MERCATO E RISENTIMENTO 

Eric Gans

Traduzione dall'inglese di Fabio Brotto

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Tra i vari principi istituzionali dell'umano - linguaggio, religione, arte, politica, e così via - il più generale è quello dello scambio. Gli animali si scambiano favori nel presente immediato, come nella tolettatura reciproca tra gli scimpanzé, ma solo gli umani possiedono sistemi simbolici che permettono lo scambio a distanza: di beni, di servizi, o semplicemente di parole.

Una volta che abbiamo compreso l'umano in tal modo, ci rendiamo conto che, sebbene il "libero mercato" sia un fenomeno molto recente, sconosciuto in Occidente prima del Rinascimento e nel resto del mondo anche per molto tempo dopo, ogni realtà specificamente umana può essere compresa come una modalità dello scambio. Il libero mercato è simmetrico allo scambio originario dei segni intorno all'oggetto sacro: in entrambi i casi, lo scambio non è prescritto da alcuna regola preesistente, ma è volontariamente intrapreso dai partecipanti. E in entrambi i casi la scena dello scambio, virtuale o reale, sia genera risentimento, sia lo differisce o lo devia.

Il risentimento, o ressentiment, è il sentimento di esclusione dal centro ove si genera il significato. Non vi può essere alcuna significazione senza risentimento; il segno che ri-presenta/rappresenta l'oggetto centrale è per sua stessa natura sia un'espressione che un differimento del risentimento per il suo mancato possesso, indirizzata verso il centro stesso piuttosto che verso gli altri umani alla periferia. Questa è la forma generale del meccanismo del capro espiatorio di Girard.

Se tutto il significato rimane nel centro, allora alla periferia non vi è nulla da scambiare. Perché lo scambio abbia luogo, l'oggetto centrale deve venire diviso tra i partecipanti periferici, come accade di norma durante un banchetto rituale. Il centro è sacro, ma l'oggetto centrale è sacro solo per associazione: esso si trova nel luogo sacro e appartiene all'essere sacro. Così quando i partecipanti lo dividono essi ottengono delle porzioni non dell'indivisibile sacro/divinità, ma della creatura referenziale che esemplifica l'eterno significato.

L'origine dello scambio materiale non può essere derivata puramente dalla sua storia empirica. Il modello fornito dal Saggio sul dono di Hubert e Mauss è un importante passo avanti sul lato empirico, ma la sua significanza antropologica può essere compresa solo dal punto di vista del concetto originario dello scambio virtuale. Il fatto che le porzioni "eguali" del banchetto che segue siano virtualmente scambiabili è una conseguenza necessaria dell'originario mutuo scambio di segni. Nell'origine, questo garantisce lo spostarsi del risentimento dal gruppo al centro, e il suo scaricarsi nel pasto comune. Il valore adattivo del segno è reso possibile dalla combinazione di rendimento in termini di soddisfazione degli appetiti e riduzione di tensione mimetica che esso consente: lo scambio di segni identici è garantito dallo scambio di cose "eguali". Una volta che questa uguaglianza è realizzata nella distribuzione rituale, essa implica l'eguaglianza di tutti i possessi divisibili "fuori" del rituale - considerando che noi non siamo mai realmente al di fuori del rituale, ma solo al di fuori del contesto scenico rituale.

Il mercato globale di oggi è l'ultimo erede della scena originaria dello scambio. Non occorre ricordare come la liberazione di questa scena da un luogo fissato e da un insieme di oggetti rituali abbia condotto ad una vasta espansione della creatività umana. Ma quello che occorre rimarcare è che il mercato, come forma generale dello scambio, deve adempiere la stessa funzione che lo scambio periferico svolse in origine: la fondazione di una "solidarietà" intorno al centro sacro. Non è corretto dire che questo centro "non esiste più" perché il centro non è mai "esistito". Un modo di esprimere l'ambizione intellettuale dell'antropologia generativa consiste nel riferirsi al centro come a Dio e, anziché argomentare intorno alla questione se Dio esista, affermare semplicemente che Dio è. Quello che conta nel centro sacro, in altre parole, è che esso è la fondazione dell'essere, non che esso abbia un qualche genere di manifestazione materiale. Se all'origine il centro era un luogo singolo, la sua condizione in quanto oggetto di rappresentazione lo rende "sempre già" trasferibile e dissipabile, partout et nulle part. Nell'era del mercato globale, possiamo cominciare a prendere questa formula alla lettera.

La mimesi è un "surplus", un supplemento all'attività orientata all'oggetto. L'attenzione diretta all'oggetto viene differita nel momento in cui l'attenzione si concentra sul modello mimetico, e l'azione appropriativa ha luogo solo tramite la mediazione del modello. Si deve presumere che l'energia impegnata nella mimesi "positiva", ovvero nell'imparare dagli altri, venga più che ricuperata in termini di più grande flessibilità e rapidità di adattamento: altrimenti la mimesi non sarebbe mai stata adattiva. Potremmo dire che l'energia della mimesi positiva è recuperata dal sistema. Ma la mediazione mimetica genera a sua volta, anche prima che una sfera simbolica esista, delle forme di rivalità la cui violenza potenziale è limitata dalla presenza di un "ordine di beccata" gerarchico ove l'animale più forte domina gli altri e di conseguenza gode di un più ampio accesso agli oggetti sessuali e a quelli che in generale garantiscono il successo riproduttivo. In questo modello semplificato di società tipico degli animali superiori (ad esempio delle scimmie antropomorfe), l'energia della mimesi negativa non viene recuperata produttivamente, ma le si consente di disperdersi nelle rivalità di singoli contro singoli. La superiorità dell'animale alfa presenta un grado di analogia più prossimo al dominio del membro "alfa" di una banda di teppisti che alla regalità sacra (sebbene anche tra i teppisti la leadership tenda ad acquisire alcuni dei segni esteriori del sacro).

