TEORIA  MIMETICA  E  ANTROPOLOGIA  GENERATIVA

 

Eric Gans

 

gans@humnet.ucla.edu

 

Chronicles of Love and Resentment n. 329 e 332

 

Traduzione dall'inglese di Fabio Brotto

 

brottof@libero.it  

 

www.bibliosofia.net

 

 

L’odierno fermento di attività girardiana in Francia conferisce nuova visibilità alla critica dell’antropologia generativa da parte dei fautori della teoria mimetica. Mi pare che i girardiani (e lo stesso Girard) muovano all’ipotesi originaria due obiezioni collegate:

 

  1. L’ipotesi descrive un contratto sociale mediante il quale la cultura del segno emerge da un accordo razionale inconcepibile nel mezzo di una crisi mimetica. La cultura non può fondarsi sul differimento della violenza mimetica ma soltanto sul sollievo che segue allo sfogo di questa violenza nell’uccisione di una vittima.
  2. L’ipotesi originaria ignora il fenomeno culturale centrale che è la pratica del capro espiatorio. Una teoria per cui l’essere centrale dell’evento originario è un oggetto di appetito piuttosto che una vittima espiatoria non può dar conto né degli eventi legati a capri espiatori, dissimulati ma leggibili, che noi troviamo al centro di tutti i riti sacrificali, né dei testi culturali che derivano direttamente o implicitamente da questi riti, compresa la storia della Passione.

 

Ho risposto a queste critiche e ad altre correlate in varie occasioni, ma solitamente ho evitato una polemica diretta con Girard, sia per una forma di rispetto nei confronti del Maestro, sia perché in un tempo in cui all’opera di Girard non veniva accordata l’attenzione che meritava io sentivo che era importante sottolineare il nostro comune approccio generativo alle questioni antropologiche centrali, piuttosto che le differenze tra le nostre ipotesi specifiche. (Un’eccezione è rappresentata dalla recente Chronicle intitolata René et moi, che è stata scritta in risposta ai rilievi pubblicamente espressi dallo stesso Girard). Ora che la teoria mimetica appare non più in pericolo, non vi è più alcuna ragione di evitare una risposta diretta a queste obiezioni. Quelli che affermano che io tratto il primo segno come il risultato di un contratto sociale nel senso tradizionale non solo non hanno letto molto attentamente i miei scritti, ma non riescono a riconoscere il significato rivoluzionario del modello stesso del contratto sociale, che è il primo esempio del caratteristico uso illuministico di una scena comunitaria come un’euristica atta a spiegare le istituzioni sociali.

 

L’ipotesi originaria non postula un’utopia nonviolenta collocata prima o dopo l’evento originario. In gioco non è quanta violenza includere nell’evento originario, ma la capacità generativa di questa violenza originaria. Nella mia visione, il nostro compito come  antropologi è quello di modellare la genesi delle istituzioni umane fondamentali, ivi compreso il linguaggio. Anche se accettiamo lo scenario del capro espiatorio girardiano, che io ho adottato nella mia prima opera di antropologia generativa, The Origin of Language (1981), quello che deve emergere dalla scena originaria è un’istituzione culturale/rappresentazionale che per la prima volta commemora un evento ed inizia la storia umana. Ciò che Girard chiama la “prima attenzione non-istintuale” prestata ai resti della vittima è letteralmente priva di significato in assenza di una forma entro la quale questa attenzione possa essere preservata e trasmessa.

 

In termini semiotici, Girard pretende che la relazione indessicale tra i resti della vittima e il locus in cui ha luogo l’uccisione, da un lato, e il senso di sollievo pacifico dalla violenza mimetica dall’altro, sia così potente da rendere inutile qualsiasi spiegazione ulteriore dell’origine delle istituzioni rappresentazionali simboliche che ricadono sotto l’intestazione del logos. Se Cristo è l’incarnazione del logos, allora il modello di vittima espiatoria cui la Crocifissione obbedisce e che insieme ci rivela è sufficiente a spiegare la totalità delle forme in cui il logos è trasmesso all’umanità. Per questo l’impostazione girardiana non presenta alcun tentativo di fornire un modello della nascita del linguaggio, o anche del rituale nel senso di una ripetizione deliberata secondo uno schema fisso piuttosto che come mero dispiegarsi di un meccanismo.

