Anthropoetics III, no. 2 (autunno 1997 / inverno 1998)

Narrazione originaria

Eric Gans

Department of French
University of California at Los Angeles
Los Angeles CA 90095-1550
gans@humnet.ucla.edu

Traduzione dall'inglese di Fabio Brotto

brottof@libero.it

http://www.bibliosofia.net/ 

 

 

Originary Thinking contiene un capitolo intitolato "Narratività e testualità" che concede alla seconda delle due, secondo le tendenze del tempo in cui il libro fu scritto, quel che sembra una definitiva preminenza. Nella nostra epoca testuale, la narrazione di storie pare un'attività naïve, fondata sull'illusione di un presente in grado di auto-dislocarsi storicamente. Ho spiegato la decostruzione della narrazione in termini originari come la rivelazione della preminenza della detemporalizzazione "testuale" del tempo pratico appetitivo sulla sua ritemporalizzazione come oggetto di una ricerca mondano-biografica.

L'ipotesi originaria propone le condizioni minimali per la generazione del segno trascendente. Ma queste condizioni, che sono pre-condizioni e pertanto sono extraumane, non possono essere riprodotte all'interno dell'umano: esse possono soltanto essere rappresentate, ovvero imitate con un grado minore o maggiore di precisione. Le rappresentazioni che conseguono il differimento della violenza mediante la rappresentazione, il sempre rinnovato processo della generazione della trascendenza dall'immanenza, sono ciò che noi chiamiamo cultura. La base della dicotomia tra il trascendente e l'immanente è la relazione linguistica tra il segno e la cosa, che si raddoppia in quella tra significante e significato. Questa dicotomia archetipica è una costruzione antropologica, è con l'umano che il segno è stato introdotto nella natura.

Tutta la cultura è testuale, in quanto è costituita da rappresentazioni che sono compresenti virtualmente se non effettivamente.  La distinzione tra cultura orale e scritta è secondaria. L'inscrizione della storia nella mente non è così accurata come quella del testo sulla carta, ma la sua relazione al tempo lineare del racconto è essenzialmente la stessa: in entrambi i casi, qualsiasi elemento dell'intero può essere attinto indipendentemente dalla sequenza narrativa lineare. E tuttavia questa sequenza non può essere trascurata come fosse un epifenomeno. Come spesso ci sentiamo dire, noi viviamo la nostra vita raccontando storie: la narrazione è la nostra fonte di significato. Mi propongo qui di tentare una analisi originaria della narrazione.

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La questione che riguarda la narratività originaria del segno è fondamentale per la nostra antropologia. Se non possiamo concepire l'umano senza narrazione, allora siamo obbligati a includere la narratività nella scena originaria, nell'emissione del segno originario. E' necessario distinguere tra l'uso linguistico minimale o formale del segno come designazione arbitraria del centro ed il suo uso culturale o istituzionale come riproduzione dell'evento. La temporalità del segno non è quella dell'azione appetitiva mondana, ma quella di un atto di mimesi autonomo e della sua chiusura. L'esistenza stessa del segno dipende dal differimento della temporalità dell'appetito e dell'appropriazione. Ma poiché il segno nondimeno esiste nel tempo (in quanto significante), esso non può sfuggire a questa temporalità. Il segno materiale è la base delle arti: è musicale come suono, danzato e figurativo come gesto, e così via. L'istituzionale inerisce come potenzialità in ogni uso reale del segno. Ma una volta stabilito questo, dobbiamo concepire l'uso originario - ed ogni uso susseguente - del segno come narrativo. Del segno la narratività non richiede altro se non la temporalità che vi è inerente.

La narrazione sorge quando il tempo del segno ritorna al mondo come modello del tempo dell'azione. Nella nostra esperienza, la narrazione implica una pluralità di segni, tale che il tempo tra di essi prende un aspetto di temporalità pratica. Nel tempo che occorre per emettere un certo numero di segni consecutivi, uno logicamente potrebbe fare qualcos'altro, compreso forse l'atto designato o imitato da questi segni. In questo senso, la narrazione è dramma in parole. Come si può allora comprendere la narrazione in termini di temporalità del singolo segno originario?

Il criterio minimale della narrazione è il rendere la temporalità del segno un modello per l'azione mondana. Ma l'azione mondana in generale non può essere dotata di un significato a priori. La sola azione che noi possiamo considerare ab ovo come equivalentemente umana e significante è precisamente quella dell'emissione del segno stesso, ovvero il differimento della violenza mediante la rappresentazione dell'oggetto (sacro) centrale. Cioè il segno originario in quanto segno linguistico formale rappresenta l'oggetto, ma in quanto segno istituzionale o narrativo rappresenta il processo della sua stessa emissione.

Ne consegue che la storia raccontata dal segno originario è in primo luogo quella della sua stessa emissione, vale a dire la storia della conversione del gesto di appropriazione in un gesto di significazione. Il segno inizia come movimento per appropriarsi dell'oggetto e finisce come gesto che imita l'oggetto. E' questo stato finale che costituisce il segno come forma proprement dit; ma nella scena originaria questo stato marca la conclusione di un processo. Giungiamo così alla conclusione inaspettata che, sebbene nei termini del già-umano la testualità preceda la narratività, nei termini del divenire-umano che la scena realizza è la narratività a costituire la testualità. Il segno deve raccontare la sua storia prima di poter acquisire una significanza formale.

Nel conseguente modello di narrazione come costituzione del segno, la storia è la generazione della trascendenza dall'immanenza. Il segno formale come significante che significa un significato è il destino finale di un gesto che è cominciato come tentativo di appropriazione di un oggetto reale. Il differimento dell'appropriazione conferisce senso all'oggetto, e questo a sua volta conferisce senso al gesto originale, che ha ricercato l'assimilazione dell'oggetto e, con essa, l'abolizione della sua identità significativa. Ciò che è significativo è ciò che resiste all'assimilazione e ne causa il differimento. Il segno è la storia di questa resistenza. 

Sparagmos e narrazione 

Nell'ipotesi originaria l'assunto è che il differimento dell'appropriazione dell'oggetto sia solo minimo, così che il differimento del segno è seguito dallo sparagmos, o appropriazione collettiva e spartizione dell'oggetto. Questo elemento della narrazione non riguarda più il conferimento di senso al significato, ma la dissoluzione mondana del significante. Dopo l'atto temporale dell'emissione del segno, il segno sussiste come realtà trascendentale ma non è più nel processo del suo essere enunciato. Proprio come il sorgere del segno dal gesto di appropriazione racconta la storia della sua costituzione, il suo lasciar spazio al desiderio rinnovato racconta la storia della sua decostituzione.

