troy di Petersen, grazie all’impegno dello sceneggiatore David Benioff, costruisce una nuova storia intorno agli eventi centrali dell’antico mito, reinterpretati. Il film condivide con l’antico rifacimento da parte di Omero lo stesso nobile fine: appropriarsi dei vecchi personaggi ed umanizzarli per un’epoca nuova. Quindi la domanda per la critica non deve più essere “quanto viene massacrata dal film l’estetica classica?”, ma piuttosto “in che modo il film incorpora l’estetica postmoderna?”.

 

 

In Omero, quella della schiava Briseide è una particina. È mero bottino, un trofeo che occasiona lo scontro tra Achille e Agamennone all’interno della loro competizione per la potenza e il rango in tempo di guerra (Iliade I, 138-221; id.,334-355). Omero usa questo contrasto per esplorare la comune umanità di Achille e Agamennone. Alla fine essi abbandonano le folli fantasie che hanno sconvolto le loro vite. Entrambi si sono abbandonati ad una utopia del desiderio (un’espressione pertinente di Eric Gans) entro la quale immaginano i propri rivali abbattuti senza alcun costo per sé (Iliade IX, 19-32; id., 137-139; XVI, 115-119). Il genio di Omero si esplica nell’itinerario di umanizzazione attraverso il quale conduce questi due rivali. Poiché egli conclude la sua storia sia con la loro reciproca riconciliazione ( Iliade XIX, 51-179; id. 333; XXIII, 979-992) e con la riconciliazione di Achille con la propria mortalità (Iliade XXIV, 591-646).

Il tema della narrazione omerica è il risentimento di Achille (come meglio si dovrebbe tradurre menis), un risentimento diretto primariamente contro Agamennone per la sua manovra con Briseide. Come ha affermato Gans, il poema esibisce l’espulsione da parte della cultura alta di questo fenomeno, eticamente distruttivo e moralmente potente. Il risentimento mette in questione la struttura etica della società, proprio come Achille si scaglia contro quella gerarchia sociale che lo pone sotto il comando di Agamennone. Ma l’intuizione morale che tale risentimento apporta è una potente forza culturale, che può essere canalizzata nel rinnovamento oppure nella distruzione. Per quel che concerne Achille e Agamennone, questa contesa alimentata dal risentimento viene risanata con una nuova fase di cooperazione tra gli Achei, che condurrà alla epocale caduta della città di Troia. Ma, ancora più centrale per Omero, l’uso del risentimento come linea guida del suo universo letterario segna la transizione epocale greca, nell’ottavo secolo avanti Cristo, dal “medioevo ellenico” all’età arcaica. Con Omero, il risentimento è diventato culturalmente produttivo, e nello stesso tempo i Greci dell’età arcaica hanno conseguito nella poesia orale un risultato morale degno di essere messo per iscritto. Non è affatto rilevante quale uovo o gallina sia venuto prima, poiché sia l’alfabetismo sia Omero sono reciprocamente necessari per dare inizio a quella produttività alto-culturale che culminerà nell’età d’oro della Grecia.

 

Nel film Troy Briseide replica il suo ruolo di accorgimento dell’intreccio narrativo per una  nuova narrazione della leggenda. Ma ella assume una nuova centralità col suo statuto postmoderno di vittima. Si rimane delusi vedendo il personaggio di Agamennone ridotto a convenzionale cattivo hollywoodiano, senza alcuna qualità in grado di redimerlo. Egli riceve la sua punizione postmoderna quando la vittima femminile autorizzata, Briseide, lo uccide col suo pugnale. Questo risparmia a Clitennestra il suo famoso assassinio (Odissea XI, 439-529; XXIV, 219-225), e nella nostra epoca di guerra, fra selvagge accuse di imperialismo, soddisfa demograficamente il risentimento delle masse alla periferia – ma col più scontato espediente della cultura popolare. È un peccato che il postmodernismo, nella sua versione popolare, trovi un oppressore adatto per ogni vittima: se il film cade in qualche sua parte, è certamente qui, dove perde l’occasione di mostrare una qualche simpatia alto-culturale per l’Agamennone del mito. Le storie variano, ma sono soggette ad una necessità simile: Agamennone deve fare di sua figlia Ifigenia la prima vittima della guerra, essendo sotto una crudele compulsione (forzato o dagli dèi o dalla posizione di responsabilità che detiene). E tuttavia Agamennone non costituisce il centro tematico dell’opera di Petersen, e forse perciò non è corretto giudicare il film troppo aspramente per il ritratto unidimensionale che esso dà del capo degli Achei. Anche il risultato alto-culturale ottenuto da Sofocle nel suo Aiace si fonda su di un ritratto di Agamennone e Menelao come cattivi arroganti che si oppongono ad Aiace. Benioff non è certo Sofocle, ma forse dovremmo almeno accreditargli l’abilità di far tornare i conti nel suo proprio universo mitologico: uccidendo anticipatamente Agamennone e Menelao, fa morire in anticipo anche Aiace. Sofocle sicuramente non glielo rinfaccerebbe, come se in qualche modo potesse invalidare i suoi risultati estetici nell’Aiace.