L'istituzione del sacro costituisce un grande salto in avanti riciclando entro l'ordine sociale non soltanto l'energia mimetica positiva del processo di apprendimento ma anche l'energia negativa della rivalità mimetica che non poteva più essere dispersa in scontri individuali. L'istituzione umana centrale della scena sulla quale le energie della comunità sono polarizzate sorse quando divenne necessario differire la violenza che questo proto-risentimento minacciava di generare, essendo diventato troppo potente per essere contenuto entro il quadro delle sfide individuali caratteristiche delle gerarchie animali. Il focalizzare sia le energie positive sia quelle negative della mimesi su un mediatore centrale, universale, sacro è la base su cui si fonda la rappresentazione, attività propria dei soli umani, la quale fonda un ordine sociale che contemporaneamente esiste ed è rappresentato dai suoi membri: l'energia della mimesi negativa viene spesa nel sacrificio che rinforza la sacralità di questa divinità centrale.

Di conseguenza un modello minimale del sistema di scambio originario richiede che alla reciprocità dello scambio periferico si aggiunga un fattore supplementare o supplément, che riflette l'onere o "tassa" sul processo di scambio, imposto dal centro rituale, nella forma del sacrificio o dei suoi derivati secolari. Nella prospettiva fisio-meccanicistica che talvolta fa capolino in La violenza e il sacro, l'atto sacrificale scarica l'eccesso di energia investita nell'oggetto appetitivo come risultato dell'intensificazione mimetica del desiderio: possiamo assumere come paragone la giustificazione addotta da Bataille per il suo concetto di dépense come scaricamento dell'eccesso o riserva di energia richiesta dall'evoluzione per assicurare la sopravvivenza.

Che il surplus si basi su un eccesso di energia rispetto a quella richiesta dalla sopravvivenza è in verità un truismo fisiologico, fisico. Ma quest'energia non è immessa nel processo allo stato grezzo: essa è mediata da modi di interazione umani, o all'origine proto-umani, che non possono essere semplicemente assimilati al rinforzo fisiologico. Un'analisi più specificamente antropologica dovrebbe misurare la violenza della rivalità mimetica in base all'energia simbolica impiegata per differirla. La mediazione del centro è anzitutto un'operazione di interdizione: l'essere sacro che garantisce il processo di scambio è ciò che è proibito, non scambiabile almeno per un certo tempo, e l'investimento energetico di desiderio mimetico trasferito al centro sacro non viene "scaricato", ma al contrario viene consacrato all'oggetto di devozione comunitaria.

Il sacro, nel senso più generale del termine, è il processo mediante il quale il desiderio mimetico è trasceso nella rappresentazione. Il sacro può essere insito in vari oggetti o pratiche, ma non lo si può comprendere se lo si concepisce come una qualità: come il bello, il sacro si realizza soltanto nell'esperienza interattiva, con la differenza che l'estetico trova la propria garanzia sulla scena individuale della rappresentazione, laddove il sacro è collegato almeno virtualmente alla scena comunitaria.

Il dono nel senso di Hubert-Mauss crea un'ineguaglianza spazialmente e temporalmente circoscritta che si può comprendere solo sullo sfondo dell'uguaglianza originaria, virtuale. Nel fare il mio "sacrificio" a te invece che alla divinità centrale, io presumo che la tua implicita partecipazione all'originaria reciprocità dello scambio dei segni e alla conseguente distribuzione egualitaria ti condurrà anche qui ad un atteggiamento di reciprocità, ma con l'introdurre una dilazione temporale al di là dei vincoli della temporalità rituale - qui possiamo cominciare a parlare di "fuoriuscita" dal contesto rituale, e di un entrare in una temporalità esplicitamente non-rituale o trans-rituale - io pongo questa reciprocità non come una parte quasi automatica di un processo necessario, ma come una sfida: trasforma questo tempo non-rituale in tempo rituale rispondendo al dono col dono! Tale offerta di doni è legata all'esistenza di un'accumulazione diversa da un surplus momentaneo; non ci si può disfare in un potlatch della propria unica coperta. Qui si rivela anche che la configurazione scenica non garantisce la simmetria egualitaria, perché le funzioni del centro, condivise dalla comunità, possono essere monopolizzate da pochi membri di questa comunità, o da uno soltanto. L'utopia della periferia non può ignorare il centro.