La violenza dello sparagmos riflette il supplemento di risentimento accumulato come risultato del differimento della soddisfazione appetitiva. Ma questo supplemento non dovrebbe essere inteso come un'aggiunta supererogatoria al minimalismo del nostro modello. L'oggetto deve essere diviso al fine di essere consumato, come un qualsiasi oggetto di appetizione. Poiché esso è stato l'oggetto del segno, ciò che deve essere distrutto in questa consumazione non è una pura Gestalt psicologica ma una forma significativa. La violenza dello sparagmos è la violenza della decostruzione dell'incarnazione mondana del significato: non dipende da un'arbitraria traslazione del risentimento nella violenza fisica.

Il differimento dell'appropriazione costituisce l'oggetto come sacro. Ma una volta che l'appropriazione sia stata differita, la sacralità viene percepita come una qualità non più di questo oggetto, ma dell'Essere incarnato in esso solo in modo contingente. Quando rinunciamo all'appropriazione dell'oggetto del nostro comune desiderio, questo desiderio ci ispira l'attribuzione ad esso di un potere che per questo stesso fatto non è più una semplice emanazione dell'oggetto stesso. Interpretata in termini pratici, la rappresentazione dell'oggetto rimuove la sua immediata minaccia alla comunità. Ma poi quella minaccia, che viene sperimentata come il sacro non è più puramente quella dell'oggetto. Come lo sparagmos diviene immanente, il segno è sempre meno il significante dell'oggetto in quanto oggetto, e sempre più il nome-di-Dio che designa l'Essere al quale il pericolo della violenza mimetica inerisce trascendentalmente o immortalmente.

Nello spirito del ritorno a Girard operato in Signs of Paradox, potremmo rinominare il gesto di appropriazione interrotto "gesto di appropriazione differito", dato che l'orizzonte della temporalità paradossale di Derrida è la violenza dello sparagmos. Il segno è soltanto un differimento della violenza, l'umano è soltanto uno iato sempre protratto tra l'appetito naturale e la sua violenta demoltiplicazione mediante il desiderio, ovvero mediante la rappresentazione stessa che l'ha differita.

In questa prospettiva, la rappresentazione che il segno fa dell'oggetto potrebbe essere assimilata direttamente alla designazione della vittima in Girard, semioticamente indefinita. Ma questa designazione non è il prodotto psicologico di un desiderio mimetico quantitativamente intensificato. La rappresentazione è precisamente ciò che separa l'oggetto in quanto referente mondano dall'oggetto in quanto significato/Idea, così che noi giungiamo al risentimento per l'occupazione, da parte dell'oggetto materiale, del luogo dell'Essere permanente che spetta al referente-in-generale ideale del segno. Il mio The Origin of Language non rende giustizia alla complessità della rappresentazione ostensiva. Designare è rappresentare, ma rappresentare è trasferire l'essere o essenza dell'oggetto fisico al designatum della rappresentazione, di cui già possiamo parlare come del suo significato. Il segno fin dall'inizio anticipa l'oblio metafisico della sua violenta origine ostensiva che la filosofia di Platone articolerà (Vedi il mio "Plato and the Birth of Conceptual Thought," Anthropoetics II, 2.)

L'analisi speculativa è fondata su di un'intuizione che non è metafisica ma antropologica: ciascun passaggio corrisponde ad una relazione etica, e non meramente semiotica. La scoperta che il pericolo posto dall'oggetto desiderabile può essere differito dall'emissione del segno è anche la scoperta che la causa prima di questo pericolo non è l'oggetto in sé. In tal modo l'oggetto appare meno pericoloso, e tuttavia il pericolo in quanto tale, la forza del sacro, rimane come potenziale che l'emissione del segno può attualizzare. Senza il segno, non può sussistere alcuna sproporzione tra l'essere centrale e la sua significanza, dato che questo essere sarebbe un mero oggetto di maggior o minore forza appetitiva e mimetica. La persistenza del segno come mezzo di rievocazione della minaccia sacra è ora scandalosamente di fronte all'oggetto che era apparso come la fonte di quella minaccia e che aveva provocato il conseguente gesto di appropriazione interrotto.

La rivelazione del sacro non coincide mai con la sua semplice inerenza ad un oggetto mondano. La sacralità di uno spazio è potente perché la presenza dell'oggetto assente nel suo spazio vuoto è un modello per l'operazione della trascendenza, la trasfigurazione della cosa mondana in un Essere sacro - che a sua volta è una metafora per l'operazione del segno. Nella nostra storia originaria, il segno dell'oggetto è il prodotto della nostra rinuncia ad esso. Ma dopo questa rinuncia l'oggetto mondano non è l'Essere desiderato ma un suo mero ricordo - non il referente/significato reale del segno ma un mero ricordo del tipo che esso definisce. L'oggetto ha usurpato il luogo dell'Essere sacro attraverso l'errore categoriale dell'incarnazione, che deve essere punito dal suo sacrificio in quanto individuo materiale a questo Essere sussistente ideale (idéel). (Viceversa, rinunciare al sacrificio stesso in nome del rispetto per l'essere individuale è riconoscere la reciprocità etica di tutto l'essere). Lo sparagmos è la punizione inflitta all'oggetto centrale da ciascun membro della comunità risentita della pretesa di centralità dell'oggetto.

Lo sparagmos termina la storia del segno originario. La costituzione di quest'ultimo in quanto segno nel divorzio tra la cosa e il suo Essere rappresentato non termina la storia perché, proprio come la trasformazione, che opera differimento, del gesto di appropriazione nel segno ha occupato la temporalità della produzione del segno, così la trasformazione, che non opera alcun differimento, del segno in un nuovo gesto sparagmatico di appropriazione occupa quella della dissoluzione del segno. Il segno formale o linguistico rimane nella sua sfera trascendentale, ma il segno istituzionale o culturale che ha sia un inizio che una fine comincia e finisce nell'appropriazione mondana. La narrazione originaria racconta la storia della costituzione e decostituzione del segno, della sua costituzione come separato dal suo oggetto originale e della conseguenza mondana di questa separazione al momento della decostituzione per l'oggetto stesso su cui si polarizza il risentimento.