 

La violenza, culturalmente diretta, dello sparagmos all’interno dell’evento proposto dall’ipotesi originaria non è “meno violenta” di quanto lo sia la violenza emissaria nello scenario di Girard: è solamente meno irrazionale, dal momento che essa oltre che lo scarico dell’aggressività ricerca anche la soddisfazione appetitiva. Il fatto che virtualmente tutti gli atti di violenza sacrificale che conosciamo terminino in un pasto in cui l’intera vittima o una sua parte viene consumata, e che nelle società tradizionali il mangiare carne sia sempre collegato a tali feste sacrificali, sembrerebbe indicare che la soddisfazione appetitiva non sia una mera conseguenza indiretta dello stabilirsi di un ordine sacro, ma il suo principale fattore motivante. Dal momento che è per sostenere e riprodurre la vita che deve essere trovato un mezzo per allontanare la violenza interna, è ovvio che i due momenti, eros e thanatos, si debbano trovare insieme nella scena dell’origine.

 

The Origin of Language presenta una sintesi degli scenari di Girard e dell’antropologia generativa: dopo l’assassinio espiatorio, i partecipanti si giovano della nuova “attenzione non istintuale” pacifica per dividersi il corpo della vittima, per cibo o come reliquie della crisi risolta. Ma quando si giunge al momento di effettuare la divisione, non vi è a disposizione una procedura ovvia da seguire, poiché l’antica gerarchia animale dell’ordine di beccata è stata dissolta dalla violenza mimetica precedente. Dato che il corpo della vittima è l’oggetto di una interdizione sacra, ciascun singolo partecipante, compreso il vecchio animale alfa, esiterà a farsi avanti per prendere il primo pezzo: quindi è plausibile che il desiderio comune di fare così possa condurre alla produzione del gesto di appropriazione interrotto che costituirà il primo segno ostensivo.

 

Successivamente però mi sono reso conto che se questo è il modo in cui ha avuto origine il segno, allora si deve tralasciare la precedente crisi mimetica e guerra di tutti contro tutti—il Big Bang—e postulare semplicemente una crisi minimale o little bang di un piccolo gruppo posto di fronte ad un oggetto desiderabile. Né l’evidenza né la logica ci obbligano a derivare il momento originario dall’aggressione contro un membro marginale dello stesso gruppo protoumano, o contro un qualsiasi protoumano. L’arte preistorica delle caverne rappresenta gli animali con estrema cura, e gli umani come semplici figure stilizzate: se l’oggetto sacro originario è stato una vittima umana, perché le divinità non sono state rappresentate in forma pienamente umana fino al sorriso greco nel VI secolo a.C?

 

Lo scopo dell’ipotesi originaria è quello di fornire una spiegazione plausibile della nascita del segno, che è insieme quella del sacro. Sebbene questa nascita sia circondata da molta violenza, il segno originario in sé non è un atto di violenza. I segni differiscono la violenza, anche se questa violenza in seguito riemerge. Lo stesso Girard descrive linguaggio e pensiero come nascenti nella fase seguente l’assassinio espiatorio: in realtà, il suo unico pronunciamento abbastanza concreto sull’argomento dell’origine del linguaggio (possiamo ignorare il suo riferimento ai resti della vittima come “primo significante”) non è lontano dalla spiegazione che l’antropologia generativa dà della nascita dell’ostensivo:

 

          Le meurtre collectif, on l'a dit, ramène le calme, en un contraste prodigieux avec le paroxysme hystérique qui précède; les conditions favorables à la pensée se présentent en même temps que l'objet le plus digne de la provoquer. . . . Qui dit l'origine de la pensée symbolique dit également l'origine du langage, le véritable fort / da d'où surgit toute nomination, l'alternance formidable de la violence et de la paix. Si le mécanisme de la victime émissaire suscite le langage, s'imposant lui-même comme premier objet, on conçoit que langage dise d'abord la conjonction du pire et du meilleur, l'épiphanie divine, le rite qui la commémore et le mythe qui se la remémore.
         
