Lo scomporsi e il ricomporsi delle Belle Immagini

Irrinunciabile Simone!

 

Elisabetta Liguori

 

elisabetta.liguori-lisi@poste.it

 

 

Il mio primo libro? Non il primo che ho letto, ma il primo che ho veramente usato, è stato l’autobiografia di Simone De Beauvoir, le sue “Memorie di una ragazza per bene”.

Ho anch’io desiderato essere un individuo angelico con il corpo di una donna e la testa di un uomo. Volevo essere lei, un’intellettuale tra gli altri, tra i suoi amanti guida, tra le sue lettere da Castoro infaticabile, tra le sue immagini. Le stesse da sbandierare prima, ridurre in frantumi poi. Ma il femminismo francese degli anni sessanta era già lontano quando io vivevo le mie fughe adolescenziali; era forse solo la rievocazione ossessiva di una ragazzina solitaria, provocata dall’acne. Eppure quelle immagini sono rimaste vitali nel tempo, e proprio questo perdurare consente di affermare oggi che certe pagine magiche restano un classico della letteratura. Simone scrive di donne. Scrive ancora, e sopravvive.

 

Ho riletto “Les belles images , recentemente rieditato da Einaudi .Un classico appunto

così si perpetua la catena di menzogne, mentre restano intatte a dispetto di ogni delusione, le belle immagini.

Quali sono le immagini? Quelle di un’esistenza da raccontare per sintesi, la cui narrazione viene abilmente giocata dalla scrittrice sul doppio registro della prima e della terza persona singolare. La medesima realtà, infatti, è vissuta e, nello stesso tempo, osservata dall’esterno. Lo sguardo è doppio, impietoso, contemporaneo.

Laurence è la protagonista di questa storia. Un giorno decide di guardare se stessa e comincia a vomitare senza poter smettere, per il disgusto che tale osservazione le provoca. Apparentemente ha tutto tra le sue mani: una famiglia, un marito devoto, due figli, un amante appassionato, una madre ancora giovane e appagata, un padre colto e in buona salute, amici interessanti, un lavoro gratificante, fiori multicolor in vasi di cristallo, bei mobili e vino di qualità a decantare. Essendo una pubblicitaria, meglio di chiunque altro conosce i meccanismi creativi, estetici, finzionali, del mondo delle immagini. Lei sa cosa deve apparire. Quello che non sa è: perché. Si chiede se può farne a meno, o, meglio, se una donna può fare a meno di certi trucchi di scena. Ma non se lo chiede poi così di frequente, perlomeno all’inizio. Solo a seguito di un viaggio in Grecia, tutto va misteriosamente in pezzi. Prendono piede così, odiosamente vessatorie, le prime domande. Diventano necessarie.

Un libro composto da belle immagini, questo, - viste in controluce, mescolate a dialoghi fulminanti, che si sovrappongono alla pura descrizione, e scene che interrompono il flusso naturale del pensiero, alterandolo, - un libro che, però, quasi per disgrazia, si trasforma, dopo la prima metà, nel libro delle domande e che con una domanda si chiude.

Laurence si  spazzola i capelli, si riassesta un po’ il viso. Per me, il gioco è fatto, pensa guardando nello specchio la propria immagine – un po’ pallida, coi lineamenti tirati. Ma le bambine avranno la loro sorte. Quale sorte? Nemmeno lo sa.

Perché un viaggio? Laurence vorrebbe tentare di ridiscendere lungo il filo del tempo vissuto, farlo in solitudine e intimità in compagnia dell’uomo che più di chiunque altro rappresenta per lei Origine e Mistero: il padre. I vecchi padri servono a questo. A ritornare. A volte. Il padre le propone una partenza e l’idea le pare meravigliosa, risolutiva. La verità: una meta raggiungibile e per nulla pericolosa. In fondo, pensa, che potrà mai accaderle di così terribile? Conoscere suo padre e ritrovare l’abbandono puerile dell’infanzia? Ben venga. Invece, nelle ragioni ritrovate del suo amore filiale, intravede tutta la sua orrenda ignoranza, la sua incapacità. Una sagoma nuova si sovrappone proditoriamente all’immagine di sé, fino ad allora ritenuta l’unica. Ne è scioccata. Si scopre diversa, estranea agli altri e a sé. Ripugnante, perché artificiale. È in questa capacità di amare o non amare, di scegliere un oggetto d’amore piuttosto di un altro, nel mentire, o nel tacere opportunamente, che si nascondono tutte le verità che la riguardano. È lì che deve scavare, a fondo, sempre più a fondo, con un coraggio e una forza che ancora non ha.