Per riassumere provvisoriamente la nostra analisi: il segno, nella sua nascita e morte, racconta la storia della sua propria costituzione e decostituzione. L'emissione del segno è un'attività prima assunta come sostituto dell'appropriazione dell'oggetto, poi abbandonata nell'attività appropriativa dello sparagmos. Ma questa non è una sequenza in tutto simmetrica. L'abbandono del segno non è la sua cancellazione e nemmeno la sua dimenticanza: lo sparagmos non è la dimenticanza del segno ma, al contrario, un atto di vendetta contro la memoria rinforzata del segno. La decostituzione del segno in una violenza mondana non ci riporta ad un universo preumano. La fine della storia del segno racconta del suo necessario abbandono in quanto oggetto di un'attività mondana, quella della sua emissione, ma non della sua sparizione dal mondo. Al contrario, la narrazione originaria è tragica: l'essere mortale che è stato occasione per il segno, abbandonato dall'Essere sacro che esso incarnava, viene riconsegnato ai desideri violenti della comunità, perché gli sopravviva l'Essere trascendente del segno.

La narrazione originaria è sacrificale. Allo stesso tempo, essa è una rivelazione dei limiti del sacrificale. Il residuo di tristezza che segue una tragedia riflette l'eccedenza del nostro amore sul nostro risentimento. Il segno trascende la sua esemplificazione mondana, ma la nostra esperienza di questa trascendenza è dipendente da questo mediatore mondano in questo momento unico. L'origine del linguaggio come evento è sia la costituzione di un orizzonte di significanza oltre il meramente evenemenziale, sia la creazione della nostra capacità di garantire significato all'evento entro questo orizzonte. L'origine del linguaggio è perciò anche l'origine della narrazione.

Mito e storia

La narrazione originaria è la storia dell'emissione originaria del segno. Ma come può quest'analisi dar conto del dominio della narrazione sulla nostra cultura e le nostre vite? Nella nostra epoca di demistificazione, la narrazione è l'unico mistero che rimane: in verità, si è arrivati a comprenderla come la categoria fondativa del mistero culturale - della trascendenza. Quando ripetiamo che la cultura ruota attorno al narrare storie, ci perdiamo nell'indefinibile natura delle storie. Né secoli di curiosità letteraria né decenni di analisi letteraria ci hanno insegnato che cosa faccia una buona storia, o in che senso una storia rappresenti un'esperienza diversamente dal modo in cui una parola rappresenta una cosa. Né l'analisi originaria risolverà questo mistero. La sua ambizione è solo quella di ridurlo ai suoi minimi termini, di fornire il modo più parsimonioso di pensare la narrazione. La comprensione originaria della narrazione non è intesa ad aiutarci a costruire le nostre proprie storie, ma a fondare la nostra comprensione della narrazione su un corredo minimale di categorie antropologiche.

Quel che chiamiamo mistero è la relazione paradossale tra il mondo delle cose e il mondo dei segni, tra l'immanenza e la trascendenza. Vi è un solo mistero: quello di come la seconda possa essere generata dalla prima. Noi non possiamo risolvere il mistero, ma possiamo ridurlo a termini minimi. Non possiamo conoscere esattamente quale configurazione di soggetti e oggetti abbia fatto sorgere l'evento originario, né esattamente quale configurazione consenta all'effetto generativo dell'evento di essere riprodotto. La riproduzione rituale è sempre meccanica, poiché essa feticizza elementi riproducibili della scena a spese della configurazione complessiva inconoscibile. Il rituale tenta soltanto di riprodurre il mistero, non di penetrarlo, e proprio per questa ragione non può mai riprodurlo pienamente.

Poiché il rituale non è storia. Esso fin dall'origine è integrato dal mito. E tuttavia neppure il mito è storia, perché fin dall'origine è integrato dal rituale. L'avventura mitica non è una finzione autosufficiente; essa deriva la sua autorità dalla rappresentazione sacra. Il mito narra di dèi, esseri insieme mondani e trascendenti che agiscono nel mondo ma che sussistono atemporalmente come segni piuttosto che come cose corruttibili. Il paradosso della divinità è quello dell'Essere indipendente del desiderio mimetico.

Se il linguaggio è in primo luogo intorno agli dèi, e solo in seguito intorno agli umani, è perché la significanza inerisce all'Essere atemporale del significato. Anche quando hanno forme animali o comunque non umane, gli dèi sono antropomorfi: il criterio reale dell'antropomorfismo è l'uso del linguaggio. E tuttavia poiché essi sono immortali, la significanza che fonda il loro sistema di significazione è lontana dall'esperienza temporale umana. La morte cui gli dèi non sono soggetti non è in primo luogo la morte come fine inevitabile della vita, ma quella morte che il segno è stato creato per stornare: la morte per mano dei propri simili. Quel che separa Dio dall'uomo non è l'esistenza senza fine, la vita eterna, ma l'invulnerabilità al pericolo del desiderio mimetico.

I miti sono storie con le quali l'uditore non si può identificare pienamente. Siamo nell'ambito della storia autentica quando i compagni umani degli dèi cominciano ad occupare il centro della scena e l'esperienza dell'umanità mortale diviene la base della significanza. Le storie riguardano essenzialmente mortali che non condividono l'Essere che trascende il desiderio mimetico. Come ho suggerito in The End of Culture, la perdita dell'erba dell'immortalità da parte di Gilgamesh può servire da linea divisoria esemplare tra il mito e la narrazione letteraria.

Sia che noi accettiamo sia che rifiutiamo il concetto antropomorfico popolare di Dio, il suo infantilismo dovrebbe farci esitare a dichiararci liberati dai lacci della superstizione. Dicendo che Dio è come noi tranne per il fatto che è immortale non si rende facile la spiegazione dell'origine o della funzione culturale della sua immortalità. L'immortalità è in primo luogo una qualità dell'Idea, di ciò che è significato dal segno. L'idea del dio immortale deriva dall'uso del segno per designare l'oggetto centrale originario: un dio è un essere mondano che allo stesso tempo partecipa dell'essere trascendente del segno.

Questa formulazione rende più preciso il concetto girardiano del mito come narrazione mistificata dello sparagmos. Lo sparagmos distrugge la forma dell'oggetto che ha fornito il referente per il segno; ma il segno non abbisogna più di un referente, perché ha un significato. Il mito mistifica lo sparagmos col trasformare la vittima in una divinità; il suo tegumento mondano viene strappato nell'assassinio collettivo, lasciando come residuo la sua essenza spirituale.