(La violence et le sacré, p. 323)

 

L’uccisione collettiva, come si è detto, riporta la calma, in un contrasto prodigioso con il parossismo isterico che la precede; le condizioni favorevoli al pensiero si presentano contemporaneamente all’oggetto più degno di provocarlo. … Chi dice origine del pensiero simbolico dice anche origine del linguaggio, il vero fort / da da cui nasce qualsiasi nominazione, la formidabile alternanza della violenza e della pace. Se il meccanismo della vittima espiatoria suscita il linguaggio, imponendosi esso stesso come primo oggetto, è comprensibile che il linguaggio esprima dapprima la congiunzione del peggio e del meglio, l’epifania divina, il rito che commemora e il mito che se la rammenta.

 

La violenza e il sacro, Adelphi, pag. 304

 

Il  "fort / da d' surgit toute nomination" oppone l’oggetto significante alla sua assenza, proprio come il primo nome-di-Dio ostensivo oppone l’oggetto centrale significante/sacro alla periferia insignificante/profana. Il fenomeno del differimento, la différance di Derrida trasferita da un contesto metafisico ad uno antropologico, dal paradossale non-concetto della non-presenza del significato al differimento della violenza, è centrale per la cultura umana. Il differimento è la fonte del néant di Sartre, ovvero lo spazio di libertà tra la mente umana e l’oggetto che essa “intende”; è anche quella dell’attenzione non-istintuale di cui parla Girard. Ma in assenza di formalizzazione in un modello antropologico, questa terminologia rimane metaforica. In una brillante intuizione saussureana, Derrida ha inserito il differimento nell’interpretazione dei paradigmi differenziali del linguaggio, ma l’obiettivo primario del differimento non è il significato differenziale del segno, che dipende dalle caratteristiche assenti degli altri membri del paradigma, ma l’atto di appropriazione preumano, “istintuale” che il segno sostituisce col significato tout court.

 

La teoria della cultura di Girard, prendendo la sua parola d’ordine da Eraclito (“Guerra è padre e sovrano di tutto”) attribuisce tutta la creatività alla violenza. Il sacro, da cui derivano tutti i fenomeni culturali incluso il linguaggio, non è null’altro che la violenza che noi espelliamo dalla comunità umana per avere la pace: la violence ou le sacré. La pace ottenuta in questo modo, durante la quale siamo in grado di procedere razionalmente, cioè economicamente, con la soddisfazione dei nostri appetiti mondani, è effettivamente al di fuori della cultura, il terreno della méconnaissance su cui scarichiamo la nostra furia mimetica contro vittime sacrificali scelte arbitrariamente. Poiché l’umanità non può mai differire questa furia, ma soltanto scaricarla, le forme elaborate di rappresentazione con cui noi circondiamo questo scaricamento di violenza non consentono di guardare in modo indipendente dentro la sua base originaria.

 

L’argomento più forte a favore dell’ipotesi originaria non dipende dall’evidenza, necessariamente ambigua, di fenomeni quali l’arte preistorica delle caverne: esso è il valore euristico del rintracciare i vari aspetti della cultura umana fin nelle loro radici nella ipotetica scena originaria mediante il procedimento che io chiamo analisi originaria. Il linguaggio, la moralità, la religione, i sistemi politici ed economici, le forme etiche ed estetiche—tutte le istituzioni umane centrali, dalla più generale a quella più storicamente specifica, possono essere comprese come elaborazioni di momenti del differimento della violenza mediante la rappresentazione datosi nell’evento originario. Di contro, desiderio mimetico e pratica del capro espiatorio sono categorie astoriche per le quali, nel sistema girardiano maturo, la rivelazione cristiana preparata dalla tradizione biblica—la storia contenuta nella Bibbia cristiana—fornisce l’unica determinante storica indipendente.

 