Lo scambio di doni basato sul surplus conduce alla gerarchia: emerge il cosiddetto big-man, ai cui doni non si può rispondere con doni di pari valore e che gradualmente assume su di sé la funzione centrale sacra della distribuzione. Il sacro è sempre stato un "surplus", ma è esistito solo per la comunità e nel tempo comunitario o rituale, mentre con lo sviluppo dell'agricoltura (o in altri casi di risorse abbondanti come nelle società di pescatori del Pacifico nord-occidentale) alcuni individui possono mantenere propri surplus che finiscono per essere soggetti a quella rivalità mimetica che la rappresentazione originaria ha prevenuto. Il consumo di questi surplus in un potlatch è un movimento verso un'eguaglianza circoscritta ("guarda, ho distrutto quello che costituiva la differenza tra di noi!") che contiene i semi di un'ineguaglianza a lungo termine.

Ho appena detto che il sistema dello scambio di doni a base rituale conduce alla gerarchia. Si può anche dire che esso porta al risentimento non scaricato. Se io come big-man sono in grado di offrire un banchetto più opulento del tuo, tu proverai del risentimento verso di me. Forse questo ti spingerà a dare una festa ancora più grande, nel qual caso sarò io a provare risentimento nei tuoi confronti. I sistemi gerarchici fluidi sono instabili per il fatto che essi non possono riciclare il risentimento che generano: essi tendono ad evolvere verso forme gerarchiche più strette, i cui leader acquistano il potere necessario per mantenersi al comando. Il rinnovarsi delle rivalità in condizioni di abbondanza conduce alla centralizzazione del surplus comunitario sotto il controllo di un unico potere politico-rituale: è la struttura delle prime società statali. Questa è la soluzione hobbesiana del conflitto mimetico, ove l'equilibrio viene trovato quando l'oggetto della rivalità è rimosso dalla contesa. In sistemi del genere la forma basilare di scambio è la ridistribuzione; il surplus è tolto dall'economia e poi sacrificato/ridistribuito al centro rituale/politico. Questi stati primitivi sono chiaramente sistemi di ridistribuzione rituale. Il centro è protetto dalla forza pagata dal surplus: simili entità politiche, come dimostra la storia recente di Iraq, Corea del Nord e Cuba, tendono a perdurare nel tempo, dal momento che ogni deviazione dal sistema centralizzato viene facilmente individuata ed eliminata. Il risentimento e l'ambizione che esso alimenta vengono tenuti sotto stretto controllo: le aspirazioni possono arrivare solo ad un certo punto, non oltre.

Quella che noi chiamiamo cultura occidentale ha le sue radici in due piccole società che si staccarono dagli imperi che si erano evoluti da questi stati arcaici: Israele e la Grecia. Qualunque sia la verità della storia dell'Esodo, gli Israeliti si definiscono in primo luogo come esuli dall'Egitto, protetti dall'unico Dio che sta su di un piano ontologico più alto di quegli dèi che sono agenti del controllo politico del faraone. L'associazione degli Ebrei col mercato è un argomento dell'antisemitismo, ma come molte accuse antisemite lo si può prendere come un complimento. Poiché i Giudei furono i primi ad articolare la distinzione ontologica tra l'Essere centrale e le sue manifestazioni mondane - e a fondarvi la loro etica -, possono essere visti come teorici del libero mercato avant la lettre: l'essenza della società umana è lo scambio periferico intorno ad un centro che non entra in relazioni di scambio con la periferia. La gerarchia rituale e la gerarchia sociale che ne deriva sono secondarie rispetto alla nostra fondamentale simmetria davanti a Dio.

Contemporaneamente, i Greci crearono una società commerciale che in Atene si sviluppò nella prima democrazia funzionante, sebbene non potesse mai diventare una vera società di mercato in assenza di un libero mercato del lavoro. Gli schiavi non sono dei semplici beni economici; essi sono catturati, non prodotti. Per quelli che li catturano, e per la società intera, gli affari militari sono importanti mentre il lavoro in sé vale poco.

Il risentimento nella democrazia ateniese era un problema reale, che nella sua orazione funebre affronta Pericle/Tucidide. La democrazia è insieme simmetrica e gerarchica: la posizione sociale è gerarchica, ma i ruoli nella gerarchia non sono giustificati dal sistema rituale. Non vi sono signori a controllare i cittadini, che scelgono i loro leader tra di loro, e di conseguenza generano risentimento in coloro che non vengono scelti. La grande fioritura della cultura ateniese, la cui forma esemplare è la tragedia, riflette la necessità di controllare questo risentimento. Come l'innovazione economica, come lo stesso linguaggio umano, l'innovazione culturale non avviene spontaneamente. Essa è sospinta dalla necessità di differire gli effetti negativi del desiderio mimetico.

Nell'era post-democratica che in Atene vide la nascita della filosofia occidentale, Idee potenzialmente condivisibili presero il posto degli oggetti dell'agone tragico, impossibili a condividersi. Come il monoteismo ebraico, la metafisica platonica insiste sull'inaccessibilità ontologica della fonte centrale del significato (le Idee): la metafisica blocca la generazione del risentimento in quanto nessuno può avanzare una pretesa di centralità relativa o assoluta. Il concetto preso dalla democrazia ateniese che noi chiamiamo "filosofia" da allora è stato il modello per lo scambio ottimisticamente agonistico di idee o asserzioni, laddove l'insistenza ebraica sulla subordinazione univoca della periferia al centro divino ineffabile stabilisce il paradigma per il pacifico scambio di cose.