 

Più interessante del modo sbrigativo in cui è trattato lo sviluppo del personaggio di Agamennone, tuttavia, è il modo sostanzialmente innovativo in cui Achille va incontro alla propria fine. Se il film è riuscito o fallito dipende anzitutto dal modo in cui vi è trattato Achille. Poiché, come in Omero, Achille è il punto di partenza della storia. Il film comincia con Achille che si comporta esattamente come la rock star controculturale che egli è nell’universo immaginario del desiderio letterario. Attardandosi a dormire con le sue groupies, è in ritardo per la sua esibizione. Significativamente, proprio come Achille inizia il film col suo ritardo da rock star, così anche egli incontra la propria fine. Achille arriva troppo tardi per salvare Briseide, la damigella femminista in pericolo durante il sacco di Troia operato da Agamennone. Ma Achille non arriva troppo tardi per essere abbattuto dalle frecce di Paride, la prima delle quali si conficca nel suo famoso tallone. Con questa affascinante modificazione, con cui gli autori del film reinterpretano i desideri umani che guidano la Guerra di Troia, Briseide diventa la debolezza fatale di Achille (laddove in Omero lo sono la sua furia e il suo risentimento smisurati).

 

Il tragico finale hollywoodiano, scontato nell’insieme, si dispiega con consapevoli innovazioni formali che coinvolgono la nuova donna fatale, Briseide. Lo sviluppo del personaggio di Achille (portato a conclusione in uno spazio di giorni, non come culmine di una guerra decennale) viene riconfigurato per imperniarsi su di un nuovo contenuto eroico: e precisamente sulla sua resa erotica sotto la lama di Briseide. Molte persone che mettono in ridicolo la conclusione del film hanno ammesso (almeno con me) che questo incontro centrale tra Achille e Briseide è nondimeno ben riuscito. Achille insegna a Briseide quello che non ha mai imparato al catechismo presso il tempio di Apollo. In aggiunta al suo forte contenuto drammatico, la resa di Achille al pugnale di Briseide in questa scena è un valido parallelo formale con l’uso esperto che lei farà del medesimo per spacciare Agamennone alla fine del film.

 

L’eroismo di Achille viene in questo modo riabilitato (secondo la necessità postmoderna) da Briseide. È lei che gli consente di riprendere contatto col lato sensibile della sua personalità, e di prendere la fatale decisione di abbandonare la Guerra di Troia e di far vela per la Grecia con lei. Quindi la morte di Patroclo ha la funzione (come una versione aggiornata dell’espediente omerico della vicenda di Patroclo) di far svanire la fantasia di Achille, un’ “utopia del desiderio” che qui (diversamente che in Omero) duplica romanticamente la “utopia del desiderio” di Elena. Elena e Paride, avendo bramato la fuga dalla vita su di una nave spinta dall’impossibile vento del romanticismo, causano la mortale tempesta che travolge Troia. Il desiderio è fatale: Paride ed Elena (nella esagerata versione mitica) scatenano la guerra di Troia, e Achille e Briseide (nella potenza fortemente distillata di una versione cinematografica tragico-romantica) realizzano la consumazione personale della morte che un simile amore impossibile rende necessaria. In questo modo, questa nuova concezione del personaggio di Achille assegna al film il carattere di una riflessione postmillenniale sull’impostazione sacrificale standardizzata che l’estetica postmoderna richiede a tutte le love story. Sebbene tardivamente (cioè anacronisticamente) eroico per la potenziata Briseide, Achille deve tuttavia ancora morire in una catarsi hollywoodiana. Ed ecco che le frecce di Paride apportano una redenzione per l’eroe classico, una redenzione accettabile dai romantici del nuovo millennio.