L’approccio girardiano classico a quel che i Francesi chiamano différend è dimostrare che le due parti  sono frères ennemis le cui posizioni, che siano morali, intellettuali, estetiche, giudiziarie, diplomatiche o militari, sono figure riflesse simmetricamente nello specchio della rivalità mimetica. Quanto più i rivali tentano di distinguersi l’uno dall’altro, tanto più chiaramente il loro agon rivela la loro sottostante identità. Se un qualche terzo potesse applicare questa prospettiva olimpica alla presente discussione, potrebbe ben trovare che la differenza tra l’interpretazione dell’evento originario di Girard e la mia non sia più significativa di quella tra Pinco Panco e Panco Pinco. E tuttavia nessun pensatore è tanto vicino alla verità da poter essere giustificato nel suo teorizzare la nullità di ogni differenza esclusa la propria. Anche la più inconsistente differenza culturale ci richiede una scelta etica e intellettuale che contribuisca a quell’autoconsapevolezza che chiamiamo antropologia. E questa autoconsapevolezza non ha un limite superiore che noi possiamo aspirare ad attingere: essa progredisce (e talvolta recede) attraverso rivelazioni etiche grandi e piccole, stimolate dalla competizione della guerra, o più produttivamente da quella del mercato. Le grandi rivelazioni religiose hanno irreversibilmente trasformato la nostra comprensione di noi stessi, ma questa comprensione non cessa di evolversi, essendo coestensiva con la storia umana. i Vangeli né la teoria mimetica né l’antropologia generativa possono sperare di avere l’ultima parola: noi possiamo solo sforzarci di migliorare la nostra comprensione della prima.

*  *  *  *  *  *  *

 

La critica principale che Girard muove all’antropologia generativa è che essa non riesce a dar conto della pratica del capro espiatorio: se noi affermiamo che il segno originario incarna un accordo nel differire la violenza, come possiamo spiegare l’universalità culturale delle vittime espiatorie, cui vengono attribuiti in modo ambivalente poteri malefici e benefici?

 

Quel che dello schema concettuale di Girard rimane in molti lettori è, in realtà, la centralità del capro espiatorio. Per Girard il capro espiatorio è implicito in tutti i fenomeni culturali, dal sacrificio cannibalico alla poetica simbolista. Nell’antropologia girardiana lo scaricamento della violenza mimetica ha la precedenza sull’appetito volto ad oggetti che sostentano la vita. Il modello originario della comunità umana è la configurazione del tutti-contro-uno della pratica del capro espiatorio piuttosto che l’equa spartizione della festa sacrificale, la configurazione della massima ingiustizia piuttosto che il modello originario dell’equità. Laddove l’antropologia generativa avanza l’ipotesi che la cultura umana nasca per differire la violenza, la teoria mimetica di Girard individua la missione della cultura nel deflettere la violenza dalla comunità e dalle sue istituzioni su di una vittima che per definizione non se la merita affatto. Nella visione cristocentrica della storia propria di Girard, al di fuori della tradizione religiosa giudeo-cristiana la violenza sacrificale era aproblematica: l’umanità viveva nella méconnaissance dell’arbitrarietà della sua scelta dei capri espiatori. Ma una volta che Gesù è venuto al mondo ed è stato crocifisso, si sono scoperti gli altarini, e la méconnaissance che ha continuato a regnare sulla terra si è fondata sulla malafede: per quanto si tenti di espellere dalla propria mente la rivelazione cristiana, non si può più vivere nella beata ignoranza del meccanismo omicida che è nel cuore della società umana.

 

Il termine capro espiatorio nell’uso che ne fa Girard è fondamentalmente ambivalente. Noi dobbiamo distinguere tra il ruolo del capro espiatorio come oggetto fisico di violenza collettiva e il suo ruolo come oggetto mentale di ideazione comune, sia positivo che negativo. L’oggetto che svolge il primo ruolo può spaziare dal semplice punching-bag all’arcicriminale i cui crimini reali o immaginari lo rendono oggetto dell’obbrobrio collettivo. Ma nell’antropologia di Girard, che noi colpiamo il punching-bag, o mettiamo a morte un pluriomicida, o scegliamo come nostra vittima una figura marginale, apparentemente maledetta, noi stiamo facendo dei capri espiatori perché ci siamo posti nella configurazione dello sparagmos originario, e da questa configurazione fisica si presume che segua quella ideativa. Sia la forza che la debolezza del concetto girardiano di capro espiatorio vengono dal fatto che, in assenza di una teoria del segno, i costituenti di questa polarità non possono mai essere articolati. Il concetto del capro espiatorio è notevolmente generalizzabile: la sua funzionalità come nozione del pensiero vittimario corrente è dimostrata dal girardismo volgare che etichetta ogni conflitto come pratica del capro espiatorio. Ma quel che si guadagna in applicabilità si perde in rigore antropologico. Un segno fondamentale di ciò è dato dal fatto che la scena girardiana del capro espiatorio non consegue mai lo status di singolarità: malgrado qualche riferimento evocativo a la première fois in La violence et le sacré, esso rimane un meccanismo, ripetuto in occasione di ogni nuova “crisi mimetica”, e dalla cui ripetizione si presume che emergano gli specifici fenomeni della cultura della rappresentazione, linguaggio compreso. La specificità della scena raggiunge la condizione di unicità solamente con la Crocifissione, che effettua la rivelazione del meccanismo, per quanto poco questa rivelazione stessa venga compresa.

