Luzi poeta della trascendenza 

Fabio Brotto 

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Molte sono le ragioni che rendono estremamente problematico qualsiasi discorso su di un poeta contemporaneo. Ma tra tutte la più potente è questa: ad essere problematico è anzitutto lo status, oggi, della poesia. La poesia lirica sembra, infatti, essere giunta alla fase finale del suo millenario processo: l’insignificanza l’attende, sembra. I lettori di poesia, il pubblico necessario dei poeti, sono una specie quasi estinta, o ridotta a misere riserve indiane: quasi soltanto altri poeti, o ristretti cenacoli, fedeli d’amore dall’incerto futuro. In verità questa crisi andrebbe interpretata sullo sfondo della crisi generale dell’alta cultura nella Postmodernità. In ogni caso, che il Nobel sia stato negato a Mario Luzi, e conferito invece a Dario Fo, deve essere visto come un evento pieno di significato. Il mio discorso su Mario Luzi non sarà una presentazione generale della sua vasta opera, che non è solo poetica, ma anche critica, (il suo esordio è del 1935, la sua ultima raccolta è del 1999). Il mio discorso su Mario Luzi investirà solo due temi, grandi però: la trascendenza della parola, la metafisica del mutamento. Sono due aspetti della poesia di Luzi, ma anche della poesia del Novecento, e della poesia in quanto tale. In Luzi, questi due temi si distendono, a mio avviso, sopra un abisso, che è il problema fondamentale degli umani: quello della violenza dell'uomo sull'altro uomo, volta all’espulsione e all’eliminazione dell'altro. E parlerò solo tramite due testi, o meglio tenterò di fare in modo che due testi vi parlino: il Libro di Ipazia e Sotto specie umana, che distano tra loro quasi trent’anni, gli ultimi del Novecento così che anche l’on. Berlinguer possa esserne contento.

Eugenio Borgna, uno psichiatra di profondo spessore umanistico, dice qualcosa, nel suo ultimo libro Noi siamo un colloquio (Feltrinelli, Milano 1999, p.120), che illumina la comprensione di quello che la poesia degli ultimi due secoli, diciamo da Friedrich Hölderlin, ha espresso: "Non c’è discorso, in psicopatologia, che non abbia bisogno delle parole dei poeti che frantumano la ruggine dei segni e li fanno lievitare nella loro leggerezza e nella loro profondità". Ebbene: tutti i più grandi poeti degli ultimi due secoli, e più quelli dell’ultimo, hanno aspirato ad un rinnovamento del linguaggio, ad infrangere le convenzioni linguistiche, e questo anche perché con il Romanticismo il vecchio patto tra l’artista e la realtà si è rotto. Lo mette in luce G. Steiner, in Vere presenze (Garzanti, Milano 1992, p.95). E ogni soggetto poetante ha anelato a creare il suo mondo. Quest’opzione fondamentale tuttavia a lungo andare ha portato a linguaggi murati, e conseguentemente ad una vera crisi di comunicazione tra i poeti e i loro potenziali lettori. Anche perché nel Novecento si sono vissute molte esperienze del proliferare di linguaggi portatori di menzogna, e ancora oggi siamo in presenza di una vera e propria metastasi della comunicazione, che ha indotto molti spiriti sensibili ad una forte, radicata diffidenza nei confronti della parola.

Ascoltiamo ora quel che scrive Vladimir Jankélévitch: "Il silenzio è ciò che permette di sentire una voce altra, che parla un’altra lingua : una voce venuta da altrove. Questa lingua sconosciuta, d’una voce sconosciuta, questa vox ignota, si nasconde dietro il silenzio, come il silenzio si nasconde dietro i rumori superficiali della quotidianità: perciò l’uomo attento, tramite una sorta di dialettica rivolta al profondo, dapprima scava attraverso lo spessore rumoroso che lo circonda per portare allo scoperto le pieghe trasparenti del silenzio, indi penetra all’infinito nella profondità del silenzio stesso per scoprirvi la più segreta di tutte le musiche perché se il silenzio è al di là del rumore, l’armonia invisibile, l’armonia criptica, esoterica è al di là del silenzio stesso (La musica e l’ineffabile, Bompiani, Milano 1998). Tutta la più grande poesia degli ultimi due secoli è stata anche, in vario modo, poesia del silenzio. Mario Luzi, dal canto suo, afferma l’originaria partecipazione del silenzio alla lingua, e nega ogni inimicizia tra silenzio e parola. In lui la vox ignota è pur sempre, strenuamente, una vox.