Nelle pagine di Simone la verità è il sospetto di una malattia che, diagnosticata, trasforma la realtà. Simone descrive una donna che diventa un’entità non più rappresentabile in alcun modo; lontana da se stessa e da quelli a cui era legata per immagine, per didascalia. Da tutti. Prima del viaggio lei è una Donna, dopo il viaggio lei è Laurence.

Il dramma: Laurence non è più raccontabile. La sua falsa esistenza è stata fino a quel momento spreco, prigione e vernice. Non è più bella, né guardabile. Cerca il silenzio e l’azione, dacché le immagini sono divenute inutili e oscene.

Comunque, quello del viaggio rivelatore, non è un espediente narrativo unico nel suo genere.

Ripenso ad Isac, montagna ghiacciata del film “Il posto della fragole” dell’imprescindibile Bergman. Anche Isak Borg, vecchissimo uomo, fa un viaggio con la nuora verso una meta fisica, il suo giubileo professionale, che si trasforma in un percorso esistenziale a ritroso. Ma lui è un uomo fortunato: trova qualcosa alla fine della strada. La sua è una sorta di conversione, che restituisce il senso della giovinezza, dell’isolamento, sottraendo peso al suo vivere. Isak scopre affetti famigliari fino ad allora colpevolmente ibernati dal suo egoismo inconsapevole. Il viaggio è una sorta di premio per lui.

Per Laurence è stato invece immaginato un destino difforme. Il viaggio la priva di ogni certezza, la punisce. Neppure l’amore, neppure amare d’amore, neppure la stretta di un uomo forte sulle reni, la preserva. Anzi quell’amore per un uomo o per un altro, come capita, quando capita, si rivela serraglio, obbligo ulteriore.

Qui siamo dinanzi a due storie narrate in epoche sorprendentemente vicine, ma differenti non solo nella tecnica. Una al femminile, l’altra al maschile. Anche l’età dei protagonisti, come il sesso, è profondamente diversa.

Laurence ha solo trent’anni, eppure il suo orologio biologico sembra senza lancette, proprio come nel sogno di Isak, ormai divenuto icona cinematografica. Il tempo sembrerebbe finito per entrambi, ma per Laurence neppure un’ultima gioia è recuperabile. La sua è una piccola morte senza cadavere. Avanzano solo domande: quelle con cui tentare di continuare ad educare le sue due figlie, con l’idea di volere garantire loro, sopra ogni altra cosa, un futuro autenticamente libero. Anche orribile, anormale, ma libero e vero.

Il vecchio Isak, in barba alla natura e ai suoi ottanta anni, in qualche modo sembra, invece, destinato ad una tardiva rinascita.

Diversa Fortuna.

Ricordo un’altra donna simile a Laurence: Sophie Bentwood di “Quel che rimane” di Paula Fox, testo bellissimo in cui le raffinatezze, gli umori, i sapori di una Francia estremamente musicale ed elegante, riecheggiano come una condanna. Sophie viene malamente morsa da un gatto selvatico. Il trauma che interrompe il filo della quotidianità è racchiuso in quel morso; è quello l’inciampo imprevisto, la malagrazia, la malattia appunto, la scoperta dell’irriconoscenza, dell’errore, della vacuità. Il tutto ovviamente incide sulla percezione che la protagonista ha di sé e del suo consolidato rapporto di coppia.

Sophie e Laurence si somigliano nella loro felicità, quanto nella loro infelicità. C’è nei loro caratteri il batterio della stanchezza, quella tipicamente femminile, che non rallenta gli arti, ma lascia spazio all’intuizione devastante del tempo, che passa nella ripetizione, e si avvia verso la fine, in un nido di comoda bambagia borghese. Entrambe si chiedono se il loro dolore imprevisto sia meritato o meno. Si chiedono se esista un rimedio. In qualche modo rifiutano se stesse: Sophie respingendo le cure alla mano ferita, pur rischiando la rabbia; Laurence negandosi il cibo e vomitando qualsiasi cosa ingerisca, anche la sua nuova anima. Sono donne felicemente deluse, fino all’evento traumatico, fino al danno improvviso e violento. Ma mentre Laurence può affrontare il suo dolore, utilizzandolo nell’interesse delle due figlie, Sophie è sola e può soltanto averne terrore, tentarne la negazione più caparbia, fino alla resa finale.