 

Quanto detto porta a concludere non che il sistema girardiano sia incompatibile con l’ipotesi originaria, ma che esso ne sia una versione parziale, nella quale l’aggressione focalizzata sulla figura centrale conduce direttamente allo sparagmos senza l’intervento della mediazione operata da un segno. Per unire il gruppo dei linciatori non è richiesto alcun sistema di rappresentazioni: essi sono interamente motivati dal desiderio mimetico, che a sua volta è alimentato dall’appetito. Tale appetito, tuttavia, è esclusivamente aggressivo; in sé la scena non offre alcuna soddisfazione appetitiva oltre a quella che consiste nello scaricare la propria aggressività. Una volta che questo è accaduto, il gruppo presumibilmente si comporta come prima della crisi per procurarsi il cibo e tutto ciò che gli necessita, ma non vi è alcuna relazione diretta tra l’azione diretta contro il capro espiatorio e quelle altre attività. Così Girard interpreta il mito dei Tikopia citato in Delle cose nascoste fin dalla fondazione del mondo, ove Tikarau, il dio-capro espiatorio, “vola via” con gran parte del banchetto lasciando tuttavia dietro di sé cibi (vegetali) importanti per i Tikopia, come una relazione di causa-effetto tra (1) “l’eliminazione radicale” del capro espiatorio e (2) il susseguente benessere alimentare (e classificatorio) della popolazione, piuttosto che come una rappresentazione dello sparagmos stesso col susseguente banchetto col cibo da esso fornito. Il fatto che i cibi lasciati dietro di lui siano tutti vegetali suggerisce nondimeno che il dio-vittima non sia puramente eliminato (forse gettandolo da un dirupo), ma fornisca la carne per il banchetto.

 

In una prospettiva generativa, la prevalenza nelle principali opere culturali di figure di sacrificio in cui, seguendo l’esempio di Edipo, l’eroe tragico si addossa le colpe della sua comunità, si può trattare in due modi. La risposta più semplice all’affermazione girardiana della centralità del capro espiatorio è che lo sparagmos è effettivamente un momento dell’ipotesi originaria: la concentrazione aggressiva sulla figura centrale è bensì meno enfatizzata come fattore unico, ma non meno presente nello scenario generativo rispetto a quello di Girard. Ma c’è una risposta più forte: la centralità della figura umana nello scenario capro espiatorio/tragedia non è solamente uno sviluppo posteriore, ma reca questa posteriorità sul suo volto come un tratto della società gerarchica.

 