Se il contributo della poesia di Mario Luzi alla letteratura italiana contemporanea sta nella sua liricità a sfondo cosmico, nel suo essere volta al trascendente, come già riconosceva Geno Pampaloni nella sua introduzione al Libro di Ipazia (Rizzoli, Milano 1978, p.14.), dobbiamo a nostra volta riconoscere in questo un contributo di Luzi a quello che ci pare un ritorno alle origini della poesia lirica. Questa, infatti, originariamente era volta al sacro, e la sua forma iniziale era la preghiera. C’è oggi, secondo me, una sola teoria che dia conto in modo persuasivo dell’origine della poesia lirica, inquadrandola nell’origine dell’umano in quanto tale, ed è la Generative Anthropology di Eric Gans, uno sviluppo della teoria mimetica di René Girard, che ci potrà illuminare sia sulla vicenda di Ipazia, sia sul carattere di trascendenza intrinseco alla parola e massimamente alla parola poetica. Come è noto, per Girard religione e violenza sono legate inscindibilmente, perché violenta è l’origine del religioso: la religione scaturisce dal beneficio provato dal gruppo umano primitivo che ha scatenato la propria violenza su una vittima individuata entro il gruppo stesso, e dopo l’uccisione si avverte pacificato e unito. Secondo Gans il linguaggio, che distingue radicalmente l’uomo dall'animale, si origina nel momento in cui i proto-umani, riuniti intorno ad un oggetto di desiderio (preda) che sta per scatenare la violenza mimetica intraspecifica, emettono un segno, che provoca il differimento della violenza. Questo segno è la parola, che quindi nasce come allontanamento della violenza nel tempo, ma successivamente diviene strumento di accordo nella spartizione equa della vittima, e quindi può tornare a caricarsi di ambiguità in relazione alla violenza stessa, che si scarica sulla vittima designata come sparagmós ritualizzato, e quindi religioso. Ma come sacro si era costituito anche l’oggetto d'appetito, l'oggetto centrale, all'appropriazione immediata del quale la prima parola si dice come rinuncia all'immediatezza della consumazione. L'oggetto centrale allora è avvertito come inappropriabile, quindi dotato di potenza superiore, quindi pregabile. Si deve concludere dunque che il sacro è, proprio per questo, in sé originariamente ambiguo. Questa struttura ed eterna presenza del sacro nella storia della civiltà umana si riveste delle forme più varie, complesse e cangianti, ma l'occhio acuto e che vuole vedere ne troverà ovunque le tracce. La parola secondo Gans è poi in sé trascendente, perché il mondo dei segni si distacca dal mondo immanente degli appetiti e degli oggetti e acquista una durata eterna.

Voglio leggervi ora alcune righe molto interessanti, che descrivono l'uccisione di un essere umano.

[Ipazia] si strappò dai suoi persecutori e, saltando indietro, per un momento si rialzò completamente, nuda, bianca come la neve, contro la massa scura intorno a lei - vergogna e indignazione in quei grandi occhi chiari, ma neanche una goccia di paura. Con una mano stringeva attorno a sé i suoi ricci dorati; l'altro lungo braccio bianco era teso in alto verso il grande Cristo immobile, un appello (e chi potrebbe dirlo vano?) dall'uomo a Dio. Le sue labbra erano aperte a parlare; ma le parole che ne sarebbero dovute uscire raggiunsero solo le orecchie di Dio; perché in un attimo Pietro la gettò al suolo, la massa scura si chiuse di nuovo sopra di lei.