Nella riedizione postmoderna della leggenda, è il desiderio di Achille di salvare Briseide dal sacco di Troia, e svolgere il ruolo apparentemente obsoleto dell’eroe maschio, che costituisce il suo mitico punto debole fatale, rendendolo vulnerabile. Ma il sacrificio che volontariamente fa di se stesso a queste esigenze narrative postmoderne mette tragicamente in luce il problema che la recente centralità vittimaria di Briseide pone per l’eroismo maschile classico. La problematica centralità della vittima nell’estetica postmoderna è visibile nelle innovazioni formali di Troy che riguardano Paride e Patroclo e i loro protettori. Patroclo nel film è una sorta di milite ignoto, vittima innocente della guerra. Achille, invece di essere un complice volontario della tragica uscita di Patroclo in battaglia (Iliade XVI, 1-302), tenta di proteggere il ragazzo entusiasta dagli orrori di una vita di guerriero. Similmente, Paride è una sventurata vittima del desiderio erotico, che lo colloca sotto la cura del suo più anziano e saggio fratello Ettore. Ingegnosamente, il film gioca la carta della vittima romantica per guadagnare a Paride i nostri cuori. Per ottenere questo, il fratello di Agamennone, Menelao, che ha rinchiuso Elena in un matrimonio senza amore, viene fatto fuori in un modo che soddisfa il pubblico, ben prima del suo tempo mitologico. Qui Menelao è un bullo che opprime la povera fantasia romantica di Paride: così egli viene eliminato da Ettore in modo che Paride possa tornare a portarsi a letto la sua amata. Con questa audace riscrittura del destino di Menelao, il film reinterpreta precisamente il salvataggio di Paride dalle mani di Menelao operato da Afrodite (Iliade III, 407-441): la versione cinematografica di questo duello tra Paride e Menelao simultaneamente riabilita Paride come personaggio simpatico e tuttavia rimane fedele al suo status di protetto di Afrodite. In verità, la descrizione omerica di Elena e Menelao che vivono per sempre felici e contenti non andrebbe affatto bene per un’epoca come la nostra, in cui Elena deve essere trasfigurata  nella archetipica vittima dello stupro legalizzato.

 

Come in Omero, Ettore e Achille sono due doppi, ma qui sono resi tali nella loro sollecitudine per le rispettive controparti nel desiderio, Paride e Patroclo. Paride desidera la felicità erotica maritale che Ettore già possiede, e Patroclo desidera mimeticamente la realizzazione marziale militare che Achille già possiede. In questo modo nella versione cinematografica sia il desiderio erotico che quello marziale (Paride e Patroclo) reclamano lo statuto di vittima, trasformando quindi l’azione affermativa in difesa delle vittime da parte di Ettore e Achille in un conflitto che genera la trama del racconto. La soluzione sacrificale di questo conflitto che coinvolge Achille, soluzione che il film ci propina per la nostra catarsi estetica, rivela la creazione di un doppio della tragedia romantica, che si aggiunge alla innovativa creazione di Ettore e Achille come doppi da parte di Omero. Alla fine del film, Paride ed Elena riescono a realizzare la loro fuga, in una versione da commedia romantica della Guerra di Troia (che è iniziata a causa del loro mitico desiderio che ha messo in movimento le armate), ma le loro controparti Achille e Briseide falliscono il loro analogo obiettivo (e così la Guerra di Troia finisce come una tragedia romantica).

Si può sostenere che questo finale hollywoodiano all’insegna del “c’è qualcosa per tutti” sia redento dai consapevoli finali paralleli tracciati dallo sceneggiatore (sebbene in modo sottile) tra il destino comico di Paride ed Elena e quello tragico di Achille e Briseide. Ma il finale hollywoodiano di quest’opera è (molto più ovviamente) il tallone di Achille non solo di Achille medesimo ma anche del postmodernismo. Poiché, a dispetto delle recensioni che denunciano l’assenza degli dèi dalla storia raccontata da film, Apollo svolge ancora un ruolo salvifico nell’universo narrativo su cui esercita il suo dominio. Il sacrificio ad azione ritardata che Apollo fa di Achille per l’empietà da lui compiuta verso la sua sacerdotessa Briseide ricostituisce la reale ( e fino a quel punto non manifesta) gloria di Achille come niente di meno che immortale cavalleria. Il personaggio di Achille può anche essere trattato per tutto il film in relazione al bisogno dell’eroe epico di conquistare fama, ma, ai suoi tempi nonostante l’aggiornamento politicamente corretto per il destino di Briseide, la fama suprema per un eroe maschio è ancora conseguita mediante un nobile gesto che attraversa tutte le epoche estetiche. Come fece Odisseo per Penelope (Odissea XXIII, 342-387), così fa Hollywood oggi per noi: ci racconta la storia di un uomo che, impegnatosi a diventare un eroe immortale, scopre infine ciò che conta davvero: tornare indietro a salvare la ragazza. E, se necessario, morire per lei.

 

Christopher S. Morrissey insegna Mitologia Classica alla Simon Fraser University

 

GENERATIVA