Se la democrazia ateniese ritiene che lo scambio di segni sia più importante dello scambio di cose, la moderna democrazia borghese rovescia questa relazione. Il borghese opera nella società civile come produttore e consumatore di beni economici e si impegna nello scambio politico solo in conseguenza di quella funzione. Nella società borghese la politica esiste allo scopo di controllare i risentimenti generati nella sfera economica - questa è l'ideologia fondante della democrazia borghese.

Gli economisti che vedono il mercato borghese come un sistema di scambio tra agenti razionali non possono rendere ragione del risentimento che esso genera. Se ciascuna persona partecipa solo in transazioni volontarie, scambiando A per B solo quando lo trova vantaggioso per sé, come può giungere a provare risentimento nei confronti del sistema nella sua globalità? In altre parole, che cos'è che nel processo di scambio eccede il sistema e non viene spiegato nella descrizione razionalistica del processo stesso? Il tentativo più ambizioso di definire questo eccesso è quello di Marx, per il quale l'apparente simmetria dello scambio cela il sottostante meccanismo del sistema capitalistico: l'estrazione del plusvalore dal caratteristico scambio tra il proletario e il proprietario "capitalista" dei mezzi di produzione, quello del lavoro del primo per il denaro del secondo. Il capitalista si arricchisce pagando il lavoratore solo nella misura che garantisce la riproduzione della "forza lavoro", ovvero nella misura che consente all'operaio di mantenersi in vita e di fornire figli per le industrie della nuova generazione, mentre dal lavoratore riceve una quantità di lavoro che aggiunge ai suoi prodotti valore sufficiente a garantirgli un profitto.

In un famoso passo del Manifesto del Partito Comunista Marx descrive in modo quasi melodrammatico la borghesia che ha rimpiazzato tutte le relazioni economiche a base personale con gli atti chiusi, atomici, dello scambio di mercato.

Dove ha raggiunto il dominio, la borghesia ha distrutto tutte le condizioni di vita feudali, patriarcali, idilliche. Ha lacerato spietatamente tutti i variopinti vincoli feudali che legavano l'uomo al suo superiore naturale, e non ha lasciato fra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse, il freddo "pagamento in contanti". Ha affogato nell'acqua gelida del calcolo egoistico i sacri brividi dell'esaltazione devota, dell'entusiasmo cavalleresco, della malinconia filistea … In una parola: ha messo lo sfruttamento aperto, spudorato, diretto e arido al posto dello sfruttamento mascherato d'illusioni religiose e politiche [trad. Emma Cantimori Mezzomonti].

La descrizione di Marx in questo paragrafo, dove non appare alcun cenno alla teoria del plusvalore, contiene una contraddizione implicita che il senno di poi rende facilmente coglibile. Si dice che la borghesia sovverte la stabile gerarchia "patriarcale" basata sulla produzione agricola, sostituendo un sistema di scambio reciproco alla relazione asimmetrica tra noi e i nostri "superiori naturali". Eppure questa reciprocità è immediatamente caratterizzata come "sfruttamento", addirittura come "sfruttamento aperto, spudorato, diretto e arido": questo sebbene in altri luoghi Marx rimarchi l'intelligenza dell'ideologia borghese che maschera la sua natura sfruttatrice sotto la maschera dello scambio simmetrico. L'allusione al "libero commercio" rende testimonianza di questa contraddizione: il "libero commercio" è l'ideologia del "libero mercato" che afferma di limitare al massimo ogni forma di coercizione permettendo agli individui di nazioni diverse di scambiare volontariamente beni e servizi. Ma dal momento che solo certi individui possiedono i mezzi di produzione, quelli che hanno da vendere soltanto la loro "forza lavoro" si trovano in una condizione di svantaggio strutturale, e nei termini del modello che sarà successivamente elaborato dettagliatamente nel Capitale, sono detti sfruttati - una parola dal suono scientifico per "vittimizzati". La teoria matura di Marx prevede un tasso di profitto storicamente decrescente e una conseguente pauperizzazione di tutti tranne i capitalisti più ricchi, seguita da un momento apocalittico in cui suona "il rintocco funebre per la proprietà privata" e i lavoratori "espropriano gli espropriatori", dando inizio al millennio socialista. Per Marx il capitalismo rimane un sistema essenzialmente sacrificale che, con l'eliminare "le illusioni religiose e politiche", fa sì che i suoi sacrifici non solo non tornino a beneficio dell'intera comunità, ma alla fine non siano nemmeno un beneficio per gli sfruttatori stessi.

Come oggi sappiamo tutti, l'analisi di Marx, per quanto brillante, era semplicemente sbagliata. Il mercato non è vincolato dalla "legge ferrea dei salari" a tirare avanti con "una caduta del tasso di profitto": la comunità, benché frammentata e individualizzata, o piuttosto precisamente perché è frammentata e individualizzata, sviluppa una cultura simbolica nella quale i suoi membri partecipano dedicando parte del "surplus" all'estetico e alle attività relative, e, in particolare, alla comunicazione reciproca mediante quello che Jean Baudrillard chiama sistema segnico del consumo. La debolezza centrale della teoria del capitalismo di Marx è costituita dal suo fallimento nel predire e di conseguenza nell'analizzare la vasta espansione della funzione di scambio simbolico del mercato che dà origine a ciò che noi chiamiamo "società dei consumi".