Questa terribile scena di linciaggio, di sparagmós, tratta dal romanzo Hypatia di Charles Kingsley, del 1853, oggi, forse ingiustamente, dimenticato (qui citato nell'edizione MacMillans, Londra 1881, p. 289), è la scena della fine di Ipazia, filosofa neoplatonica, sostenitrice della ragione e della tolleranza, uccisa ad Alessandria d'Egitto da una folla di cristiani fanatici nell'anno 415, dentro una chiesa. Pensare Ipazia significa pensare un pensiero terribile per un cristiano. Poiché significa pensare, come ha scritto Giancarlo Gaeta (in Religione del nostro tempo, Edizioni e/o, Roma 1999, p.31), che se si pone in Dio l'onnipotenza riguardo agli accadimenti mondani è inevitabile che un riflesso di essa ricada sulla sua Chiesa, e che quindi essa si senta investita di un compito storico assoluto, rispetto al quale ogni ostacolo che venga dal di fuori e ogni interna opposizione assumono valore negativo se non demoniaco. Pensare Ipazia significa, anche, fare i conti con un aspetto della religione che ha pervaso la storia dell'uomo, e da cui anche ora è difficile fuoriuscire: l'originaria connessione di sacro e violenza. Nel poema drammatico che Luzi dedica alla figura di questa donna, il racconto di Jone rende con poche parole l’essere fatta a brani della sventurata Ipazia.

Ebbene, parlava nell’agorá a molta gente.

Parlava di Dio presente e l’ascoltavano in silenzio,

con stupore, seguaci e avversari.

Ma irruppe un’orda fanatica,

mani e mani le s’avventarono contro,

le stracciarono le vesti e le carni, la spinsero nella chiesa di Cristo,

e lì la finirono. Lì agonizzò sul pavimento del tempio.

E poi fecero a brani quelle membra.

L’assunzione del tremendum, del massacro, della dilacerazione, da parte di una massa scatenata, di una vittima innocente, quest’evento ripetuto un’infinità di volte fin dalla fondazione del mondo, proprio in quanto con la fondazione del mondo umano è strettamente connesso, è un dovere del poeta. Occorre qui prendere atto che la tentazione dell’uomo è sempre stata quella di chiudere gli occhi. Luzi, invece, invita a guardare fino in fondo. L’essenza del suo cristianesimo è qui. E’ una lotta per la conquista della verità che percorre tutta l’opera del poeta fiorentino, e anche nella sua vecchiaia intellettualmente vigorosa non è per niente spenta, ma continua con una tensione concettuale ed espressiva senza pari.

 

Guarda.

Guarda bene.

Ancora.

Fino in fondo.

Non ritrarti, non coprirti con le mani

il viso, non comprimerti le palpebre,

non stornare il volto.

L’abisso d’accecante luce e tenebra

fumiga ancora tutto quanto.

La mischia

non è spenta, il sì e il no del mondo

s’incalzano e si affrontano

nel gorgo della vorticosa danza.

Se ne oscurano i pensieri,

non sempre,

talora ne emergono

luminosi come i tuoi

che sguardano

alti e mutano, ecco,

in chiarità

la pece delle nubi

e più quelle del cuore –

è un attimo,

e riconquista tutto il tempo,

lo incendia,

lo sacrifica

alla luce senza tempo –

o è tregua

dell’oscurità in agguato,

si scioglie,

si riforma,

per l’agone,

la resa, la vittoria

o il sogno di essa.

Oh angelos.

 

Quest'angelo di Luzi sicuramente non è imparentato con gli angeli eterei delle Elegie duinesi di Rainer M.Rilke, ma evoca nel lettore piuttosto quell'altra cratofania angelica, dura e agonica, che il patriarca Giuseppe incontrò presso lo Iabbok (Genesi 32, 23-32). Mario Luzi scrive il suo Libro di Ipazia nell'anno 1971, in un momento in cui quasi tutti gli intellettuali in Italia pensano che il futuro sia destinato ad essere il trionfo del socialismo marxista. E’ incappato fortunosamente nella figura, nel nome di lei, che visse in un epoca tanto lontana. Ma "la potenza casuale di un nome /oscura rispondenza, se anche dice poco / di lui che lo incarnò una volta: ben oltre quell’ombra" (Libro di Ipazia, cit., p.45) lo ha afferrato, e lo ha trascinato, anche, ad un’immersione nelle Enneadi di Plotino. Una lettura singolare per un poeta italiano all inizio degli anni settanta (e non solo per quegli anni, in verità). La luce plotiniana non abbandonerà più Luzi, se anche tra le sue ultime poesie possiamo leggere qualcosa del genere:

La purità dell’essere - ne aveva

e non ne aveva

lui barlumi

di prereminiscenza

o no, forse era

desiderio, imago.

A un tratto s’incendiò

in fondo ai suoi pensieri

quel mare di materia

luce aria, gli entrò nel labirinto

e in ogni cavità

del cranio quella musica,

quello splendore -

era però o pareva

aleatorio l’uomo

precaria la sua storia

in quella temperia.