L'esempio girardiano classico è il mito tikopia analizzato in Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo (p. 134 sgg.). Il dio straniero Tikarau è invitato ad una festa. Egli inciampa e abbandona una gara di corsa, dichiarando di essersi ferito, ma ruba invece il cibo della festa. Mentre scappa, cade, lasciando dietro di sé diversi alimenti, e salendo le colline ritorna in cielo. Girard nota che l'esecuzione mediante costrizione della vittima a salire su un luogo alto e infine a gettarsi nel vuoto è una procedura rituale normale (vedi la rupe Tarpea a Roma). L'ascensione che definisce la separazione del dio dalla comunità umana maschera il suo linciaggio collettivo. Senza dubbio è improbabile che la fuga nel cielo del protagonista sia una pura fuga dell'immaginazione mitica. Ma il punto che questa lettura non coglie è che, assassinio o fantasia, il mito fornisce un modello per la generazione della trascendenza dall'immanenza - del mondo superumano della significazione dal mondo subumano che la ignora. Lo sparagmos narrativamente mascherato di Tikarau non è meramente la genesi della cultura materiale che egli si lascia dietro ma è quella della distinzione tra segni e cose che è la caratteristica minimale dell'umano.

Il mito è generativo. Esso narra della nascita dell'umano mediante l'azione dell'oggetto del desiderio mimetico collettivo. Nel mito, questa azione si presenta esercitata come una forma di intenzionalità umana. Ma la narrazione mitica solo in apparenza è composta di un insieme riconoscibile di azioni umane: il finto inciampare di Tikarau nella gara, il suo furto, la fuga, la caduta, il suo passaggio nei cieli non sono atti intenzionali genuini. Nella prospettiva demistificante di Girard, quelli che appaiono gli atti liberi dell'eroe sono in realtà gli atti obbligati di una vittima: la narrazione maschera l'azione della collettività. Si pretende che Tikarau inciampi mentre in realtà è stato spinto; egli salta in cielo mentre in realtà è stato forzato a lanciarsi nel vuoto. Questa non-intenzionalità sacra è il luogo della generazione a opera del mito della trascendenza dall'immanenza, dei segni dalle cose.

Dal momento che nascondono l'intervento decisivo della collettività umana, le azioni delle figure mitiche generano significato senza essere a loro volta significative per gli agenti che le svolgono. Le motivazioni di Tikarau non possono essere compresi in riferimento all'intenzionalità umana. Quando la teoria post-umanista attribuisce l'intenzionalità definitiva al testo, al linguaggio in sé, esprime realmente un'intuizione antropologica centrale. L'intenzionalità implicita nella narrazione è davvero inerente al sistema dei segni in sé, poiché l'in-sé del linguaggio è equivalente alla nostra alienazione all'Altro sacro del nostro desiderio mimetico. Le intenzioni del protagonista mitico non sono sue proprie, ma sono la proiezione del desiderio e del risentimento collettivi della comunità.

La feticizzazione postmoderna del linguaggio non è nient'altro che un riposizionamento retorico del sacro. Se chiedessimo ad un pensatore postmoderno se egli consideri che il linguaggio sia sacro, egli potrebbe ben essere d'accordo. Ma il suo uso della parola sacro a denotare implicitamente un inconoscibile potere alieno non tiene conto delle visioni del pensiero religioso primitivo, per non dire della riarticolazione di questo pensiero da parte della teoria mimetica. Il linguaggio è sacro in ciò che esso unisce la sfera reale e quella trascendente: il nostro compito è quello di fornire un modello articolato della loro relazione.

 

Grammatica e narrazione

L'intenzionalità umana è il criterio della narrazione propriamente detta. Il mito sviluppa la fondazione storica del segno; esso fornisce per le nostre rappresentazioni un'eziologia non tanto fantastica quanto metaforica. Le storie non sono spiegazioni di realtà storicamente date. Esse durano o cadono a seconda che tengano il nostro interesse nel contesto della vita di ogni giorno ove, come conseguenza del nostro riuscito differimento della violenza originaria, ci ritroviamo in una condizione di desiderio senza oggetto, di noia, le vague des passions. Molto è stato scritto sul compimento o trascendimento, da parte dell'opera letteraria, dell'orizzonte delle aspettative che siamo soliti associarle. Ma la nostra aspettativa è sempre che una storia, per quanto il suo contenuto e la sua forma siano vincolati dalla tradizione, trascendano ogni aspettativa concreta che noi possiamo averne nutrito. La storia ripetuta al bambino che richiede di ascoltare ogni sera le stesse parole è storia al limite del rituale, ma nel rituale, per quanto noi possiamo sperare di sperimentare l'origine rivelativa che esso ripete, il sine qua non è la ripetizione, laddove nella storia è l'esperienza della novità. Noi partecipiamo alla ripetizione del rito nella speranza di rinnovare la rivelazione; ascoltiamo una storia nella speranza di ottenere una rivelazione, perfino se ottenuta mediante ripetizione. La gioia della tradizione orale è che la stessa storia non è mai la stessa: ascoltare un narratore raccontare una storia familiare è ascoltare una performance sempre nuova. Il rituale ripete feticisticamente il conosciuto; nella narrazione, l'originalità è l'originarietà.

L'imperativo dinamico dell'originalità preclude l'elaborazione di un modello generale per le storie che non sia banale. L'analisi originaria fornisce una spiegazione semplice del fallimento dei tentativi di definire la grammatica della narrazione: la narrazione comincia non con il linguaggio articolato ma col segno originario. Quel che fa del racconto di storie un utile paradigma per la cultura in generale è precisamente l'assenza di qualsiasi semplice corrispondenza tra le strutture formali del linguaggio e le strutture istituzionali della narrazione. Questa non corrispondenza riflette la natura paradossale dell'auto-generazione culturale. La narrazione originaria, la storia della generarsi del segno, è una storia che il segno stesso non è strutturalmente atto a narrare.

Il tentativo di ridurre la narrazione ad un modello strutturale fornisce il paradigma fondamentale del tentativo necessariamente inadeguato della cultura di pensare se stessa. Esso ci dice perché la cultura sia più un mercato che un rito; a dispetto dei suoi tentativi di autoanalisi sempre in corso e sempre solo parzialmente riusciti, essa continua ad essere più saggia in sé che per sé. Il pensiero originario è la forma finale di questi tentativi, poiché esso teorizza il loro essere inadeguati; ci parla circa le possibilità della narrazione senza alcuna pretesa di mostrarcene i limiti o di scoprire le sue procedure di generazione. L'antropologia generativa è nella sfera culturale l'analogo della teoria dei mercati in quella economica. L'economista elabora teorie circa la domanda e l'offerta, e circa il genere di cose che ha valore economico, ma non può predire quale domanda vi sarà di vecchi prodotti, né quali prodotti nuovi saranno forniti, né, in generale, quali procedure condurranno al successo di mercato.