Sebbene l’estetica classica non tematizzi la scena sacrificale al modo della tragedia neoclassica, essa tematizza la significanza individuale o fama, il “farsi un nome”. Achille, il primo eroe dell’epica occidentale, preferì una breve vita gloriosa ad una lunga ma anonima. I nomi dei protagonisti della tragedia o dell’epica sono in genere già noti ai fruitori. Il precetto di Aristotele secondo cui l’eroe tragico deve essere “migliore di noi” si riduce a questo: da noi ci si attende che conosciamo il suo nome ma non occorre che gli altri conoscano il nostro. Questa è l’asimmetria più fondamentale che emerge nell’uso del linguaggio nelle società gerarchiche: noi tutti conosciamo il nome di tutto ciò che è significante, ma solo ad alcuni spetta che il loro nome sia conosciuto da tutti. L’odierna cultura della celebrità pone l’enfasi della fama al suo posto, semplicemente nell’essere conosciuto per nome. Il protagonista tragico, prima di essere sacrificato, è già investito di significanza: la narrazione tragica fa risalire la sua fama al centro sacro della scena originaria. Il re sacrificale, nell’analisi di Girard, usurpa il ruolo centrale esaltando il momento positivo della vittima espiatoria che porta bene/male e pace/guerra (cfr. la mia analisi del big man in The End of Culture). Ma è questa “origine dell’ineguaglianza” come usurpazione del centro da parte di un umano che rende il re vulnerabile alla violenza collettiva: non vi è ragione di assumere l’umanità della vittima o nelle vittime nelle società pre-gerarchiche. La collocazione di un umano al centro non è l’inizio della società umana ma la fine della forma primordiale di questa società. Per quel che ne so, l’etnologia non ha mai individuato una società di cacciatori-raccoglitori in cui vi sia un potere centrale individuale sugli altri e sulle loro cose. È proprio in queste società che noi dovremmo trovare delle tracce della vittima espiatoria girardiana, non nelle società gerarchiche che tengono una figura centrale in ostaggio al risentimento collettivo. Tikarau nel mito Tikopia non rappresenta un capro espiatorio arbitrario ma un big man, uno che fornisce il banchetto, come in differenti modi sono le figure sacrificali nella Bibbia e nella letteratura greca. Se le vittime espiatorie originali fossero umane, come potremmo spiegare il fatto che gli dèi di tutte le popolazioni pre-gerarchiche siano animali (quasi sempre fornitori di carne), o il fatto che i membri di varie tribù si identifichino con essi come totem? Il valore nutritivo dell’essere/vittima centrale è più fondamentale dell’attribuzione a questa figura di un’identità umana.

 

Come Chris Morrissey ha acutamente messo in luce nella sua dissertazione ancora non pubblicata, il concetto di capro espiatorio affonda le radici nel pensiero vittimario postmoderno. L’antropologia girardiana impone una valenza morale alla stessa scena umana della rappresentazione facendo della configurazione tutti-contro-uno la forma originale della relazione scenica centro-periferia. Poiché il termine “capro espiatorio” presuppone un livello di coscienza più alto in coloro che lo usano rispetto quelli che sono impegnati nell’atto che il termine descrive, esso preclude il ragionamento etico: qualsiasi pretesto addotto dai partecipanti cade di fronte ad esso, rivelandosi esempio di malafede o méconnaissance. È l’intuizione postmoderna, post-olocausto, della violenza inerente alla configurazione scenica che permette a Girard di andare oltre Durkheim nell’afferrare la centralità (del differimento) della violenza nel rito religioso. La teoria del capro espiatorio è una forma costruttiva di pensiero vittimario in quanto opposta alla abituale forma decostruttiva, della quale evita le limitazioni morali affermando che la méconnaissance può essere superata mediante una genuina attenzione alla rivelazione cristiana del meccanismo scenico.

 

Come lo stesso Girard sarebbe il primo a indicare, i concetti di colpa e biasimo possono essere formulati soltanto nel contesto di norme morali (per non parlare del linguaggio) inconcepibili nei primi stadi dell’ominizzazione. Ma in assenza di queste norme, la più parsimoniosa ipotesi originaria può fare a meno del presupposto che la spinta a scaricare l’aggressività sia così potente da rendere dubbio il bisogno di soddisfazione appetitiva. La desiderabilità dell’essere originario centrale, che è condizione sufficiente perché un segno linguistico o simbolico lo rappresenti, è anche sufficiente ad attirare una potenziale aggressione creando la necessità del suo differimento senza che occorra ipotizzare che questa aggressione diventi del tutto indipendente da un desiderio basato sull’appetito.

 