Oh non sia come piaga

come cancrena

l’umano in questa numinosa sfera,

non sia stata l’Incarnazione spreco

pregò dal suo rigore

già di salma alle porte di che regno,

accolto, Porfirio, nell'amalgama?

Bruciato nell’unità? spero.

(Sotto specie umana, Garzanti, Milano 1999, p.25)

In questa poesia, in cui si dice di Plotino alle soglie dell’altro mondo, Luzi invoca la salvezza dell'umano, la sua non emarginazione, la sua non espulsione dalla numinosa sfera della luce metafisica. L’assunzione dell'eterogeneo, del diverso e del contrario, anche di ciò che appare corrotto e inferiore, nell'unità della vita, nella totalità concepita come insieme sfera parmenidea ed eterno flusso, questa paradossale mediazione è il modo luziano di vedere la realtà. Ciò non è affatto mutato dal tempo in cui scriveva il Libro di Ipazia. Il momento centrale del poema drammatico, infatti, il colloquio tra la filosofa neoplatonica ed una misteriosa (Libro di Ipazia, cit., p.69). La voce, la vox ignota, convince Ipazia che non deve rifiutarsi all accoglimento in se stessa di quel che è inferiore, basso, ostile. Vediamo questo bellissimo passo.

Ipazia a casa, sta riposando, e tra poco uscirà per l’ultima volta. Certamente in Luzi vi è un’eco della veglia di Gesù nel Getsemani.

IPAZIA Chi viene? Perché questa visita? Sono stanca e colma,

non posso accogliere niente e nessuno.

UNA VOCE Sono colui che è dovunque. E sempre.

Non vengo. Sono qui come in ogni parte.

IPAZIA Oh non ti riconosco. Ti pensavo diverso.

Il risuonare di una misteriosa voce nella stanza in cui Ipazia si trova in uno stato di lieve assopimento avviene dopo che qualcosa di silenzioso si è reso percepibile, dopo che si è manifestata una presenza, che non è ancora parola, che diviene voce solo a seguito della domanda di Ipazia. E questa presenza, che si autodefinisce eterna, ovunque presente, all’inizio non viene riconosciuta da lei.

UNA VOCE Sono come sei tu. Perché io sono te.

Te e altro da te. E’ questo altro che devi sopprimere,

perché anch'esso devi comprendere e far tuo.

La vox ignota chiede ad Ipazia di assumere in sé tutto, anche ciò che fino a questo punto le è apparso irrevocabilmente altro, e addirittura ostile e ripugnante.

IPAZIA Perché ti manifesti ora? Sono stanca

e mi credevo compiuta.

UNA VOCE Non lo sei ancora. C’è tutta l’enorme distesa del diverso,

del brutale, del violento,

contrario alla geometria del tuo pensiero

che devi veramente intendere.

IPAZIA Perché ora?

UNAVOCE E’ ora il momento.

Lo spessore d’ombra del tuo corpo si va assottigliando.

Ora sei più trasparente.

IPAZIA Vuoi dirmi che il diaframma tra la mente e il tutto sta cadendo?

Vuoi dirmi che morirò presto?

UNA VOCE Non c’è molto tempo. E devi giungere al tuo termine

nel punto estremo di chiarezza.

IPAZIA Oh sì…

UNA VOCE Piangi?

IPAZIA , Sì, piango. Tuttavia sono pronta.

UNA VOCE Allora guarda piangendo fuori di te.

IPAZIA Che cosa?

UNA VOCE Il mondo che tieni per nemico,

irriducibile alla sapienza,

ammasso di scorie velenose da gettar via.

E aggiunge poi:

L’avverso, il negativo,

i ciechi, gli ignoranti, i barbari

non solo, ma anche la loro opera:

tutto ciò che devi combattere

devi anche portare su di te,

accoglierlo nel tuo cuore e là dentro vincerlo.

Perché io sono anche là.

La costituzionale incapacità della filosofia di pensare la violenza (vedi F.Rella, Estetica del Romanticismo, p. 113. Ma tutta l’opera di R. Girard e di E.Gans e delle loro scuole va in questo senso, nel tentativo di giungere al pensiero della violenza.) deve essere superata. Ipazia giunge infine ad avere chiarezza su ciò che il suo pensiero puramente ontologico le aveva impedito di pensare.

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