La derivazione del dichiarativo dalla narrazione

Il segno narra la storia del suo proprio sorgere, ma questo racconto è inadeguato, dal momento che il suo proprio emergere è precisamente ciò che il segno non può articolare. Di qui la sua integrazione da parte di una sequenza di segni che modella la cronologia di questo emergere. Questa integrazione fornisce un modello per l'evoluzione della forma linguistica.

In The Origin of Language, ho fatto derivare la frase dichiarativa dalla risposta negativa ad un imperativo non eseguito. La predicazione, l'associazione di un predicato ad un soggetto o di un commento ad un tema, emerge come la soluzione del paradosso dell'imperativo andato a vuoto. La forma imperativa più semplice esige un oggetto senza distinzione tra nomi e verbi, cose e azioni. La forma imperativa fa della presentazione dell'oggetto richiesto una necessità trascendente; nell'imperativo, un'azione mondana è, per così dire, inclusa in una forma rappresentativa. L'unica risposta possibile ad un imperativo è ubbidirlo; le risposte verbali che abitualmente diamo - "molto bene, signore!", "Subito!" - anticipano specificamente l'esecuzione. La forma grammaticale dell'imperativo fa sì che non abbiamo alcun mezzo per esprimere la non-esecuzione, deliberata o no.

La proposizione dichiarativa come risposta ad un imperativo andato a vuoto sostituisce alla presentazione dell'oggetto richiesto la predicazione su di esso - ovvero la presentazione all'interlocutore sulla sua scena immaginaria della rappresentazione. Nel caso più semplice il predicato ci dice che l'oggetto è assente; essere presente sulla scena della rappresentazione è, in primo luogo, essere assente dalla scena dell'azione mondana. Questa sostituzione di un'espressione ad un oggetto è l'atto originario dell'integrazione narrativa. La predicazione che giustifica la non esecuzione dell'imperativo narra una storia circa il suo oggetto. La narrazione articolata o esplicita, in quanto opposta alla narrazione implicita incarnata nel segno originario, fornisce una spiegazione della significanza dell'oggetto: l'oggetto è significante perché esso possiede questo predicato. La predicazione senza tempo, descrittiva, e la narrazione temporale a questo stadio non sono maggiormente distinte di quanto i nomi siano distinti dai verbi nel ruolo di oggetto imperativo. Il predicato dice perché dell'oggetto si debba parlare, cioè perché rimanga interessante per quanto non più disponibile all'appropriazione. Nella prospettiva di una comprensione ostensiva dei segni come indicatori di oggetti, il predicato non è necessario; la sua necessità si può spiegare solo in una prospettiva generativa, ove il segno narra del suo proprio sorgere e la predicazione è il primo passo formalmente esplicito in questo racconto.

In quest'analisi non v'è nulla che contraddica la derivazione del dichiarativo dall'imperativo presentata in The Origin of Language. Ma nel configurare il passaggio dall'imperativo al dichiarativo in termini di integrazione narrativa del segno, la presente analisi è più parsimoniosa; essa ci consente di ignorare la distinzione tra il contesto sacro del rituale istituito e quello profano del discorso quotidiano, visto come il luogo appropriato del mutamento linguistico. Essa ci suggerisce di concepire l'originario segno ostensivo come includente entro di sé ab ovo le forme più avanzate, ovvero come provocante letture imperative ed ostensive non ancora formalizzate nella sintassi.

La concezione minimale, ostensiva, del segno originario come rappresentazione dell'oggetto centrale presente per mezzo di un gesto di appropriazione interrotto afferma la centralità dell'oggetto di fronte alla rivalità mimetica dei soggetti che sono sul punto di appropriarsene. In quanto ostensivo, il segno nega le condizioni del suo sorgere al fine di presentarsi come un riflesso passivo di ciò che era già sempre lì, un'integrazione di una realtà sacra. Esso non richiede alcun adempimento ma suggerisce mimeticamente l'inadempienza, la rinuncia. La narrazione di ciò di cui ho parlato, il divenire-segno del segno, è esclusa dalla nostra lettura del segno stesso: è parte del suo inconscio. Il segno ostensivo è la negazione della narrazione; esso differisce la storia perché la anticipa come violenza distruttiva. Questa è narrazione in un senso che va al di là del grado zero: è la negazione della narratività.

L'identificazione del segno originario con l'ostensivo non nega né la natura imperativa né quella dichiarativa della frase-in-generale, tuttavia insiste sulla precedenza della sua ostensività sulla sua imperatività e dichiaratività, sia nella sua realizzazione diacronica che nelle tracce sintattiche di questa realizzazione.

Lo scopo del linguaggio è prima di tutto quello di indicare ostensivamente qualcosa, anche se quel qualcosa è una predicazione. Ma, allo stesso modo, lo scopo del linguaggio, raggiunto il proprio scopo, è quello di ottenere imperativamente che il suo interlocutore faccia qualcosa, anche se quel qualcosa è aderire a questo scopo. E lo scopo primo, originario, è la significanza sacra dell'oggetto, che significa, imperativamente, la sua inaccessibilità all'appropriazione. Se, in quanto ostensivo, il segno originario maschera la propria relazione ambiguamente creativa alla sacralità dell'oggetto in modo tale da far sì che l'interlocutore comprenda la rappresentazione che il segno fa dell'oggetto come un prodotto dalla preesistente significanza dell'oggetto stesso, nel leggere il segno in quanto imperativo l'interlocutore deve essere consapevole di quello che vuole fargli fare colui che emette il segno. Se l'ostensivo si presenta come rivelatore di ciò che già è, l'imperativo implica una sequenza storica dal segno all'azione. In altre parole, mentre l'ostensivo maschera la sua narratività come testualità, l'imperativo è già esplicitamente proto-narrazione.