Quindi la maternità aiuta, verrebbe da dire. In una società che si avvia alla modernità in modo violento, crudele, falso, per quanto prevedibile, la maternità resta la salvezza. Forse anche oggi. Non c’è quindi futuro alcuno in assenza di maternità? O piuttosto è quella la vera causa del fallimento e di tanta disperazione?

Due scrittrici: La Fox punge, la De Beauvoir mostra. Basti pensare alle facce d’uomo, dipinte e perfettamente compiute dopo anni di vita di coppia; alla stasi o all’incalzo; all’uso di parole di duro ma elegante metallo della Fox o al ritmo lessicale che cambia repentinamente della De Beauvoir. Per entrambe la realtà sociale parla attraverso gli oggetti, i liquidi e le essenze di vario genere: il vino, l’alcool, l’eau de toilette, le vestaglie di seta, le varie tipologie floreali.

L’analisi della Fox è la voce di una America che si spinge verso il realismo, verso una cronaca dell’interiorità e del quotidiano, sempre più maligna.

Diversamente la scrittura della De Beauvoir è figlia di un percorso letterario intellettuale molto complesso: è espressione personale dell’esistenzialismo, del trionfo del pensiero soggettivo, del suo fluire libero, ma controllato da una prosa perfetta e multiforme. Per quanto ben lontana, per struttura e criteri, dalla letteratura c.d. spontanea che, dalla filosofia esistenzialista dei bistrot parigini aveva portato fin sulla strada, fino alla rivoluzione beat, fino al jazz più indiavolato e ad altri eccessi artistici, la sua scrittura mette comunque l’uomo, e il suo sentire caotico, al centro della parola stessa. Ed è al contempo fortissima denuncia sociale. Le sue immagini sono nitide, simboliche, da guardare come si fa con i manifesti sui muri, soprattutto perché costruite ad arte, almeno quanto lo sono quelle ben più recenti di Handke.

Il dolente Peter Handke, in lingua tedesca, descrive altre immagini: “Le immagini perdute” (Garzanti 2004) di una donna ricca e potente che decide di coinvolgere uno scrittore esperto perché racconti la sua vita, procedendo solo per visioni. Ne viene fuori un percorso esistenziale che passa attraverso un’acuta percezione della natura, alberi, cielo, acqua, fuoco, senza nomi propri, ma carica di luoghi significativi. Non si tratta di un romanzo naturalistico per il gusto di esserlo, ma dell’analisi realistica e dettagliata di una personalità attraverso il suo visus, che diventa anch’essa serrata critica contro la modernità mediatica e le immagini illusorie da cui siamo sommersi. Ciascun flash confonde un’identità con un’altra, consente l’evoluzione del racconto, trasformando libertà e desiderio in mera utopia.

Donne. Sono donne sempre meno libere, quindi, borghesi per lo più, ma non solo, quelle qui raccontate; comunque donne sempre. Con grandi occhi.

 

Così leggo Simone, e ritorno al mio passato, vado oltre, incontro altre scritture possibili, guardo al futuro. Chissà quanti lettori come me. Ritrovo il disagio esistenziale che fece di Sartre un mito e portò alla strumentalizzazione estrema del suo pensiero, innovatore e fascinoso, facendolo poi scivolare dai toni grigi a quelli sempre più neri. Invento atmosfere, che non ho vissuto, d’uomini gettati nel mondo, che s’incontrano, comunicano e diventano immortali. Dando fiato a me stessa. Sono prima donna, dopo moglie, poi ancora madre per mera Fortuna, immagine e parte di una visione collettiva e infine mi trasformo per paura e curiosità. Mi straccio come carta. Divento parte di un’epoca e ne vengo fuori. A parlar di famiglia e tempo, ancora e ancora, provo lo stupore che non cercavo.

 

CHIEDI ALLA PAGINA

 

BIBLIOSOFIA