Abbastanza curiosamente, questo fenomeno fu riconosciuto per la prima volta, se non teorizzato, in una nazione che era lungi dal possedere l'economia più avanzata del suo tempo. Perché avvenne che la Francia, economicamente ancora ulteriormente distaccata dall'Inghilterra rispetto a quel che era stata dopo la caduta di Napoleone, nondimeno divenne il motore culturale dell'Europa dopo il 1848, un ruolo che essa abbandonò realmente solo alla fine della Guerra Fredda? È chiaro che benché l'economia francese non potesse competere con quella inglese, né in seguito con la tedesca o l'americana, in Francia vi era una consapevolezza più acuta che altrove delle implicazioni della società borghese in maturazione. La spiegazione di questo dilemma potrebbe trovarsi nelle lezioni della vita politica francese, la cui instabilità terminò soltanto con l'instaurazione della Terza Repubblica nel 1880.

La caduta della Seconda Repubblica con il coup d’état di Luigi Napoleone il 2 dicembre 1851 mise fine per una generazione all'attività politica democratica che secondo la borghesia liberale avrebbe risolto i risentimenti economici della società di mercato. Gli ateliers nationaux erano un'attività creatrice di lavoro finalizzata a contenere la disoccupazione: espressione suprema dell'illusione che i problemi socio-economici siano soprattutto politici, e quindi soggetti a soluzioni politiche. Quest'illusione aveva avuto origine con i philosophes, e gli orrori della prima Rivoluzione non l'avevano fatta svanire tra i repubblicani, che al contrario continuarono a pensare che il suo fallimento fosse una dimostrazione della necessità di ancor più rivoluzione. Il fallimento degli ateliers e la successiva selvaggia repressione dell'insurrezione dei lavoratori del giugno 1848 condussero alla rottura dell'alleanza tra la classe lavoratrice e la borghesia liberale, a cui il coup d’état rivelò che essa poteva continuare a dominare l'economia solo a patto di una rinuncia alla pretesa di controllare la forma di governo.

È proprio come risultato di questa lezione che la cultura francese dopo il 1848 rispecchia una consapevolezza della dislocazione del centro culturale, ovvero del principale luogo in cui si scarica il risentimento, dal politico all'economico, una consapevolezza che manca nel più tranquillo clima politico dell'Inghilterra, dove l'opposizione reciproca di differenti frazioni delle classi dominanti poteva essere mediata in parlamento e i drammi della "società civile" potevano essere espressi in termini di interessi in conflitto. Nessun romanziere inglese prima di James e di Joyce (entrambi i quali non erano inglesi) ha potuto comprendere, e ancor meno sostenere, il rifiuto radicale del mondo dell'azione incarnato nei romanzi di Flaubert. Flaubert fu non soltanto il creatore del "romanzo artistico", narrazione come bella esperienza di un mondo che non è bello: egli fu il primo a scrivere della société de consommation. I due attributi sono inseparabili.

In genere Emma Bovary viene descritta come una lettrice di storie romantiche che ingenuamente spera di realizzarle nella sua vita. La narrativa romantica corrisponde alla cultura della prima fase della società di mercato, nella quale la nostalgia per le relazioni pre-mercantili crea un rifugio dal mercato che non solo rende quest'ultimo più sopportabile, ma anche promuove il successo al suo interno, e tuttavia ha un effetto soltanto marginale sulle operazioni del mercato stesso. Al contrario, nella società dei consumi il mercato è spinto dalla necessità di co-optare le forze estranee al mercato e perfino quelle contrarie ad esso. Emma non si accontenta di leggere vecchi romanzi: ella si abbona ad una rivista di moda e lascia che il sinistro boutiquier Lheureux la induca a spendere cifre superiori ai guadagni di suo marito. Quando essa sta considerando quella che diventerà una gita a cavallo adultera con Rodolphe, ciò che la induce a determinarsi è la prospettiva di acquistare un abito da equitazione (L’amazone la décida.) La nascente società dei consumi del tempo di Emma non possiede ancora un universo stabilito di prodotti-segni: gli acquisti simbolici di Emma servono piuttosto ad inserirla simbolicamente entro un universo più antico, precommerciale, di passatempi aristocratici. Ma questo comportamento fa risaltare anche di più una caratteristica universale della società dei consumi: la sua affermazione mediante il mercato di valori inaccessibili allo scambio di mercato, la cui entrata nel mercato prende la forma di un surplus: quel che è senza prezzo costa sempre un po' di più. Emma, come noi sappiamo, non riesce a conseguire "il meglio", come è esemplificato dalla sua impossibile andata a Parigi. Ma "il meglio" in Flaubert è tale soltanto in relazione a quelli che lo desiderano. In Madame Bovary la distanza tra Charles e il Marchese de la Vaubyessard è appena sufficiente a conferire pathos alla ricerca di Emma; nel romanzo L’éducation sentimentale le differenze sociali non sono più una fonte di invidia - per il lettore, in ogni caso - così che nel romanzo più tardo non vi è alcun equivalente del "feticismo delle merci" di Emma. Non è tuttavia privo di significato il fatto che il dénouement del dramma personale dell'eroe accada all'asta dell'arredamento della donna che egli ama, perché per lui essa incarna l'ideale borghese. Mentre Emma era pronta a creare nuova realtà dal consumo, l'avventura di Frédéric termina quando egli vede che la sua immagine di purezza incommerciabile è composta da pure merci.