Per riprendere l'argomentazione di The Origin of Language: poiché l'espressione dell'ostensivo implica la presenza del suo referente, l'espressione del segno in assenza del suo referente è compresa come ciò che rende presente il referente. Il bambino che grida "Mamma!" usa come imperativo un segno che ha appreso come ostensivo: egli si aspetta che l'espressione della parola renda presente la madre. Questa derivazione è implicita nella nostra pedagogia, dato che noi insegniamo al nostro bambino a parlare così che possa esprimere i suoi desideri.

Prima di richiedere che un interlocutore fornisca il suo oggetto (nominale o verbale), l'imperativo riafferma in modo minimale la necessaria congiunzione tra la parola e la cosa che era stata presumibilmente stabilita dall'ostensivo. A questo punto possiamo già parlare della funzione storica o narrativa dell'imperativo. La necessaria congiunzione di parola e cosa già implica una temporalità che non è più quella del segno ostensivo. La conversione del gesto di appropriazione nell'ostensivo è uno spostamento dal tempo dell'azione mondana alla temporalità interna del segno: il segno ostensivo imita l'oggetto non nella sua azione ma nel suo Essere trascendente, nei confronti del quale l'azione è inconcepibile. Di contro, il modo imperativo concepisce il passaggio da un presente imperfetto ad un futuro più perfetto. Non è chiaro, e di fatto è irrilevante, quale agente renderà effettiva la presenza dell'oggetto assente, proprio come non è chiaro, e di fatto è irrilevante, per il bambino quale sia l'agente da cui ci si dovrebbe attendere che renda presente la madre. Il segno originario in quanto imperativo esprime lo scandalo dell'assenza proprio allo stesso modo in cui, come ostensivo, esprime la beatitudine della presenza.

E il segno in quanto dichiarativo racconta la storia dell'impossibilità dell'imperativo - dell'assenza dell'oggetto desiderato dal mondo del desiderio. Proprio come la funzione proto-imperativa del segno non specifica l'agente responsabile del render-presente che essa richiede, così la sua funzione proto-dichiarativa non specifica a chi appartenga il racconto della storia del suo fallimento nel render-presente. In verità, la narrazione potrebbe essere definita in modo minimale precisamente da questa assenza di responsabilità specifica. Proprio come il dichiarativo mondano è una risposta necessariamente inappropriata - un errore categoriale - ad un imperativo mondano, una narrazione è una risposta necessariamente inadeguata alla congiunzione tra parola e cosa implicita nella forma imperativa piuttosto che a qualsiasi imperativo specifico.

L'analisi svolta suggerisce la seguente definizione: la narrazione è la lettura dichiarativa del segno originario. La narrazione originaria è il segno in tanto in quanto esso risponde (negativamente) alla sua precedente indicazione della congiunzione imperativa di parola e cosa. Per la sua natura stessa, la risposta è negativa perché, per la logica dell'integrazione, se la congiunzione fosse una mera realtà non ci si potrebbe aspettare alcuna risposta.

Se l'ostensivo designa l'oggetto come sacro, l'imperativo lo ridefinisce come necessariamente, imperativamente accessibile - come, di fatto, la futura vittima sacrificale. E tuttavia la narrazione, come mostra la storia dei Tikopia in Girard, è la storia non dello sparagmos ma della sua negazione trascendentale: la fuga dalla folla non conduce alla distruzione ma all'apoteosi. Definire questa apoteosi come un mero travisamento della realtà vuol dire richiedere all'inizio la scelta impossibile tra il mito e la storia dello sparagmos reale, tra la storia della sfortunata vittima e quella dell'Essere sacro cui si riferisce il segno. La comprensione cristiana che l'Essere divino è mortale - e immortale - nello stesso modo di ciascun essere umano è implicita ma non articolata nella scena che ha posto le basi su cui tale consapevolezza poté evolversi. Perché l'Essere possa rivelarsi come mortale, esso prima deve essere fondato come immortale. E questo è dire che il referente umano del segno deve essere posto come protagonista di una narrazione originaria della trascendenza.

Con quello che ho chiamato sopra racconto della storia del suo stesso sorgere, il segno originario deflette l'imperativo della presenza fisica. La presenza del segno è in verità coniugata con la presenza di ciò cui si riferisce, ma esso non si riferisce ad un referente fisico - né ancora ad un significato o Idea - ma all'Essere che sta dietro la sua manifestazione fisica. Il referente mondano ascende al reame trascendente dei segni immortali; la narrazione rifiuta l'appropriazione mondana con il situare i suoi oggetti in un universo di rappresentazioni. L'oggetto è qui, ma qui in questa frase, non qui in questa stanza.

La lettura girardiana della narrazione come occultamento di un assassinio reale pone, indipendentemente da questa analisi, un dubbio davanti all'analisi della narrazione in generale. Ogni storia occulta un assassinio? E se è così, quale? Come possiamo misurare fino a che punto una storia come quella di Tikarau rappresenti un evento specifico nella storia dei Tikopia e fino a che punto rappresenti l'evento umano originario ed eventi simili successivi? Molti miti fondatori implicano espulsione violenta ed assassinio; ma la loro decisa somiglianza sotto questo profilo, mentre corrobora l'ipotesi originaria di un'origine unica dell'umano, non può aiutarci a decidere se un dato mito sia basato su di un evento specifico derivante dall'universale propensione delle società umane alla rivalità e alla crisi mimetica, oppure su di un modello rappresentativo transculturale.

Questo ammonimento non sancisce il ritorno ad uno stadio di innocenza pre-girardiana che ignora la violenza dello sparagmos. Ma l'analisi originaria sposta l'accento dalla violenza alla trascendenza. Il mito occulta l'assassinio al fine di dare figura alla generazione del trascendente. Perché un linciaggio non travisato possa fornire questa figura dobbiamo aspettare la storia della Passione. Non possiamo generalizzare la formula per la trascendenza né nel mito né nella narrazione: nel primo dipende dalle specifiche circostanze storiche cristallizzate nel rituale, e nella seconda dall'imprevedibilità della sua rivelazione etica.

La narrazione non può mettere in atto la trascendenza; il segno non può rappresentare la differenza tra la sua stessa sfera e quella del mondo. Potrebbe sembrare che ciò si possa fare mediante il metalinguaggio, come nella presente analisi, ma il discorso analitico può funzionare solo perché esso pone i due livelli ontologici sullo stesso piano grammaticale, in modo tale che di parole e cose si parla in parallelo come fossero due varietà di una più ampia concezione di cosa. Il metalinguaggio parla della differenza ontologica ma non può mostrarla. Invero, la più significativa caratteristica del metalinguaggio, che spiga il suo ruolo nella secolarizzazione è proprio quella di obnubilare la differenza attuata dal linguaggio umano. Il nostro metalinguaggio linguistico offre delle evidenti garanzie a coloro che vorrebbero negare la differenza tra il linguaggio umano e la comunicazione animale piuttosto che tentare di comprenderla secondo un modo che può essere soltanto allusivo e paradossale - e cioè religioso.