Il modello del capro espiatorio è il modello dell’attenzione in generale. Ogni attenzione collettiva diretta ad un centro è una concentrazione di desiderio che potenzialmente è una concentrazione di violenza. Una folla di uomini affamati può radunarsi intorno ad una fonte di cibo e combattere per essa proprio come una folla di gente arrabbiata può radunarsi intorno a qualcuno che viene considerato colpevole di un crimine, e picchiarlo o perfino linciarlo. In alcuni casi, senza dubbio, la colpa deve essere fabbricata per poter fare il linciaggio. Ma il valore appetitivo di una fonte di cibo, per quanto supplementata dalla mimesi, non abbisogna di essere inventato. Bisogna trovare un mezzo per distribuire questa fonte in un modo tale che aggiunga al gruppo più energia di quella che viene sottratta dal conflitto interno. La gerarchia dell’ordine di beccata è sufficiente per gli animali superiori, ma non per gli umani. Si tratta di una questione di vita e di morte per la comunità dei protoumani. Il fatto che per la stabilità di questa comunità il conflitto interno rappresenti una minaccia maggiore di quella della natura esterna non implica affatto che la risoluzione del conflitto interno sia indipendente dall’acquisizione del nutrimento. Al contrario, è la necessità cruciale di questa acquisizione a farne la più probabile fonte di crisi mimetica. Qui non c’è in gioco solamente la questione relativamente ristretta del ruolo della fame nell’evento originario. Gli oggetti di appetito, che siano alimentari, sessuali o cognitivi hanno un contenuto o una significatività differenziale: uno non è identico ad un altro, e la storia della cultura umana è una storia della loro differenziazione all’inizio graduale e poi sempre crescente. Di contro, gli oggetti di aggressione, nei termini propri di Girard, sono tutti funzionalmente equivalenti. La scelta di un capro espiatorio è aleatoria: l’uno vale l’altro. Lo stesso può essere detto per l’oggetto del “desiderio metafisico” descritto in Mensonge romantique: la sua identità specifica non è importante, una volta che esso venga designato dal “mediatore”. Un’antropologia che inizia con l’indifferenziazione piuttosto che con la différance non ha alcun modo per valorizzare il contenuto del desiderio. In La violence et le sacré, la differenziazione di significato in questo denso concetto derrideano viene ignorata, lasciando solo il differimento come posposizione della violenza:

 

. . . le retour de la violence à son point de départ, dans les rapports humains, n'a rien d'imaginaire. Si nous n'en savons rien encore ce n'est peut-être pas parce que nous avons échappé  définitivement à cette loi, parce que nous l'avons "dépassée" mais longuement différée, pour des raisons qui nous échappent. (p. 360 – corsivo dell’autore)

 

… il ritorno automatico della violenza al suo punto di partenza, nei rapporti umani, non ha nulla di immaginario. Se non ne sappiamo ancora niente non è perché siamo forse definitivamente sfuggiti a tale legge, perché l’abbiamo ‘superata’, ma perché la sua applicazione, nel mondo moderno, è stata a lungo differita, per ragioni che ci sfuggono.  (La violenza e il sacro, Adelphi, pag. 339)

 

 Quest’enfasi univoca sulla violenza differita che ignora ciò che la differisce spiega la natura non soddisfacente dei tentativi di applicare la teoria mimetica all’economia moderna. La violence de la monnaie di Aglietta e Orléan (1982) è uno sforzo nobile, ma la sua visione della società di mercato è limitata a cose come panico e crisi. Il desiderio mimetico spiega perché noi tutti desideriamo le stesse cose, ma non che cosa potrebbero essere queste cose, e certamente non come esse contribuiscano a quella mutua differenziazione che conferisce a ciascuno di noi la sua unicità preziosa di sé ed anima umani. Nel passo sopra citato, pare che Girard dimentichi che il vero fine delle 338 pagine che il lettore ha appena letto è quello di fornire le ragioni per cui la cultura differisce l’applicazione della legge del ritorno della violenza. La motivazione di questo gesto retorico risiede nel fatto che nella visione di Girard il mondo moderno, che il cristianesimo ha liberato dal suo asservimento al meccanismo espiatorio, a sua volta ha obliato la centralità di questo meccanismo, credendo di aver finalmente cancellato il pericolo della violenza mentre in realtà è continuamente obbligato a differirlo.

 

Se la deterrenza reciproca della Guerra Fredda abbia costituito o meno un oblio della necessità di differire la violenza è per ora un punto controverso, ma certamente dall’Undici settembre noi tutti siamo perfettamente consapevoli che “la fine della storia (violenta)” è una chimera. E tuttavia, mentre contempliamo il sempre incombente pericolo della violenza mimetica, non dovremmo dimenticare ciò che protegge da essa molti di noi nella nostra vita di ogni giorno così bene che siamo tentati di relegarlo nella promettente categoria della “scocciatura” di John Kerry. La democrazia del libero mercato di Fukuyama potrà non conseguire la fine della storia, ma offre alla nostra specie la sua unica chance di sopravvivere in buon numero, o addirittura globalmente, nel corso di questo nuovo secolo.

 

 

GENERATIVA