Che la storia della società di mercato possa essere meglio narrata nei termini del sistema segnico del consumo sarebbe parso un'assurdità a Marx ed Engels, la cui teoria può essere presa come dimostrazione scientifica del fatto che un simile sistema non potrebbe godere di un'esistenza autonoma. E tuttavia la storia seguente ha reso chiaro, per lo meno a molti di noi, che la fase primitiva del capitalismo, cui si può convenire qualcosa di simile alla "legge ferrea", non è la società di mercato pienamente sviluppata. Quest'ultima si concreta solo quando il surplus è sufficiente per la popolazione in generale a scambiare non meri beni ma prodotti-segni. Sebbene lo scambio di beni e servizi abbia luogo in transazioni private il cui effetto cumulativo determina offerta e domanda ma non crea alcun legame comune tra i membri della comunità, lo scambio di segni di consumo è, in linea di principio, pubblico: le persone possono vedere ciò che ciascun altro sta consumando. Questo scambio costituisce una nuova modalità, essenziale per la società di mercato matura, per riciclare il risentimento nel sistema dello scambio.

Vorrei suggerire una divisione della storia della società di mercato in fasi relative allo sviluppo della funzione simbolica del consumo. Nella prima fase, quella descritta da Marx ed Engels, questa funzione coinvolgeva, o era percepita come coinvolgente, soltanto i ricchi; i risentimenti delle masse erano presi in considerazione solo come argomento per testi letterari e politici di carattere esortatorio, come quelli di Victor Hugo. Nella seconda fase, l'epoca di Madame Bovary, cominciano ad essere commerciati beni che fungono da compensazione per i risentimenti delle classi medie. Le scene con Léon nell'hotel di Rouen nella terza parte del romanzo sono un esempio tipico della creazione, a proprie spese, di un nido o porto privato in cui trovare riparo dalla mediocrità di ogni giorno. Potremmo anche citare la "Invitation au voyage" di Baudelaire. Questo genere di consumismo è già sospinto da una forma artigianale di pubblicità, esemplificata dalle lusinghe di Lhereux o dai contenuti delle riviste di moda di Emma. Il consumo secolare quotidiano non può più essere posto allo stesso livello della soddisfazione degli appetiti in un contesto simbolico ritualmente fondato: il suo aspetto più significativo, che aumenta la sua importanza, è la soddisfazione del desiderio, la cui natura mimetica si riversa nella pubblicità, la quale può aumentare il desiderio indefinitamente. Madame Bovary è caratterizzata da una linearità geografica (Yonville -> Rouen -> Parigi) analoga alla linearità economica teorizzata da Tornstein Veblen nella sua Teoria della classe agiata. Il concetto di "consumo di ostentazione" implica che la competizione tra consumatori avvenga in un unico ambiente, e che ciascuno conosca chi ha "vinto": il potlatch è stato simbolicamente incorporato nel sistema del mercato. Secondo questo modello, coloro che, come Emma, sono più in basso nella scala, non possono che imitare chi è "migliore" di loro: ad essi manca un grado di libertà sufficiente a stabilire valori mimetici che siano loro propri. A quel tempo, i valori egualitari giudeo-cristiani che tanto turbavano Nietzsche influenzavano il mercato solo negativamente, mediante la moralizzazione e la denuncia.

La società dei consumi matura viene alla luce solo dopo la Seconda Guerra Mondiale. La spiegazione consueta della sua espansione è nella nuova ricchezza dell'America postbellica e quindi dell'Europa occidentale e del Giappone, ma la "società del benessere" non è estranea alla tendenza vittimaria che definisce l'epoca postbellica o "postmoderna". Il consumismo è gerarchico soltanto in scarsa misura: esso è soprattutto pluralistico, e fondato sul piano estetico piuttosto che su quello materiale. L'essenziale è rendersi un oggetto di desiderio mimetico mettendo insieme una quantità di elementi attraenti in un'unica confezione "bellissima". Il cambiamento più impressionante avvenuto nell'era postbellica, tuttavia, è un cambiamento che solitamente non viene riferito al dominio del pensiero vittimario: la nascita della cultura giovanile, che rimane con noi oggi e che anzi sembra divenire sempre più giovanile man mano che passano i decenni (cfr. Harry Potter).

Il primo articolo impegnativo da me pubblicato, nei Cahiers internationaux de sociologie, era un'analisi della cultura giovanile postbellica in termini che potremmo chiamare neo-marxisti. La cultura dei consumi è sempre stata ai margini del mercato, e non per caso era spesso associata alle donne, cioè a quei membri della borghesia le cui attività produttive erano confinate all'economia domestica, da Emma Bovary alle mogli dei ricchi cui Veblen assegna la funzione di esibire la ricchezza dei loro mariti. Nondimeno, donne e uomini appartengono allo stesso mondo economico: la differenza nel loro comportamento di consumatori, ancora evidente oggi, potrebbe essere descritto appropriatamente come un fenomeno di divisione del lavoro, come l'analisi di Veblen rende chiaro. La cultura giovanile postbellica costituisce un importante spartiacque nel sistema semiotico del consumo che, a trenta anni dall'articolo appena menzionato, cercherò di situare entro una prospettiva antropologico-generativa.