La narrazione può esprimere la trascendenza soltanto in modo figurale: il volar via nel cielo è un esempio ovvio. In qualunque grado le figure mitiche della trascendenza corrispondano alle modalità dell'assassinio rituale, la figura mitica differisce i nostri desideri appropriativi solo nel contesto del rituale che la accompagna. E' la libera narrazione quella che libera il differimento culturale dal rito e ci consente di partecipare mimeticamente ad un mondo di intenzionalità umana.

Narrazione e figura

La narrazione è inseparabile dalla figuralità. La concezione del mito di Girard ci presenta un modello del figurale come trasferimento metaforico di un fatto mondano violento in un fatto trascendente. La non-violenza del volare attraverso l'aria contrasta con la violenza dello sparagmos principalmente nella preservazione dell'integrità della figura centrale. Non è tanto la direzione verso l'alto del volo che è essenziale, quanto il fatto che il corpo è preservato da ogni offesa. Il corpo che vola è soprannaturale: la liberazione dalla gravità raffigura la liberazione dalla mortalità.

Quest'esempio indica che la figuralità è in primo luogo soprannaturalità - in contrasto con la comprensione comune del soprannaturale come pura varietà del figurale. Il soprannaturale non può essere spiegato come estensione iperbolica di attributi naturali. Quel che dice Rousseau nel Discorso sull'origine dell'ineguaglianza circa gli uomini primitivi che essendo impauriti parlavano degli stranieri come "giganti" esprime la superiore intuizione che il soprannaturale realizza il differimento della violenza mediante la rappresentazione tramite la trasfigurazione del nostro potenziale di violenza mimetica. Se l'altro è un gigante, egli non solo è un uomo più grande di me ma anche è dotato di poteri sacri che io farei meglio a non contrastare. Compresa come incarnazione immaginaria del soprannaturale, la figura funziona come ponte tra il mondano e il trascendente-significante. In ogni caso la sua motivazione concreta è l'attribuzione ad un essere mondano di un potere (volo, gigantismo) che preserva la comunità dal conflitto nelle condizioni di indifferenziazione che caratterizzano la crisi mimetica.

La figura originaria rappresenta l'invulnerabilità della vittima entro il mondo dell'esperienza umana come indicazione dell'immortalità della sfera trascendente della significanza. Il passaggio paradossale dal mondano al trascendente può essere soltanto figurato: non vi è alcun modo di descrivere la sfera trascendente ostensiva, eccetto che in termini dichiarativi inadeguati. (Di qui il senso di una significanza ineffabile che è proprio dei mistici: prima dell'antropologia generativa soltanto mistici ed umoristi hanno praticato il pensiero paradossale).

In quello che ho chiamato il modo dichiarativo del segno originario, il figurale funziona come una risposta di differimento ad una domanda imperativa riguardante l'oggetto centrale. Se l'oggetto non è qui in questa stanza ma qui in questa frase, la figura ci consente di passare da una sfera all'altra nella nostra immaginazione: qui in questa frase diventa qui nella mia scena immaginaria della rappresentazione. Al fine di presentare questa formulazione dichiarativa come narrativa, dobbiamo pensare che l'assenza dell'oggetto sia il risultato del suo allontanamento intenzionale, e pertanto non irrevocabile. Il segno figura o rende immaginabile questo allontanamento col convertire in una sequenza intenzionale la nostra esperienza paradossale di oscillazione tra (1) il suo riferimento a questo essere mondano specifico e (2) la sua rappresentazione dell'Essere che questo essere particolare incarna. Poiché il centro del desiderio mimetico che il segno rappresenta non è disponibile a noi che lo richiediamo, noi figuriamo il suo referente mortale come immortale. Noi vediamo l'oggetto come un oggetto dell'esperienza fisica, e tuttavia il segno che lo rappresenta si riferisce ad un significato al di là della temporalità dell'esperienza fisica. Ciò che è figurato da segni specifici di immortalità, quali l'esser libero dalla gravità o invulnerabile alle offese, è il semplice fatto della designazione da parte del segno. L'essere rappresentato dal segno è in se stesso la figura primaria dell'immortalità, che a sua volta è la base di ogni figuralità.

La base storica dell'articolazione del segno originario in una narrazione esplicita nella forma del mito è lo sparagmos, il momento girardiano della scena originaria in cui l'oggetto mondano è sacrificato per la creazione di una narrazione trascendentale. L'atto di violenza che noi chiamiamo sacrificio ha luogo entro il contesto della comunità umana definito dal segno e, piuttosto che distruggere la comunità, riafferma il significato sacro o trascendente del segno da cui la sua unità dipende.

Il segno originario, fin tanto che la sua emissione è sufficiente come unica attività umana, deve essere concepito come ostensivo. Ma la stasi dell'ostensivo, per il semplice fatto di preservare la comunità dalla violenza, è instabile: il differimento del pericolo porta al risveglio del desiderio. Il modo imperativo riflette una rinnovata domanda di conformità tra il segno e il mondo che infine pone termine al differimento dell'appropriazione. Nel susseguente sparagmos, il modo dichiarativo, che nega la disponibilità dell'oggetto, acquista un contenuto narrativo esplicito. Da un lato, l'oggetto è sparito: esso non soltanto è stato fatto proprio ma disfatto, ridotto in pezzi. Dall'altro, esso è richiamato mediante la persistenza del segno come l'Essere del centro. La narrazione non è né il passaggio formale originario dell'oggetto dall'immanenza alla trascendenza nell'ostensivo né ancora il suo passaggio istituzionale nel rituale, che riattualizza la scena. Esso è, nel suo passaggio mediato, estetico, il racconto della generazione della trascendenza dall'immanenza come una storia nella quale l'assenza dell'oggetto è figurata come un'eterna presenza.