La sostanza della mia analisi era che, in contrasto con la tradizionale cultura popolare, associata alle forze produttive della società, la cultura giovanile postbellica è una cultura di consumatori che non sono (ancora) entrati nel mercato e pretendono di rifiutare i suoi valori. Questo è forse chiaro nella musica popolare più che altrove: la tradizionale canzone d'amore, che potremmo dire una proposta di matrimonio simbolica, è sostituita da una esaltazione dell'energia adolescenziale (sessuale o di altra natura) più o meno orgiastica. Anziché superare i conflitti del desiderio sessuale a beneficio dell'ordine sociale, il rock ’n’ roll cerca uno sfoga attraverso il parossismo di una violenza quasi ritualizzata.

La cultura nel senso più vasto è qualsiasi fenomeno possa rientrare nel concetto espresso dalla frase "il differimento della violenza mediante la rappresentazione". Non intendo suggerire che la cultura giovanile postbellica presenti, almeno implicitamente, una sfida a questa formulazione. La rivolta adolescenziale non è una vera ribellione: il sapere che mamma e papà sono qui a proteggerti ti consente di esprimere sentimenti rivoluzionari senza dover portare sulle spalle il peso della rivoluzione - o un qualche peso in generale. Il consumatore giovane è senza dubbio un futuro produttore, ma la cultura giovanile lo prepara per un ruolo adulto nel settore produttivo solo nella misura in cui gli fornisce uno sbocco per il suo risentimento durante i suoi anni pre-produttivi. Ciò è alquanto differente dal ruolo giocato dalla cultura popolare prima della guerra. È precisamente la condizione temporanea della giovinezza ai margini dell'età adulta che la rende culturalmente dominante nell'era postbellica. Questa marginalità supporta le pretese vittimarie dell'adolescente mentre allo stesso tempo rassicura il mondo circa il fatto che la condizione di vittima è solo una fase transitoria come la giovinezza stessa.

Vista superficialmente, la cultura giovanile appare come una rivolta contro il consumismo, che i giovani vedono incarnato dai loro genitori (cfr. Il laureato di Mike Nichols [1967]). Ma al di fuori di quella che è sempre stata una piccola minoranza anche nei giorni delle comuni e degli ashram, gli strumenti di questa ribellione sono beni di consumo. Lenin pensava che i capitalisti avrebbero venduto ai comunisti la corda con cui essi li avrebbero impiccati, ma i capitalisti hanno riso per ultimi vendendo ai rivoluzionari mancati un sostituto simbolico della rivoluzione. Nel suo L'uomo a una dimensione, un libro del 1964 ora poco frequentato ma alquanto influente nel 1968, Herbert Marcuse definiva questo fenomeno "tolleranza repressiva". In quanto fu l'espressione più chiara dell'ideologia sessantottesca, la teorizzazione di Marcuse per gli adulti della cultura postbellica dominata dai giovani segna la transizione tra il marxismo e le più recenti modalità di risentimento contro il sistema di mercato basate sull'identità.

La cultura giovanile, rassicurante e inquietante insieme, fornisce un paradigma per l'evoluzione della società di mercato. Da un lato, come mostra la costernazione di Marcuse, il fatto che non soltanto delle forme di disadattamento del tutto interne al mercato ma anche il suo rifiuto integrale possano essere trasformati in merci è un tributo alla pervasività del mercato stesso e dei suoi valori. Dall'altro, il fatto che questa stessa costernazione possa essere comunicata con tanto successo a coloro che l'hanno occasionata è una dimostrazione che nessun sistema di scambio è chiuso su se stesso. I risentimenti generati sulla periferia scenica dove lo scambio ha luogo possono essere differiti solo dall'affermazione comune del centro sacro, non scaricati all'interno dello stesso processo di scambio. Un sistema di scambio che si è liberato dall'eternal retour del sacrificio rituale è necessariamente trascinato in una continua fuite en avant, riuscendo a mitigare un certo complesso di risentimenti solo per generarne degli altri. La comprensione di questo fatto (che possiamo situare tra la caduta del Muro di Berlino del 1989 e l'11 settembre 2001) è incompatibile con il pensiero vittimario dell'era postbellica/postmoderna/consumistica, e si può pertanto affermare che essa segni l'inizio di una nuova era postmillenniale. Il paradigma politico dell'era postbellica, in reazione agli orrori provocati dalla dottrina nazista della superiorità razziale, è stato la delegittimazione delle gerarchie de jure basate su tratti "ascrittivi" o permanenti, esternamente visibili, come nazionalità o colore della pelle, cui in seguito furono aggiunti differenza di genere e orientamento sessuale. Le colonie sono scomparse, la segregazione razziale è stata abolita, le donne hanno trovato spazio nelle professioni, e così via. Il meccanismo attivo in questi sviluppi è stata la legittimazione del risentimento. I risentimenti di quei gruppi ascrittivi che si potevano classificare come "sottorappresentati" sono stati coltivati, e i tradizionali mezzi di differimento rituali ed estetici sono stati screditati o sovvertiti. In questi casi legittimati collettivamente, il risentimento è stato considerato una prova di discriminazione di per se stesso. Qualunque sia la spiegazione delle condizioni reali che l'hanno sollevato, il risentimento dà un'impressione immediata (ma non definitiva) che vi sia un'ingiustizia. Il risentimento, infatti, è il mezzo con cui gli umani individuano le asimmetrie interpersonali, proprio come la percezione del dolore individua uno squilibrio dannoso nel nostro ambiente interno od esterno. La cultura giovanile, come ci si dovrebbe aspettare da un fenomeno culturale vitale, ha rappresentato un passo in avanti rispetto alla spinta all'integrazione operata dal movimento per i diritti civili: i giovani bianchi si sono culturalmente identificati, cosa che fanno ancora, con i neri, non vedendoli come integrati in una società indifferente al colore della pelle, ma come estranei allo status quo. È proprio la vitalità creata dall'identificazione culturale prima della classe lavoratrice e poi dei "giovani" con la cultura popolare afroamericana quella che fornisce la migliore spiegazione dell'ineguagliata esportabilità della cultura americana.