Appendice: soprannaturalità e narrazione religiosa

La narrazione religiosa è demitizzata nella misura in cui attribuisce al suo protagonista un'intenzionalità umana o, in termini girardiani, nella misura in cui vede il sacrificio dal punto di vista della vittima. A differenza del mito, la narrazione religiosa ci obbliga a preoccuparci della potenziale letteralità della figura. Una figura della trascendenza che consenta al soggetto narrativo di compiere azioni soprannaturali non solo fa violenza all'ordine del mondo, ma incarna in forma mascherata la forza trasfigurante della violenza umana. La violenza immaginaria che il volo di Tikarau fa alle leggi della fisica riflette la violenza potenziale del suo linciaggio.

La nostra diminuita sopportazione dell'elemento soprannaturale nella narrativa religiosa, come l'ostilità illuministica alla superstizione (ovvero alla sopravvivenza del pensiero rituale), riflette il nostro progresso etico che ci allontana dal sacrificale. Qualsiasi rappresentazione di poteri sacri indipendenti dall'interazione umana è un affronto all'etico. Sia che io controlli quei poteri, sia che essi controllino me, le mie azioni sono staccate dalle mie relazioni con la comunità umana.

In Chronicles of Love and Resentment 118 (November 22, 1997), ho esaminato il tentativo che Marcus Borg del Jesus Seminar svolge in The God We Never Knew (Harper San Francisco 1997) di ridefinire la nostra relazione a Dio in un modo che eviti l'attribuzione antropomorfica di poteri divini a Dio stesso. La soluzione di Borg è quella di pensare Dio come una forza spirituale che sussiste entro di noi - ed entro la quale noi sussistiamo - piuttosto che come un essere distinto con potere sulla realtà fisica. Ma l'essenza antisacrificale del progetto di Borg si perde nel solipsismo. La sua concezione spirituale di Dio evita il sacrificale solo mantenendo il centro del discorso sulla relazione individuale isolata con lui che caratterizzava la concezione fisica. Io inabito la mia relazione spirituale con Dio al prezzo dell'esclusione di relazioni reciproche con altre persone. La mia unica relazione significativa con gli altri è mediante la compassione, che è meramente risentimento invertito.

Il Nuovo Testamento, come l'Antico, contiene molti elementi soprannaturali. La motivazione del Jesus Seminar, per come la capisco io, è quella di estirpare tali elementi dalla storia evangelica, così che noi possiamo avere un'idea di come il Gesù storico potrebbe essersi comportato. A tal fine, Borg include nel suo libro una descrizione di Gesù (di 150 parole) che sostituisce delle conferme mondane dello status trascendente di Gesù - guarigioni, misticismo, carisma, linguaggio metaforico - a quelle soprannaturali offerte dal testo. Questa descrizione serve a fare di Gesù il protagonista di una narrazione strettamente mondana, in cui la crocifissione è seguita non dalla resurrezione della carne ma dalla sopravvivenza nelle anime di coloro che imparano questa storia. Ma l'effetto di questo naturalismo è di esaltare la nostra attrazione verso la persona di Gesù a spese della dottrina dell'amore reciproco con la quale egli voleva che noi fossimo legati a lui come a tutti gli altri.

La resurrezione, come il volo verso il cielo, è una figura della trascendenza, ma una figura che demistifica il nascondimento mitico dell'assassinio sacrificale. La resurrezione non cancella l'agonia mortale della crocifissione. Nella sua duplice condizione di perfetta umanità e perfetta divinità, Gesù incarna il paradosso del sacro: questa dualità è il nucleo del mistero che la Trinità articola ma non può spiegare.

La storia della passione e della resurrezione rappresenta un chiaro progresso rispetto al racconto di Tikarau. Il soprannaturale non vi è mai ingenuamente conglobato col mondano; il Cristo risorto è apertamente paradossale, dal momento che egli insieme rivela e trascende la violenza dello sparagmos. Sebbene credo quia absurdum fosse la parola d'ordine dei primi cristiani, il cristianesimo odierno si è prefisso lo scopo di narrare la sua storia senza il paradosso. Nel suo lodevole intento di eliminare il sacrificale, esso ha perso di vista l'intuizione culturale più profonda: che essere l'oggetto di una qualsiasi storia, e a fortiori di una narrazione religiosa esemplare, significa ipso facto incarnare una significanza immortale che non può mai essere sufficientemente spiegata col riferimento ad eventi mondani. L'intento del pensiero originario non è quello di eliminare, ma quello di minimizzare la scena narrativa che dobbiamo postulare, senza prova, come quella che ha generato questa significanza.

Per quanti fatti noi possiamo portare alla luce riguardo al Gesù storico, come riguardo ad ogni altro leader religioso, la nostra comprensione della significanza della sua storia per l'umanità rifletterà la nostra comprensione di come l'esperienza umana incarna la figura della trascendenza. La narrazione soprannaturale può essere sostituita solo da una che spieghi ancor meglio la generazione della trascendenza dall'immanenza. Non è in grado di farlo la spiegazione della resurrezione come mera figura esterna di una spiritualità interna: dobbiamo fornire un'articolazione di questa spiritualità che sia non meno , ma più esplicita della resurrezione stessa. In Science and Faith ho spiegato la resurrezione di Gesù alla luce dell'esperienza che Saulo/Paolo ne ha fatto come segno della nostra ammissione di responsabilità nella sua uccisione sacrificale. Il ritorno soprannaturale della vittima ci rivela che il nostro culto del sacro differisce ma non dimentica mai le proprie radici originarie nell'etica dell'interazione umana.

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La concezione minimale dell'umano come differimento della violenza mediante la rappresentazione costituisce un salto qualitativo nella comprensione antropologica. La narrazione non può essere semplicemente demistificata: essa è un aspetto originario ed integrale dell'umano e del discorso umano. Ma, conoscendo ciò, noi possiamo concentrarci nel miglioramento e nel rafforzamento del nostro modello generativo in modo tale da purificare al massimo le nostre figure della trascendenza dalla violenza sacrificale, senza scatenare la crisi mimetica che questa violenza è servita a differire.

 

OPERE CITATE

Borg, Marcus - The God We Never Knew. HarperSanFrancisco, 1997.

Gans, Eric - The End of Culture. California, 1985.

--------. The Origin of Language. California, 1981.

--------. "Plato and the Birth of Conceptual Thought," Anthropoetics II, 2 (Fall 1996 / Winter 1997); also in Signs of Paradox.

--------. Signs of Paradox. Stanford, 1997.

--------. Science and Faith. Savage, Md.: Rowman & Littlefield, 1990.

Girard, René - Des choses cachées depuis la fondation du monde. Bernard Grasset, 1978.

 

GENERATIVA

 

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