Il pericolo potenziale che il modello culturale postmoderno presenta è che il vuoto aperto dalla fuite en avant possa essere riempito da qualcosa di più pericoloso degli adolescenti ribelli. Quanto più il membro medio della società è in grado di definire se stesso mediante lo scambio di prodotti-segni, in tal modo neutralizzandosi come creatore di cultura, tanto più la cultura ai margini deve esagerare la sua irreversibilità - ad esempio nelle automutilazioni caratteristiche dell'arte della "performance" [vedi Rituali di sangue di Dawn Perlmutter, http://www.bibliosofia.net/files/RITUALI.htm, in questo sito, n.d.t.] - al fine di contrastare la pervasiva sensazione che ogni cosa sia reversibile, fungibile, scambiabile. La risposta estrema a questa frustrazione è il terrorismo, in particolare quello suicida così diffuso oggi, che è l'atto supremo del risentimento. Nella democrazia liberale, la stessa "equità" del sistema di mercato e di quello politico corrispondente spinge i suoi nemici a posizioni estreme. Nessun sistema è abbastanza "equo" da rendere ciascuno felice del proprio destino: è abbastanza difficile separare l'essere felici dal gioire della miseria altrui perché qualcuno non si aspetti da noi che aboliamo anche questa miseria.

Il grande problema socio-politico del XXI secolo sarà sicuramente quello dell'integrazione nel sistema del mercato di coloro che lo rifiutano e che, non essendo in grado di abbandonarlo, possono esprimere il loro rifiuto solo col ricorso alla violenza, con cui intendono dimostrare il suo fallimento. Più specificatamente, il risentimento contro il mercato denuncia quella che esso vede come la centralità vittimaria del mercato puntando il dito in direzione di una sottoclasse di individui che il sistema appare favorire e che sono designati come i suoi padroni. L'archetipo di questa operazione è l'antisemitismo moderno, che individua negli Ebrei i protagonisti del mercato cui si possono addebitare tutte le responsabilità quando le cose vanno diversamente da come si vorrebbe. Non è affatto una coincidenza il fatto che oggi gli Stati Uniti, che dominano l'economia globale, siano insistentemente associati ad Israele nei discorsi politici ostili (viene in mente quello di Bin Laden), fino al punto che ci si potrebbe permettere di inventare un nuovo termine ("antisemericanismo"?) per la combinazione di questi due odii.

Questa situazione suggerisce alcune tesi conclusive.

  1. La fine dell'era vittimaria segna l'inizio di una "nuova maturità" in cui la denigrazione automatica del centro e della sua autorità non viene più vista come appropriata. Noi stiamo entrando in quella che il mio collega Raoul Eshelman chiama era "performatista", in cui ogni persona riconosce il suo desiderio di centralità e tenta di persuadere gli altri "mettendo in scena" questa centralità. Noi sempre di più mettiamo in primo piano i nostri tentativi di (ri)creare noi stessi come oggetti estetici per la contemplazione e l'attrazione mimetica di altri. Le attività di body piercing e altre "modificazioni del corpo", che a differenza di quel che ci si attendeva continuano a svilupparsi, fanno del corpo il luogo di un'estetica: a differenza di precedenti modi di vestirsi e di acconciarsi i capelli, esse implicano un impegno somatico alla semiosi. Nel contesto di una collettività debole, gli individui sono spinti a reinventare propri riti di iniziazione.
  2. Se l'era postmoderna si è definita in rapporto all'Olocausto, l'esempio di vittimizzazione che non deve essere ripetuto, essa è stata altresì marcata dal ricorso al terrorismo in difesa suprema della "vittima". La reviviscenza attuale dell'antisemitismo entro un movimento che era iniziato come suo antidoto è un'importante indicazione che il paradigma vittimario che ha dominato l'era postmoderna non è più utilizzabile. Non ci possiamo più basare sul risentimento come prova di una condizione vittimaria. L'etica che da ciò discende richiede rispetto per i valori immediati così come per quelli supremi. Il fine non giustifica i mezzi: in particolare, il terrorismo deve essere condannato a prescindere dalla "oppressione" cui esso proclama di opporsi.
  3. Infine, il conflitto israelo-palestinese è la crux (in ogni senso del termine) del mondo postmillenniale. Se le due parti potranno trovare una strada per arrivare alla pace, una conseguenza della quale sarà l'integrazione di un nuovo paese arabo nell'economia globale, questo risultato costituirà un faro per il mondo nel suo tentativo di risolvere il grande problema del XXI secolo.

[Intervento svolto al convegno del Colloquium on Violence and Religion , Innsbruck, giugno 2003]

 

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